Chi pensa che il
gusto sia qualcosa di molto personale e che il legame con il nostro piatto
preferito sia solo una faccenda consumata all'interno della cucina famigliare o
una questione di palato personale, è sulla cattiva strada. Quello del gusto è,
per dirla con le parole del sociologo Lucio Meglio, un vero e proprio "fatto sociale", estremamente ricco e
corrispondente ad una forma plastica di rappresentazione collettiva.
Questo il fulcro
attorno al quale si è sviluppato il seminario “Estetiche del
cibo e culture dei sensi”, tenutosi lo scorso 27 marzo presso
l'Università degli di Milano-Biccoca, incontro in cui filosofi, antropologi ed
esperti di tutto il mondo hanno parlato di diversità dei gusti in rapporto alle
differenze culturali.
Proposto
all'interno del percorso antropologico di Laboratorio Expo,
un progetto di Expo Milano 2015 e Fondazione
Giangiacomo Feltrinelli, l'incontro è stata l'occasione per indagare come
all'origine del gusto e del disgusto alimentare ci sia una costruzione non esclusivamente a livello corporeo e
individuale: infatti, l’esperienza
sensoriale verrebbe rielaborata socialmente attraverso un modellamento
culturale collettivo.
La dimensione culturale e simbolica del cibo
Le
caratteristiche della commestibilità e della capacità nutritiva non sarebbero
le uniche a definir ciò che viene consideriamo cibo: a queste si accompagnano
sempre una carica simbolica e una valenza sociale.
Ivan Bargna, antropologo dell'Università di Milano-Bicocca
e coordinatore scientifico dell'incontro, parla di una “biografia del cibo”: un percorso simbolico e di
significato che continua anche dopo che l'alimento venga ingerito. Se risulta
semplice pensare a una dimensione sociale del cibo nella pratiche di
produzione, distribuzione e di cucina, è meno ovvio, ma consequenziale, che
questa dimensione continui ad assumere significato anche quando il cibo viene
mangiato.
Il
gusto, ciò che proviamo nell'atto del mangiare, ha ancora una fortissima
valenza sociale: come
afferma Bargna, è un fattore che pesa nel rapporto tra l'uomo e l'ambiente in
cui ci procuriamo il cibo.
Quella
sociale è una dimensione che non perde di significato neanche una volta
ingerito il cibo: l'alimento, infatti, non sparisce, ma si e ci trasforma a
livello energetico ma anche psicologico.
Per
meglio comprendere questo rapporto tra gusto e società è stata proposta come
chiave di lettura l'antropologia sensoriale; strumento di ricerca e di analisi
antropologica che permette di mantenere distinti le due dimensioni del gusto:
quella corporea e quella sensoriale ed
esperienziale.
L'accesso al gusto, un diritto individuale
Bargna ha voluto sottolineare come, nell'epoca della globalizzazione, quella del gusto sia una questione non solo sociale, ma anche politica ed etica. Diritto individuale ed equità sono due categorie da dover tenere sempre conto in termini di accessibilità al gusto. Un concetto che ridefinisce le distanze tra la parte più ricca e la parte più povera del mondo: infatti, se quello dell'accesso al cibo è un problema relativamente ancora limitato nei paesi occidentali, non si può dir la stessa cosa per l'accesso al gusto. Il junk food, il cibo spazzatura, e i prodotti standardizzati hanno portato a larga diffusione la pratica del consumo di cibi caratterizzati da grandi quantità di grassi e di sale, elementi che comportano una standardizzazione e omologazione dei sapori. A tal proposito, è utile ricordare che uno studio di alcuni ricercatori della Florida State University, pubblicato nel 2014 sul Journal of Neuroscience, ha dimostrato che diete ricche di grassi possono compromettere persino le capacità olfattive. A sapori omologati si affianca anche una minor capacità del senso dell'olfatto.
L'olfatto, il senso che definisce i confini sociali
Alessandro
Gusman, ricercatore del Dipartimento di Culture, Politica e Società dell'Universtà
di Torino, ha spiegato che il senso dell'olfatto ha una valenza particolare
quando si parla di rapporto tra esperienza sensoriale, vissuta attraverso il
consumo di cibo, e la definizione delle identità sociali.
L'organo
olfattivo ha la capacità di definire quelli che Gusman chiama “paesaggi
olfattivi”: una suddivisione dei territori e delle popolazioni attraverso dei
confini olfattivi in base alla diversa pratica di cucina, quindi di odori
ricreati. Il cibo cucinato, mangiato e che odora il corpo umano assume una
capacità di definizione identitaria, attraverso la costruzione di confini
sociali definiti da gusti e aromi. Così come definisce la distanza identitaria,
l'olfatto assumerebbe un ruolo centrale anche nella creazione del disgusto
sociale, secondo Gusman: fondamentale il concetto di putrefazione come
marcatore sociale e morale. La putrefazione travalicherebbe, cioè, i confini
del cibo, andando a rappresentare il «marcio» presente all'interno di una
persona.
In
molte culture, infatti, attorno al naso si costruirebbe quella che Gusman
definisce come una “morale olfattiva”, in cui, così come viene percepito il
cattivo odore del cibo andato a male, il naso avrebbe la capacità di rivelare
l'immoralità di una persona.
Il cibo tra estetica e arte
Tra
le tante sfaccettature del rapporto tra esperienza sensoriale, gusto e società,
non poteva mancare un'analisi del cibo da un punto di vista estetico e
artistico. A tal proposito, due punti di vista contrapposti si sono incontrati
nel seminario.
Da
una parte Thomas J. Csordas, antropologo dell'Università della California, ha
mostrato alcuni esempi in cui ciò che noi definiamo cibo può assumere un
significato prettamente estetico, artistico. Attraverso la performance
artistica o anche la naturale decomposizione, l'alimento perde la sua valenza
di cibo e la sua capacità nutritiva, acquisendo una nuova natura di opera
artistica unica. Uno degli esempi più significativi è la banana sulla cui
buccia è disegnata la creazione di Michelangelo, opera che muta con l'evolversi
della fase di maturazione del frutto.
Nicola
Perullo, dell'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, ritiene invece
che ci possa essere un connubio tra cibo, arte e cucina anche nel quotidiano:
quella proposta da Perullo è una nuova esperienza estetica in cui la cucina è
una pratica artistica che si svincola sia dal carattere di eccezionalità,
essendo pratica ripetuta ogni giorno, sia dalla predominanza della percezione
visiva. Proprio nella quotidianità della pratica del cucinare, estetico e
ordinario troverebbero una nuova congiunzione, con la creazione di un intreccio
continuo tra nutrizione e piacere corporeo a diversi livelli.
Quello
di cui parla Pollenzo è una “estetica della funzionalità”, in cui la cucina
diventa opera d'arte nella sua accezione ambientale e sociale: al centro
dell'esperienza sensoriale e artistica c'è il concetto di relazione, prima tra
colui che cucina e coloro che consumano, in secondo luogo, tra chi mangia e
l'oggetto mangiato. In questa nuova estetica assume rilevanza artistica anche
la traccia che il cibo lascia nel nostro corpo a livello energetico e
metabolico.