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La medicina narrativa tra arte, scienza e filosofia

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Il 18 e 19 febbraio si svolge a Firenze, presso l'Ospedale Meyer, il convegno internazionale: "Un nuovo umanesimo scientifico. Sette capitoli di medicina narrativa e medicina di precisione". Il convegno potrà essere seguito in streaming anche su scienzainrete. Riportiamo un estratto dell'intervento di Alberto Granese, volto ad approfondire i diversi sensi che la medicina ha assunto nel corso dei secoli e nell'avvicendarsi delle filosofie.

Distinguerei innanzitutto tra due aspetti della narrazione, entrambi riferibili al tema di una medicina umanistica considerata sotto il profilo generale di un nuovo umanesimo scientifico. Il concetto e la pratica della narrazione già di per sé orientano a considerare la scienza (e in particolare la scienza medica) non solo sotto il profilo rigorosamente epistemico, ma anche avendo riguardo alla concretezza del vissuto umano nella varietà delle sue forme e delle sue manifestazioni. Nella narrazione hanno posto, e assumono rilevanza, elementi non suscettibili di verifica e di dimostrazione e che, diversamente dalle ipotesi e dalle teorie scientifiche, hanno ben poco a che fare con quelle che Aristotele definiva proposizioni “apofantiche”, distinguendo fra la razionalità apodittica e la razionalità dialettica. Ciò non significa che la narrazione debba o possa prescindere da una qualche forma di verifica della corrispondenza alla realtà dei fatti. Si deve però riflettere al peculiare carattere di questa corrispondenza. Il “verum” della narrazione - o della produzione poetica - non è mero “rispecchiamento”. Esso presuppone anzi e implica un distacco dalla concretezza e dall’immediatezza e dall’oggettività epistemica e attinge altri livelli di verità, a cui  dà accesso la fantasia creativa dell’ “inventio” o dell’ispirazione poetica. Da questo punto di vista assume rilevanza il richiamo ai prodotti letterari in cui si tratta narrativamente della malattia come condizione esistenziale e di ciò vi sono esempi molteplici: da Tolstoj a Cechov, da Flaubert a Thomas Mann, da Virginia Woolf a Pirandello, da Musil a Bernanos, a Cronin, a Céline, a Romains, a Bulgakov, a Benn, a Elif Shafak, agli italiani Buzzati, Moravia, Berto, Tobino, Pavese, Pasolini, con precedenti remoti e importanti come Robert Burton, Samuel Butler, Samuel Pepys, Daniel Defoe, (entrambi autori di testi concernenti la “Great Plague”, la “grande peste” di Londra del 1665-1666), Molière. Tornando indietro di secoli potremmo fare riferimento alle Pitiche di Pindaro (Asclepio è artefice di sanità e di forza, Apollo insegna come si risanano i morbi), alle Georgiche di Virgilio (Chirone conosceva il segreto delle erbe salutari che trasmise a Esculapio), al poema De rerum natura di Lucrezio (98-54 a.C.) che si conclude con riflessioni sulle cause dei morbi e con la descrizione del “fiato di morte” (la peste), caduta sul suolo di Cècrope, primo e mitico re di Atene. Va anche ricordato Giovenale (100 d.C.).

Un secondo aspetto della narrazione è quello che riguarda il portatore di una patologia, il quale si affida al medico e si confida con lui, parlandogli delle proprie sofferenze, riferendo sintomi, manifestando le proprie inquietudini, le proprie preoccupazioni, le sue ansie, le sue angosce, il suo disagio esistenziale. E’ questa la narrazione che impegna il medico all’ascolto e non solo per acquisire informazioni utili alla diagnosi e per poter procedere a un’anamnesi, ma con lo spirito di chi è consapevole di avere davanti a sé una persona, nella sua integralità e complessità, che della persona  ha i problemi, le sensibilità, le aspettative, le debolezze, la fragilità. E’, o dovrebbe essere questo, l’atteggiamento del medico che non disattende le raccomandazioni e i precetti dell’etica e della deontologia ippocratica, da cui può in qualche misura prescindere, viceversa, la scienza medica quale l’intendeva nell’800 Claude Bernard, influenzato, com’è noto, dal  pensiero e dal modello filosofico positivistico allora prevalente. Si deve peraltro considerare che maestro del “deontologo” Ippocrate era stato Alcmaone di Crotone (VI secolo a.C.), primo assertore del carattere scientifico delle teorie e delle pratiche mediche. Così come non va dimenticato che il primo modello di università (sede elettiva della ricerca e dell’insegnamento) erano state la scuola medica salernitana (900 d.C.), e la scuola medica di Montpellier (1100 d.C.), ben prima dell’ “Alma mater” bolognese (scienze giuridiche) e della teologica Sorbona di Parigi.

Quanto finora prospettato rinvia a un altro quadro e a un altro livello di considerazioni. E’ ovvio che il trattare della medicina umanistica come disciplina teorico-pratica, riferibile oltre che alla scienza, all’arte e alla filosofia, impegna a una considerazione critica dei rapporti fra la scienza più generalmente intesa e i vari modelli di pensiero filosofico. C’è una plurimillenaria storia di intrecci fra  la pratica medica e la speculazione filosofica. Aristotele era un medico. Altre figure di medici-filosofi e di filosofi-medici sono presenti oltre che nella cultura dell’antica Grecia in quella ellenistica, nel pensiero islamico e giudaico. Ruggero Bacone (1214-1294), generalmente considerato un precursore della scientificità sperimentale, teorizzava una medicina teologica oltre che astrologica.

Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198) erano entrambi medici e lo erano stati Mosè Maimonide (1135-204), Roberto Grossatesta (1175-1253), Pietro Ispano (1210-1277), Pietro d’Abano (1250-1316), Gerolamo Fracastoro (1470-1533), Bernardino Telesio, (1509-1588). Lo erano stati Sesto Empirico (160-210), Plotino (203-270), Isidoro di Siviglia (560-636). Lo fu più tardi John Locke, autore del saggio Morbus (1666), ispirato alle dottrine di Galeno, Helmont, Paracelso, oltreché di fondamentali e ben note opere filosofiche. Si potrebbe anche far riferimento a Mandeville, medico “prestato” alla filosofia morale e autore della celebre Favola delle api. Vizi privati e pubblici benefici (1705), a Cabanis, medico, filosofo della medicina interessato al rapporto corpo-mente e a quello tra fisiologia e psicologia (1757-1808), a Kant (De medicina corporis), al cardinale Newman, filosofo e teologo inglese, che di medicina trattò in una conferenza tenuta all’università di Dublino - di cui era rettore - intorno alla metà del XIX secolo, ai nostri contemporanei, Piaget, Canguhilem, Foucault, Ricoeur.

Se parliamo di una medicina strettamente connessa fin dalle origini ai modelli filosofici, dobbiamo anche tener conto delle posizioni maturate in tempi a noi molto più vicini, nella modernità remota e recente, e delle riflessioni - caratterizzate da contrapposizioni e polemiche  - moderno-contemporanee sulla razionalità scientifica.  Il filosofo idealista tedesco Schelling colloca la medicina, con la giurisprudenza e la teologia, al centro del sistema dei saperi e le riconosce il posto fondamentale occupato nell’architettura delle scienze umane. Vi sono state, peraltro, violente requisitorie “filosofiche” contro la medicina da parte dell’illuminista-romantico Rousseau (nel suo famoso Emilio - 1762 - egli la definisce “arte pericolosa, inutile e menzognera, divertimento di persone oziose e scioperate”) e dell’epistemologo contemporaneo Feyerabend (Dialogo sul metodo - 1979). Entrambi sono ostili, per motivi diversi, ma in qualche modo convergenti e assimilabili, a una razionalità “metodica” e a una scienza “di precisione”. Feyerabend, dichiarandosi ammiratore di Paracelso, parla della medicina “come di una perniciosa superstizione”. Ivan Illich - storico, filosofo e pedagogista austriaco - ha sferrato un duro attacco contro i medici, parlando di “Nemesi medica” e di “espropriazione della salute”. Una satira pungente della pratica medica è l‘opera teatrale del citato Jules Romains Il trionfo della medicina (1923), il cui protagonista - il Dottor Knock - afferma che “non ci sono persone sane, ma solo persone malate che credono di essere sane”.

Nella seconda metà del XX secolo si è verificato il passaggio da una filosofia improntata  al più rigoroso oggettivismo  (neo-empirismo, neopositivismo logico) a un pensiero (da alcuni definito “debole”) connotato non già come  disciplina epistemica, ma come  ermeneutica (teoria e pratica dell’interpretazione). Questa svolta ha avuto quale implicazione il passaggio dal rigorismo epistemico della ragione “forte”, cosiddetta “classico-laplaciana”, a una razionalità “flessibile” e “sensibile” che per alcuni aspetti ha potuto configurarsi come “irrazionalità”, o preter-razionalità, nel senso di una disponibilità a considerare e a riconoscere i motivi e i fattori “non razionali” (emozioni, desideri, sentimenti…) che stanno alla base dei comportanti umani, delle stesse costruzioni razionali e delle pratiche connesse (non esclusa la ricerca scientifica).

La considerazione di questi fattori non è priva di rilevanza in ciò che concerne il tema della medicina umanistica “patient centred”, che non può evidentemente prescindere da fattori quali il sentimento, l’emozione, il desiderio, l’aspettativa, la speranza, tutto ciò che Vassilios Fanos ha trattato nel rappresentare magistralmente, con i suoi collaboratori, i problemi della depressione “post-partum”, offrendo un significativo esempio di connessione fra rigore scientifico e sensibilità umanistica, anche declinata in senso storicistico. Ciò non significa rigettare in blocco il modello proposto dal già citato Claude Bernard e quanto di rigorosamente scientifico le pratiche mediche presuppongono ed esigono, ma sforzarsi di integrarlo criticamente e interpretativamente. Sarebbe certo del tutto incongruo un approccio alla medicina che volesse riportare in onore la medicina pre-scientifica o addirittura le pratiche mediche poste in essere da sciamani e guaritori nelle società cosiddette “primitive”, con metodi  incompatibili  con la scientificità di tipo baconiano, galileiano, newtoniano, così come sarebbe insensato riprendere e voler  attualizzare le teorie  che fanno consistere la salute fisica nell’equilibrio degli umori e nella regolare combinazione delle sostanze che compongono il corpo.  Sarebbe del pari inaccettabile riprendere il tema della secentesca medicina “helmontiana” e della teoria secondo la quale la malattia si caratterizza come “affliction”, decretata quale punizione conseguente a disordini e a trasgressioni di carattere morale. Si pensi alla terribile peste di cui narra Euripide, scatenata per punizione della Tebe governata dall’Edipo Re dagli dei incolleriti per il crimine di cui lo stesso Edipo  si era reso responsabile.

Non è priva di rilevanza, peraltro, una riflessione sul tema dell’ “affliction” declinata come approccio filosofico al tema della sofferenza e a quello del rapporto fra la malattia (male fisico) e il male morale (osserviamo “en passant” che nella cultura dell’Occidente cristiano si è attribuita alla sofferenza - quella del Cristo crocifisso - la positività di un valore e di un fattore salvifico - i martiri cristiani sono considerati “testimoni”). Diverso è il caso del buddismo. L’attuale Dalai Lama ha fatto recentemente rilevare la differenza fra il Cristo sofferente e il Budda sorridente.


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