Aveva ragione Pietro Giordani, quando da Piacenza il 21 settembre 1817 scriveva a Leopardi di avere «innanzi agli occhi» la sua «futura gloria immortale» (1); lui, il poeta dell’Infinito, classico tra i classici, la cui lettura, nelle felici definizioni calviniane, è sempre una rilettura, un confronto inesauribile, che si alimenta della linfa trasudante dalle opere, in un perpetuo divenire. L’eco della parola leopardiana rimbomba nell’atmosfera ovattata di una contemporaneità sorda al pensiero; potente e lucida, sfida a confrontarsi con gli interrogativi aporetici che sintetizzano un’esperienza poetica e filosofica: le domande del pastore errante e dell’Islandese.
Sull’onda della renaissance leopardiana degli ultimi anni, studiosi e scrittori continuano a misurarsi con il grande Recanatese. Lo fanno Edoardo Boncinelli e Giulio Giorello con L’incanto e il disinganno: Leopardi. Poeta, filosofo, scienziato, per i tipi di Guanda.
Il biologo e il filosofo scavano nei testi leopardiani interpretando la statura del Recanatese nella propria articolata complessità, sfuggevole a etichette che, applicate, si fanno evanescenti. Leopardi non è il «pessimista» o il «poeta romantico», consumato nelle pagine scolastiche di manuali arroccati su definizioni stantie, ma è tutto insieme condensato nella multiformità di un pensiero in cui fluttuano incessanti filosofia, poesia e scienza, quella scienza moderna che ha spogliato lentamente l’uomo della rassicurante presunzione biblica di essere figlio privilegiato di Dio.
Boncinelli ne parla nel primo saggio del volume, L’Uomo e la Natura- Leopardi e la filosofia, insieme all’analisi di concetti sommi come il male, la civiltà, il tedio, spiegandoli attraverso ricche citazioni dai testi leopardiani e interpretandoli sulla scia della propria formazione scientifica, con esiti interessanti proposti al lettore in una piacevole chiave divulgativa che caratterizza l’intero volume. La scienza di Copernico, Galileo e Newton, così influente nella poetica leopardiana, ritorna nel secondo saggio, Desiderio di infinito - Leopardi e la scienza, firmato da Giorello.
Copernico, Galileo e Newton diventano gli interlocutori privilegiati del poeta e del filosofo: il primo guarda la luna con spirito scientifico, senza fascino mitologico, e la luna, ormai ridotta a mero satellite terrestre, non risponde alle domande esistenziali dell’uomo; il secondo è pronto a riconoscere il tramonto delle certezze antiche di fronte alle conquiste della scienza moderna e il relativismo espresso dallo sguardo leopardiano, secondo Giorello, «non distrugge altro se non la pretesa assolutezza di qualsiasi dottrina». Il filosofo lo analizza e, con puntuali richiami ai testi, lo confronta con quello «Scetticismo ragionato e dimostrato» definito nello Zibaldone. Uno scetticismo che contraddistingue il modo di porsi del poeta verso la realtà e verso le certezze cui l’uomo si è appoggiato per edificarla. Uno scetticismo tra le cifre più alte di una «filosofia tipicamente non conciliatrice», come riconosce opportunamente Giorello. Un «sano scetticismo», che Boncinelli invita a seguire, in chiusura del volume.
L’excursus analitico degli autori ha il merito di riflettere sulla modernità di Leopardi, laica e dispensatrice di affanni, perché pone l’uomo, nudo, di fronte alla vertigine cosmica. È la posizione scomoda e consapevole di sottrarre all’uomo il delirio di onnipotenza divina.
Possibile, se riconsideriamo il nostro essere nel mondo, se accogliamo la nostra indiscutibile, terrificante precarietà e i suoi limiti innegabili che soli possono darci forse la giusta misura delle cose e ridimensionarle. Partendo dal nostro pianeta, «questo oscuro/ Granel di sabbia» (2).