La mostra “Leonardo mai visto” al Castello Sforzesco di Milano consente di apprezzare il restauro, ancora in corso, del secondo capolavoro di pittura murale di Leonardo da Vinci dopo il Cenacolo. Un restauro esemplare, che ha portato inaspettatamente alla luce nuove decorazioni e abbozzi grazie anche all’impiego del laser. Nella foto: “Sotto l’ombra del Moro. La Sala delle Asse” Rendering proiezione multimediale Progetto di Culturanuova s.r.l. - Massimo Chimenti.
Non sappiamo cosa abbia visto Luca Beltrami quando entrò nella Sala delle Asse del Castello Sforzesco di Milano intorno al 1894. Stranamente nessuna fotografia ne documenta lo stato. Eppure, varcando la soglia della sala posta nella torre nordorientale del Castello, Beltrami capì, grazie ai documenti, che lì probabilmente si trovava un’opera di Leonardo e della sua scuola, coeva al Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. Il descialbo (http://www.silviaconti.it/descialbo/) effettuato da Paul Müller Walde permise di mettere in luce i resti di un arioso pergolato di gelsi a coprire la volta in un intreccio di rami e foglie, un filo variamente annodato nel viluppo vegetale che per diciotto tronchi scende lungo le pareti.
Iniziata nell’aprile 1498, Leonardo la lasciò incompiuta perché costretto a lasciare Milano nel settembre 1499 insieme a Ludovico il Moro per l’arrivo dei francesi, nuovi padroni della città. Non è dato sapere dunque in che stato si trovasse la Sala delle Asse quando il Beltrami mise mano al restauro-rifacimento del Castello, palestra dei più grandi artisti italiani, dal Filarete al Bramante. Eletta a residenza della corte ducale da Ludovico Maria Sforza detto il Moro, il Castello passò dai francesi agli spagnoli, quindi agli austriaci tornando infine in mani italiane, adibito di volta in volta a fortezza, caserma, stalla.
E così anche la Sala fu coperta nei secoli da diversi strati di intonaco.
I restauri novecenteschi
È certo però che quando Luca Beltrami lavorò al recupero della Sala, sulla parete nordoccidentale fosse apparso il disegno di un tronco che si fa strada fra le pietre di una balza, quasi a volerle divellere secondo il gusto dell’epoca (Mantegna, ma anche Dürer). Preso per un abbozzo più tardo, il monocromo (come poi fu chiamato) non fu incluso nel restauro della volta che Beltrami commissionò a Ernesto Rusca nel 1901. E per fortuna, visto che il restauro della volta fu una ridipintura “di pesante meccanicità”, come scrisse il Berenson, che si sovrappose al capolavoro quattrocentesco e che venne successivamente alleggerito da un secondo restauro realizzato nel 1955 da Ottemi della Rotta.
Probabilmente, nelle intenzioni di Leonardo, il tutto doveva giustapporre la misteriosa forza della Natura rappresentata dal monocromo con la “simmetrica chiarezza dell’ordinamento umano” (ancora Berenson) della pergola, motivo iconografico ripreso dagli antichi e divenuto canone nei poeti di corte, che lasciò un segno duraturo nell’arte e nella decorazione di simili sale dei secoli successivi.
Milano, Castello Sforzesco, Sala delle Asse - Volta (dopo i restauri di E. Rusca e di O. Della Rotta). © Comune di Milano, tutti i diritti riservati (Foto Haltadefinizione® 2012).
Il nuovo restauro e il ruolo del laser
Per decenni la Sala delle Asse si è mostrata al pubblico del Castello nella versione del restauro di Ottemi della Rotta del 1955. Sempre più studiata dagli specialisti per il probabile contributo di Leonardo e della sua “famiglia” (come l’artista chiamava i suoi aiuti), ma sostanzialmente dimenticata, la Sala deperiva anno dopo anno. Fino a quando, nel 2006 un finanziamento della sezione milanese di Italia Nostra rendeva possibile un cantiere di studio dell’opera effettuate da Anna Lucchini sotto la direzione dell’allora direttrice del Castello Maria Teresa Fiorio, in collaborazione con l’Opificio delle Pietre Dure di Firenze. Le indagini chimiche e di diagnostica fotografica mostravano un diffuso inquinamento salino che stava pregiudicando irreversibilmente il monocromo, mentre la pergola nella volta, trasformata dall’intervento di Rusca, rivelava, attraverso indizi, come parte della pittura quattrocentesca fosse ancora recuperabile. Peraltro, il confronto fra la pittura antica in alcune lunette della sala delle Asse con parti vegetali del Cenacolo rivelavano, secondo Lucchini, una tecnica di esecuzione simile, per stesure successive, di pigmenti verdi e colpi di luce su una base scura, in terra d’ombra e nero.
A quella prima diagnosi seguiva, alcuni anni dopo, il nuovo restauro. Avviato nel 2013 ad opera dell’Opificio delle Pietre Dure e sotto la direzione di Michela Palazzo e Cecilia Frosnini (http://www.saladelleassecastello.it/protagonisti/), il restauro ha riguardato prevalentemente le pareti da cui è stata rimossa la spalliera in legno risalente all’intervento dello studio d’architettura BBPR negli anni cinquanta, e che ha riportato alla luce con la rimozione delle scialbature degli ultimi secoli i disegni preparatori dei tronchi nodosi che sorreggono la pergola, rami, tracce di arbusti e la sorpresa di un gruppo di case in lontananza. Sulla volta, invece, il restauro ha alleggerito le ridipinture successive per indagare la pittura originaria; un’attività che probabilmente occuperà i restauratori negli anni a venire.
Un restauro complesso, insomma, che ha svelato nuovi tratti del capolavoro millimetro dopo millimetro con un lavoro sfinente di anni. Anche grazie all’impiego del laser, con cui la specialista vicentina Anna Brunetto è intervenuta per rimuovere strati di descialbo particolarmente resistenti e, in alcune parti, le ridipinture novecentesche.
Restauratori al lavoro con il laser.
Ci è più familiare pensare al laser in fisica o in medicina, dove a diverse lunghezze d’onda viene ormai comunemente impiegato in chirurgia, odontoiatria, urologia e in molte altre specialità. In realtà il laser viene utilizzato da qualche decennio anche nel restauro dei beni culturali, ma mai forse con risultato così straordinari come nella Sala delle Asse.
“Si è scelto il laser di diversi tipi per la sua elevata capacità di discriminazione e gradualità di rimozione degli strati” spiega Brunetto. “Gli strati di scialbo si presentano disomogenei, con uno spessore variabile tra 400 e 800 micron, molto tenaci e fortemente aderenti all'intonaco di preparazione sottostante, che invece si presenta molto tenero e compromesso. La difficoltà principale è che non conosciamo la localizzazione delle possibili tracce di decorazione, e neppure la loro forma e quantità. Quindi la maggior parte delle volte, quando si trova una traccia che può essere a carboncino o a pennello, la si circoscrive e la si segue con il laser”.
A seconda dei casi, sono stati impiegati laser a neodimio (con lunghezza d'onda a 1064 nanometri), a olmio (2100 nanometri) e a erbio (2940 nanometri). Come microchirurghi, i restauratori procedono con un primo alleggerimento degli strati più corposi di intonaco con bisturi. Quindi, conclude Brunetto, “a seconda delle zone si può intervenire in più modi: o con gli strumenti a neodimio scelti a seconda delle dinamiche di ablazione fototermiche e fotomeccaniche più appropriate per quell'area, oppure utilizzando un dispositivo laser a erbio, con il quale lo scialbo viene indebolito per uno spessore di pochi micron, e successivamente rimosso col bisturi”.
Ed ecco come vediamo oggi la Sala nel nuovo allestimento della mostra “Leonardo mai visto” (16 maggio 2019 - 12 gennaio 2020) con cui il Comune di Milano e la direzione del Castello hanno voluto ricordare il cinquecentesimo anniversario della morte dell’artista, anche attraverso una scenografica installazione multimediale curata da Francesca Tasso e Michela Palazzo e realizzata da Culturanuova di Massimo Chimenti. La volta dipinta a pergola, con stemmi e quattro targhe commemorative, i tronchi che scendono fino all’altezza di quattro metri dove l’opera s’interrompe, incompiuta e in parte cancellata da intonaci posteriori fino a terra; una tribuna da cui si può apprezzare da vicino lo splendido monocromo restaurato.
Milano, Castello Sforzesco, Sala delle Asse - Monocromo (particolare della radice), post 1498. © Comune di Milano, tutti i diritti riservati (Foto Mauro Ranzani 2015).
Una storia lunga cinque secoli
Fino a quando Leonardo non si mise all’opera nell’aprile del 1498, la Sala era rivestita di assi di legno a tutta altezza per riparare la corte di Ludovico dal pungente freddo umido degli inverni milanesi. Smontate le “asse” e allestite le impalcature, Leonardo cominciò probabilmente l’opera dalla volta a scendere. Secondo contratto, avrebbe dovuto finire nel settembre del 1498. Cinque mesi paiono un po’ pochi anche per un artista instancabile come Leonardo, che aveva appena concluso il Cenacolo nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, e che prestava parecchi altri servigi al Moro: l’ideazione di costumi, gioielli, scene per le feste a corte, ma anche macchine da guerra, opere urbanistiche, e poi bozzetti, studi su piante, ritratti… Le cose, insomma, andavano per le lunghe.
La Sala delle Asse doveva servire da luogo di ricevimento e di rappresentazione politica del ducato appena concesso dall’imperatore Massimiliano I d’Austria. La Sala si trova nella Torre Falconiera giusto a fianco delle stanze private, a pochi passi dal giardino ricavato per la moglie Beatrice d’Este e il Barco (la tenuta di caccia), ingentilita a ridosso del castello da un laghetto, siepi e boschetti, di cui la pergola della Sala rappresentava l’illusionistica prosecuzione interna.
Le feste, nel volgere del 1498 - come la mitica festa del Paradiso di pochi anni prima - erano in realtà ormai un pallido ricordo in una corte intristita dalla morte nel 1497 di Beatrice per la nascita del terzo figlio, con Ludovico in lutto e sempre più preoccupato per la instabilità del ducato e l’incombere dei francesi. Restava vivo però il bisogno in Ludovico di coronare il sogno di Galeazzo Maria Sforza e rafforzare con nuove decorazioni la magnificenza di una corte, crocevia di dignitari e ospiti di riguardo.
Ancora sotto l’influenza della recente visita a Mantova, in particolare della Camera degli Sposi del Mantegna, e del viaggio nelle ville di delizia Estensi, ricche di richiami mitologici, paesaggi e verzure d’ogni genere, Ludovico aveva affidato a Leonardo e ai suoi aiutanti l’unica altra sua pittura murale dopo il Cenacolo, oggi sopravvissuta. Leonardo aveva lavorato anche nelle Salette nere, ma nulla è rimasto di tale decorazione.
Il fatto che Leonardo abbia contribuito alla progettazione ed esecuzione dell’opera è confermato dal ritrovamento della lettera del cancelliere ducale Gualtiero da Bascapé, e in particolare da questo passaggio:
“A la saleta negra non si perde tempo. Lunedì si disarmerà la camera grande da le asse (…) Magistro Leonardo promete finirla per tutto Settembre, et che per questo si potrà etiam goldere: perché li ponti ch’el fara lasarono vacuo de soto per tuto”.
Da questa ardita impalcatura sospesa ci si si era messi a disegnare e poi dipingere a tempera la volta, quando i francesi irruppero a Milano nel 1499. In quel momento, con tutta probabilità la volta mostrava all’apice lo scudo con gli stemmi inquartati degli Sforza (aquila nera e biscione) e degli Estensi (aquile e gigli) da cui si dipartiva l’intreccio di foglie e bacche di gelso, mentre sulle pareti restavano sparse tracce a carboncino di paesaggio da traguardare fra i tronchi della pergola.
Milano, Castello Sforzesco, Sala delle Asse - Volta, particolare dello stemma centrale (dopo i restauri di E. Rusca e di O. Della Rotta). © Comune di Milano, tutti i diritti riservati (Foto Haltadefinizione® 2012).
La scelta del gelso come specie prevalente della pergola ha molti significati che si intrecciano. In latino il gelso è morus, come il Moro, così chiamato perché scuro (“sozo”) alla nascita, come si era lamentata la madre Bianca Maria col marito Francesco Sforza subito dopo il parto. Il gelso era un probabile omaggio al duca, quindi, ma anche all’industria del baco da seta, molto diffusa nel ducato (Ludovico l’aveva appena fatto piantare anche nella tenuta di campagna, la Sforzesca). Non possono mancare peraltro i significati morali propri del gelso, la “pianta più saggia” secondo la Storia naturale di Plinio il Vecchio, perché l’ultima a mettere fuori i fiori in primavera, senza rischiare di soccombere alle gelate. Dal morus deriverà il nome che i milanesi diedero alla Sala “dei moroni”.
Incompiuta per caso o per scelta?
L’arrivo dei francesi a Milano con Luigi XII, nel 1499, scompaginò i piani anche nella Sala delle Asse, iniziata appena un anno prima e lasciata dunque incompiuta. Leonardo si allontanò da Milano insieme alla corte degli Sforza. Ma in realtà vi torno dopo alcuni anni passati a Mantova, Venezia e Firenze, nel 1508, invitato dal governatore francese Charles d’Amboise, dove restò fino al 1514. Eppure non riprese l’opera lasciata incompiuta. Perché? C’è da dire che Leonardo, nella sua vita piuttosto movimentata e piena di impegni che non sempre riusciva a rispettare, lasciava spesso opere incompiute. E come suggerisce il direttore del Castello Sforzesco Claudio Salsi - forse l’incompiutezza non è casuale e rientra in una concezione dell’arte tipica di quell’epoca, una vera e propria "estetica dell'incompiuto”. Ma questo resta uno dei tanti enigmi irrisolti del più grande genio del Rinascimento.
Note e Bibliografia
Parte di questo articolo è stato pubblicato sul Bollettino n. 504 di Italia Nostra.
Leonardo da Vinci. La Sala delle Asse del Castello Sforzesco. All’ombra del Moro, a cura di Claudio Salsi, Alessia Alberti, Cinisello Balsamo, 2019.
Leonardo da Vinci. La Sala delle Asse del Castello Sforzesco. La diagnostica e il restauro del Monocromo, a cura di Michela Palazzo, Francesca Tasso, Cinisello Balsamo, 2017
Maria Teresa Fiorio, Anna Lucchini, Nella Sala delle Asse, sulle tracce di Leonardo, in “Raccolta Vinciana”, Fascicolo XXXII, 2007, pp. 101-140.