Il riscaldamento globale sta mettendo a dura prova l'ambiente pelagico delle isole Svalbard, basato su un delicato equilibro tra le diverse specie che lo abitano. I ricercatori della University Centre in Svalbard ne studiano gli effetti da trent'anni, e recentemente hanno pubblicato un dettagliato resoconto sulle modifiche avvenute nell'ecosistema: la progressiva atlantificazione ha migliorato l'efficienza riproduttiva di alcuni crostacei, mentre la dieta di alcuni uccelli marini ha cominciato a includere anche pesci tipici dei mari più caldi. Si va, insomma, verso un nuovo ecosistema marino; ma quanto sarà resiliente la nostra specie rispetto a queste modifiche, che noi stessi abbiamo determinato?
Nell'immagine: fiordo di Kongsfjorden nel 1922 e nel 2002. La copertura di ghiaccio si è ridotta drasticamente con conseguenze per l’intero ecosistema del fiordo. Credits: Anders Orvin e Christian Åslund/Fram Centre
Dalle diatomee ai molluschi, dai crostacei fino ai gamberetti e ai merluzzi: l’ecosistema marino artico è una fitta rete di relazioni basata su equilibri, spesso precari. Negli ultimi quattro decenni l’ambiente pelagico delle isole Svalbard è stato messo però a dura prova dal riscaldamento globale, con conseguenze sorprendenti.
Un caldo polare
Fino ai primi anni 2000, il ghiaccio artico copriva per gran parte dell’anno il fiordo di Kongsfjorden, sulla costa occidentale dell’arcipelago. L’aumento della temperatura della Corrente Occidentale di Spitsbergen, proveniente dal Nord Atlantico, sta sempre più sovrastando gli effetti della Corrente Artica, impedendo la formazione di ghiaccio durante l’inverno e portando a una progressiva atlantificazione dell’intero ecosistema. Così, alcune tra le specie endemiche dei territori artici sono state, almeno parzialmente, sostituite da specie di origine atlantica.
(a) Corrente Atlantica e Corrente Artica che influenzano il fiordo di Kongsfjorden. (b) Indice ella quantità di ghiaccio artico (blu) e temperatura dell’oceano (rosso) nel fiordo di Kongsfjorden. Modificata da Vihtakari et al. (2018)/Fram Centre
I ricercatori della University Centre in Svalbard (l’università più a nord del mondo), che da più di trent’anni oramai registrano le modifiche ambientali di queste zone, qualche settimana fa hanno pubblicato un resoconto dettagliato delle loro ricerche.
Verso un nuovo ecosistema
«A partire dalla fioritura precoce del fitoplancton, l’intero ecosistema è cambiato. L’efficienza riproduttiva di alcune specie di crostacei artici, per esempio, è migliorata. Hanno accorciato il loro ciclo vitale e ridotto le proprie dimensioni corporee per assomigliare sempre più ai fratelli atlantici, che sono a loro volta aumentati», spiega Paul Renaud, professore di Ecologia presso la University Centre in Svalbard.
Ma sono gli uccelli marini endemici di quelle zone, i gabbiani tridattili, che agiscono come veri e propri bioindicatori del cambiamento in atto. A partire dal 2007, i ricercatori hanno infatti riscontrato un netto passaggio da prede strettamente artiche - come il merluzzo polare - a una dieta più varia composta da specie tipiche dei mari più caldi, come le aringhe e i capelin. Anche in questo caso le modifiche ambientali stanno portando a un incremento della popolazione dei gabbiani.
Merluzzo polare e specie di pesci dell'Atlantico presenti nella dieta del gabbiano tridattilo durante le estati dal 1982 al 2016 nel fiordo di Kongsfjorden. I numeri sopra le barre blu indicano il numero di campioni analizzati all'anno. Modificata da Vihtakari et al. (2018)/Fram Centre
«L’atlantificazione del fiordo di Kongsfjorden sta comportando un significativo cambiamento nel modo in cui le specie si nutrono e interagiscono tra loro. Sebbene siano dati preliminari, stiamo assistendo alla nascita di un nuovo ecosistema marino che si adatta ai cambiamenti climatici», sottolinea Renaud.
Resilienza non è per sempre
Il concetto con cui si definisce la capacità dell’intera rete alimentare marina di assorbire, recuperare e adattarsi alle modificazioni del loro habitat naturale è definita resilienza ecologica.
A oggi la resilienza si manifesta attraverso piccoli aggiustamenti, che peraltro sempre esistono all’interno dei membri di una stessa popolazione, quali leggeri cambiamenti in termini di riproduzione dello zooplancton o di periodi di fioritura del fitoplancton. In questo senso, la rapida risposta evolutiva non è altro che la selezione dei tratti che si adattano meglio alla nuova condizione ambientale.
«Ma questo non può funzionare per sempre», spiega Paul Renaud. «Selezionare alcuni elementi piuttosto che altri potrebbe rimuovere parte della variabilità genetica della popolazione, il che renderebbe a sua volta la specie più suscettibile a cambiamenti futuri, e quindi meno resiliente».
Vincitori o vinti?
Molti si chiedono chi, nell’incontro-scontro fra i nuovi arrivati dall’Atlantico e i residenti nell’Artico, potrà proclamarsi vincitore; ma pochi riflettono sul fatto che potrebbero non esserci né vincitori né vinti. L’ecosistema marino infatti certamente sopravviverà, anche se in maniera diversa da oggi.
Come potrà essere sfruttato dagli umani è un’altra storia. Ne trarremo più o meno profitto? Quanto saranno resilienti gli esseri umani rispetto alle modifiche dell’intero ecosistema che loro stessi hanno creato?