È poco noto, ma prima del greco Giacomo Leopardi ha incontrato le scienze. Dell'amore per l'astronomia, delle letture di fisica e chimica racconta il nuovo libro di Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi, "L'infinita scienza di Giacomo Leopardi" (Scienza Express, 2019). La recensione di Valentina Sordoni.
Crediti: Carlo Raso/Flickr. Licenza: dominio pubblico
Basta un titolo per immaginare orizzonti sconfinati. Soprattutto se echeggia il bicentenario della poesia tra le più famose nella storia della letteratura italiana, nell’annus mirabilis di anniversari, tra arti e scienza tout court. Dei cinquecento dalla morte di Leonardo da Vinci, dei cinquanta dall’allunaggio, e dei centocinquanta della tavola periodica di Dmitrij Ivanoviĉ Mendeleev.
Forse non è casuale. Sicuramente non è un azzardo, “L’infinita scienza di Leopardi”, pubblicato da Giuseppe Mussardo e Gaspare Polizzi per i tipi di Scienza Express. È la constatazione, ormai indiscutibile, dell’influenza scientifica nell’opera di Giacomo Leopardi, l’enfant prodige cresciuto leggendo Omero, Orazio, Virgilio, ma anche Isaac Newton, Galileo Galilei e Antoine-Laurent de Lavoisier. Lo dimostrano le prime prove del fanciullo geniale, le “Dissertazioni filosofiche”, scritte tra il 1811 e il 1812 in preparazione del domestico saggio finale, dedicato nientemeno che alla chimica e la storia naturale, la fisica generale e particolare, comprensive della contemporanea astronomia, destinata a infervorare l’intrepida immaginazione del ragazzo.
Prima del greco, insomma, Giacomo incontra le scienze. Un appuntamento fedele alla “Ratio studiorum”, il testo fondante della pedagogia gesuitica rielaborato nell’Ottocento, la base educativa di ogni rampollo che si rispetti. Di questo giovanile rendez-vous ci parlano gli autori del libro, un fisico e un filosofo, proiettati nello stesso universo scientifico-letterario, illuminandone squarci differenti, competenze alla mano diverse, nella comune prospettiva di un dialogo possibile, anzi necessario, tra scienza e letteratura.
Ecco allora la passione di Giacomo per l’astronomia, «La più sublime, la più nobile tra le Fisiche Scienze». L’incontro con gli astri è un vis à vis, erudito e serrato, con gli astronomi di tutti i tempi, antichi e moderni. Compreso Copernico, un “personaggio concettuale”, per Mussardo e Polizzi. Ma anche Galileo Galilei, l’autore più citato, tra l’altro, nella “Crestomazia italiana della prosa”, la raccolta antologica compilata nel 1827. La prima antologia galileiana. Per mano di un poeta. Se Copernico svela a Leopardi una verità scomoda e dissacrante, l’insignificanza umana nella compagine universale, Galileo è «modello non soltanto di stile, ma di pensiero, uno “scetticismo ragionato e dimostrato” di matrice empirica e relativistica con qualche venatura materialistica» (p. 44).
Un materialismo, quello leopardiano, alimentato sì dal pensiero classico, ma corroborato da letture impensabili, fondamentali per l’interpretazione di una filosofia così articolata, un’operazione di costruzione e decostruzione, spesso contraddittoria. Letture scientifiche, come i “Fondamenti della Scienza chimico-fisica applicati alla formazione de’ corpi e ai fenomeni della natura”, di Vincenzo Dandolo, imprescindibili per trasmettere al giovane la nouvelle chimie lavoiseriana. Per suggerire la dinamicità di una materia produttrice e distruttrice, conservatrice di se stessa, espressa dalla legge ponderale di conservazione della massa, nota a tutti gli studenti di chimica. Leopardi la fa propria, e il “Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco”, redatto a Bologna nel 1825, è il manifesto incontestabile del fortunato sodalizio tra scienza e letteratura.
Un’osmosi fertile e incessante analizzata con piglio divulgativo, illuminando la poetica in rapporto alle fonti, con approfondimenti teorici e medaglioni biografici necessari per comprendere il contesto scientifico con cui Giacomo si confronta. La conclusione è una finestra spalancata sull’Infinito, il concetto del dolce naufragio, della grandezza incommensurabile della sinuosa lemniscata. Indagato con un piacevole linguaggio filosofico e matematico, da Aristotele a George Cantor, è l’esempio emblematico, il più suggestivo, per scorgere oltre la siepe il valore del dialogo tra le «due culture».