Un video su Facebook, annunci della stampa, teorie che giungono perfino sulle soglie del British Medical Journal, a sostenere l'importanza della vitamina D nel contrastare Covid-19. Ma le prove scientifiche sono scarse, o meglio assenti.
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Si riaccendono i riflettori sulla vitamina D nel pieno della tempesta emotiva scatenata dal Coronavirus SARS-CoV-2. La strategia è inconsueta perché – oltre ai soliti ingredienti della manipolazione artificiosa delle basi scientifiche - vengono utilizzati anche metodi di comunicazione meno eleganti ma non meno persuasivi, in momenti di limitazione della vita sociale, con computer e smartphone sempre connessi.
Compaiono video a diffusione virale con target nazional-popolare che assegnano alla vitamina D un ruolo protettivo contro SARS-CoV-2 e le sue complicanze, annunci sulla grande stampa di “risultati molto interessanti”, da studi in realtà non effettuati ma solo pensati. Il riverbero di queste notizie sulle pagine della salute di giornali e riviste è assordante.
Teorie, che definire fantasiose è poco, giungono perfino alle soglie del British Medical Journal, collegando i focolai di contagio nel Nord-Italia alla carenza di vitamina D. Il tutto ripercorre l’ormai consolidato percorso di speranze (e prescrizioni) alimentate da ipotesi etiopatogenetiche o rilievi osservazionali già verificatosi in passato con la vitamina D. Peccato che alla prova degli studi controllati, ci siano state solo delusioni nella quasi totalità delle indicazioni extrascheletriche.
E chi viene raggiunto dall’ondata della comunicazione che cosa può fare? Oltre alla quarantena, alle mascherine, ai guanti e alla disinfezione, si munirà della vitamina magica che serve proprio a tutto, non fa male e costa poco…
Ecco quindi una analisi commentata del documento audio-video proveniente da Massimo Orlandini, dello Studio Medico omonimo, che si fa promotore della sperimentazione della vitamina D nei pazienti affetti da COVID-19.
Nei nove minuti del video, Orlandini richiama l’importanza dell’interleuchina 6 (IL-6) nel causare la complicanza respiratoria della malattia e si produce in una accorata esortazione alle autorità sanitarie per sollecitare la sperimentazione della vitamina D nei malati colpiti dal SARS-CoV-2 al fine di sfruttarne l’effetto di riduzione sulla IL-6.
Il video – che ha già ampiamente superato le 300 mila visualizzazioni in pochi giorni – contiene una serie di inesattezze e messaggi fuorvianti che si traducono in un invito indiretto all’assunzione della vitamina. Orlandini è un bravo comunicatore e si propone in modo coinvolgente, ma non per questo del tutto corretto.
Innanzitutto vengono citati i risultati di importanti studi scientifici elencati in 11 link (riportati a destra in alto per tutto il video): sarebbero queste, secondo l’autore, le basi che sostengono il ruolo della vitamina D nella sindrome respiratoria della COVID-19. L’analisi di queste pubblicazioni tramite i link riportati riconduce all’ormai storico peccato originale che caratterizza i propalatori di “evidenze”. Nei link troviamo citati: quattro studi in vitro, che mostrano effetti della vitamina in modelli sperimentali di laboratorio, cinque studi osservazionali, dove viene riscontrata una elevata IL-6 in diverse condizioni morbose con bassa vitamina D. Infine, vengono citati una revisione descrittiva e un solo studio clinico randomizzato, peraltro condotto in pazienti affetti da colon irritabile
In base a questi dati, Orlandini parla con decisione di dimostrazione scientifica degli effetti della vitamina sulla IL-6, e questo costituisce una grossolana inesattezza, confezionata elegantemente utilizzando riassunti in inglese, citando una serie lunghissima di sperimentazioni (gran pate delle quali non pertinenti), vantando proprietà protettive della vitamina anche contro i tumori, lamentando un presunto ostracismo nei confronti della vitamina da parte della comunità scientifica, probabilmente a causa del suo basso costo (quando i costi per il SSN hanno superato i 400 milioni di euro nel 2018), e invocando nel finale l’inevitabile “ricerca dal basso”1.
Professore, quali dosi consiglia?
I commenti dal web sono ovviamente di plauso al “professore” con inevitabili levate di scudi contro i soliti cattivoni corrotti della ricerca al servizio delle case farmaceutiche e prese di posizione spontanee dei lettori orientate alla automedicazione (“quali dosi consiglia?”). Quello di Orlandini non è certo il primo video pseudoscientifico a favore della vitamina D, ma si distingue perché proposto con maestria come un tiro ad effetto alla Maradona, per il carattere popolare e il legame con la patologia più temuta del momento.
Cosa dice l’accademia della vitamina D
Anche voci accademiche sostengono la causa della vitamina D nella lotta alla COVID-19. Alcune sono basate su una supposta azione di stimolo sulla risposta immunitaria (ma i risultati dei trial clinici sono in realtà contrastanti), altre sono basate su un suo supposto effetto antivirale2 o su una azione protettiva generica sulle infezioni respiratorie, soprattutto in persone con una concentrazione sierica di vitamina D < 10 ng/mL3. L’ipotesi più recente viene da un alto rappresentante dell’endocrinologia nazionale ed europea, che arriva ad attribuire all’ipovitaminosi D un ruolo in grado di motivare la più elevata mortalità da COVID-19 nell’Italia del Nord4.
Per tutte queste pur rispettabili opinioni non è assolutamente possibile parlare di “evidenze”, per cui al momento attuale la somministrazione di vitamina D per combattere un'infezione da SARS-CoV-2 o migliorarne l’evoluzione polmonare è da considerare non sostenuta da adeguate prove di efficacia.
L’unico studio che può costituire un motivo per avviare una sperimentazione sull’impiego della vitamina nei pazienti con COVID 19 è quello che descrive (in un numero di pazienti limitato) un effetto di riduzione della mortalità ai limiti della significatività statistica in pazienti con polmonite dovuta ai respiratori 5. Si tratta di una condizione non sovrapponibile a quella dei pazienti affetti da polmonite da SARS-CoV-2, ma rappresenta un’area con diversi punti di contatto, che merita considerazione per uno studio da progettare e realizzare con accuratezza senza partire con la certezza che questa sia la strada da seguire.
In una pubblicazione online (su una rivista non peer reviewed) viene ipotizzato un ruolo per la vitamina nella prevenzione e nel trattamento della COVID-19; si tratta di una serie di ipotesi affascinanti, ma di nuovo non una prova di efficacia6.
Le ipotesi non sono prove
Il 26 marzo, due quotidiani a tiratura nazionale con segnalazione AdnKronos (qui uno degli articoli), hanno comunicato con titoli a tutta pagina che stimati clinici dell’Università di Torino, dopo avere riscontrato bassi livelli di Vitamina D nei ricoverati per COVID-19, stanno per partire con uno studio che ne valuti l’efficacia. Sono bastati questi 2 articoli per scatenare la più classica delle reazioni a catena: basta leggere alcune delle notizie riportate per avere un’idea di come ci possa essere un fraintendimento del contenuto che i ricercatori volevano esprimere e di come questo è arrivato al pubblico dei lettori, soprattutto online. Per fortuna di questo modello di distorsione si sono occupati in seconda battuta anche giornalisti dotati di senso critico che hanno concluso: “Le testate giornalistiche dovrebbero fare attenzione nella definizione dei documenti pubblicati da professori e scienziati. Uno studio scientifico, per essere definito tale, dovrebbe presentare la struttura di un normale paper scientifico, e affinché sia considerato attendibile deve essere sottoposto alla peer-review, in modo da essere pubblicato in una rivista scientifica. Di studi non sottoposti a questo rigoroso processo ce ne sono tanti, troppi, e bisogna fare molta attenzione”.
Per fortuna i ricercatori torinesi hanno correttamente precisato che il loro documento riguardava ipotesi e non prove di efficacia, ma questo non fa altro che sottolineare il ruolo importante e delicato dell’informazione divulgativa nell’innescare false speranze.
Si scambia l’effetto per la causa: la vitamina manca per la malattia
Il fatto che i livelli ematici di 25 OH vitamina D siano bassi nei ricoverati in condizioni critiche da varie cause è rilievo noto da tempo, ma dopo gli insuccessi degli studi clinici, l’orientamento attuale è di ritenere l’ipovitaminosi più come conseguenza delle cattive condizioni del paziente che non causa della situazione compromessa. In questa direzione si situa anche uno studio recentemente pubblicato su New England Journal of Medicine7, dove la somministrazione di vitamina D in unica dose di 540.000 UI in pazienti ricoverati in condizioni critiche non è stata in grado di migliorare la prognosi a 90 giorni nonostante la normalizzazione in terza giornata dei livelli di 25 OH vitamina D.
Un invito a seguire le prove in questo momento delicato
La situazione gestionale della catastrofe Coronavirus è straordinariamente complessa: gli attuali responsabili delle decisioni strategiche di assistenza e prevenzione si trovano a dovere operare scelte complesse su un sistema creato non da loro (un esempio tra i tanti la riduzione dei posti letto) e con risorse fisiche e finanziarie non certo illimitate. Nelle scelte dei decisori su quali percorrere tra le numerose strade possibili (diversi antivirali e loro associazioni, antimalarici, tocilizumab etc.) potrebbe pesare la storia della Vitamina D, sempre perdente nei tentativi di passare dai riscontri osservazionali alle conferme sperimentali. E potrebbero pesare forse anche le scorrettezze di una informazione di disturbo che si realizza con video, notizie stravolte e ipotesi autoreferenziate che finiscono per incoraggiare un pubblico desideroso di soluzioni ad assumere questa vitamina.
Dopo l’attimo di riflessione legato alla nota 96 dell'Agenzia italiana del farmaco, che ha limitato la mutuabilità della vitamina D per la sua inefficacia nelle indicazioni extrascheletriche, è facile attendersi un aumento del suo già elevato consumo di sospinto dal vecchio adagio “forse non servirà a molto, ma tanto non fa male…”.
Se sarà così, trionferà ancora un medicinale che - da oltre dieci anni – gode del privilegio incomprensibile di essere pagato nei flaconi monodose a un prezzo quadruplo rispetto alle confezioni multidose. Se avessimo pagato la vitamina al suo prezzo reale, usandola nei casi di documentata efficacia, avremmo potuto permetterci un migliore sistema di risposta all’emergenza.