Lo spillover che ha innescatola pandemia di Covid-19 ci offre una grande opportunità, quella d'innescare anche uno spillover cognitivo, morale e politico, sulla traccia di quel percorso che potrebbe (ri)portarci a essere la più collaborativa delle specie.
Crediti immagine: Gerd Altmann/Pixabay. Licenza: Pixabay License
Se esiste un Altro esiste anche un Sé, un io che questa tragedia planetaria potrebbe finalmente insegnarci a declinare come un noi. Il mondo è in lockdown, le metropoli sospese, San Pietro un palcoscenico vuoto così come vuota rimarrà sulla Spianata delle moschee per il prossimo Ramadan anche Al Aqsa, uno dei luoghi più sacri dell’Islam. L’invisibile assedio, lo abbiamo capito, non conosce confini, attraversa popoli e condiziona culture. Il virus diventato pandemico non minaccia nazioni ma ci mette tutti alle strette. Ed è probabilmente in questi momenti così estremi che ci si può riconoscere per quello che si è: un’unica specie.
Un po’ lo avevamo capito, ma solo attraverso narrazioni negative e distopiche, in cui è l’umanità stessa a scoprirsi come un virus per il resto del pianeta. Alla potenza di fuoco di industria, tecnologia e consumi si è dato anche un nome, Antropocene, a significare quel fatto assolutamente inedito per cui la Terra è per la prima volta nella sua storia condizionata e minacciata dai modi di vita di uno dei suoi ospiti. Anzi, come ci ha spiegato David Quammen, diventato a ragione una star, è molto probabile che anche lo spillover che ha fatto da innesco alla fine del mondo di ieri sia uno dei tanti effetti del modo assolutamente unilaterale con cui avevamo negoziato il modo di starci, in quel mondo.
Detto questo, oggi che non siamo più solo la minaccia ma scopriamo di essere anche i minacciati, ci si profila una grande opportunità, innescare uno spillover cognitivo, morale e politico tra le tante identità di umani che popolano la specie. Lo spillover è un salto di specie di un patogeno, ora un patogeno ci offre la possibilità di far compiere un salto altrettanto grande a un’idea.
Del resto un’idea è come un virus, può contare su una forza di replicazione e trasmissione formidabile. Nel suo libro “Il gene egoista”, Richard Dawkins spiega che un’idea può agire come un gene e allora diventa un “meme”, un’unità minima di informazione che ciascuno porta con sé e può trasmettere a un’altra persona senza doversene per forza liberare. La trasmissione di informazione altro non è che una replicazione con cui viene creata una copia del meme nella memoria di qualcun altro. Oltre a replicare malattia e morte, penso che il virus che ci ha stravolto le vite potrebbe fare da replicatore di un’idea, ci offre l’occasione di far saltare tra popoli, nazioni e continenti un’idea molto semplice e probabilmente per questo dimenticata.
Il virus mette ci mette sotto scacco come specie e allora perché non tornare a pensarci come specie? Perché non tornare a riconoscerci per quello che siamo al di là delle appartenenze che storia e geografia hanno iscritto nelle nostre vite o, comunque, accanto a esse? Da questo punto di vista, quel minuscolo organismo ci sta offrendo una straordinaria occasione. Ci dona uno specchio per vederci in faccia e scoprire, per parafrasare Darwin, che siamo “tutti fratelli legati in un’unica rete”. È arrivato il momento di riscoprirci come una specie e di cominciare a farlo in positivo. Non più come una specie di egoisti ma come una specie che sa cooperare alla grande.
Dalla scienza arrivano segnali incoraggianti. Mentre gli stati chiudevano i confini, i ricercatori li hanno spalancati dando vita a un sistema di collaborazione globale che non ha precedenti nella storia. Sono state create piattaforme online per rendere disponibili studi scientifici con mesi di anticipo rispetto alle riviste, le stesse riviste hanno reso consultabili gratuitamente tutte le pubblicazioni riguardanti la pandemia in corso: Nature e tutti i periodici del gruppo SpringerNature, il New England Journal of Medicine, il Journal of the American Medical Association (JAMA), il British Medical Journal (BMJ) e le oltre 2000 riviste pubblicate dal gruppo Elsevier, tra cui The Lancet. I ricercatori hanno identificato e condiviso centinaia di sequenze genetiche virali (mentre scrivo queste righe sono state sequenziate e condivise 10,662 sequenze genetiche di Covid-19, si possono vedere qui) e sono in corso più di duecento sperimentazioni cliniche che coinvolgono ospedali e laboratori di tutto il mondo.
Un radicale cambio di passo in direzione di una cooperazione tra stati è quello che chiede il Comitato internazionale di Bioetica insediato all’Unesco. “La rapida diffusione della malattia – si legge nel punto 10 del documento “Statement on Covid-19: Ethical considerations from a global perspective” pubblicato lo scorso 6 aprile – ci porta all’istituzione di barriere tra paesi, comunità e individui nel tentativo di impedire la trasmissione. Tali misure estreme non dovrebbero compromettere la collaborazione internazionale nella lotta contro la pandemia, né istigare o perpetuare xenofobia e discriminazione. In questo momento, in cui la maggior parte delle società è governata da modelli economici che premiano la concorrenza, è importante ricordare che in quanto esseri umani siamo una specie che è riuscita a sopravvivere e progredire grazie alla cooperazione. In questo contesto di pandemia, la cooperazione è essenziale a tutti i livelli: governi, settori pubblici e privati, società civile e organizzazioni internazionali e territoriali”. Gli esperti del comitato internazionale di bioetica ci ricordano che se siamo una specie evoluta è grazie alla cooperazione. Se siamo così progrediti da essere riusciti a inventare i vaccini e somministrarli a miliardi di persone (mai abbastanza) è, insomma, perché abbiamo saputo proteggerci le spalle e scambiarci conoscenze e soluzioni. Ma evidentemente ora non basta.
Al cospetto di una crisi così vasta serve un cambio di passo radicale e questa svolta potrà e dovrà arrivare sì dalla scienza ma anche dalla coscienza. Se la prima sembra finalmente essere tornata a svolgere un ruolo nell’opinione pubblica, la seconda è un’entità con cui abbiamo disimparato a fare i conti. Serve una nuova coscienza di specie e forse su questo fronte quel dannato virus può aiutarci. Quello che ora serve è più semplicemente la possibilità di riprendere coscienza di noi stessi, cioè di riconoscerci. In uno dei passaggi più commentati della “Fenomenologia dello Spirito” e forse di tutta la storia della filosofia, Hegel lega l’autocoscienza al riconoscimento da parte di un altro: l’io può arrivare a definire se stesso solo se è riconosciuto come tale da un’altra coscienza. Il più delle volte si tratta di un passaggio tutt’altro che pacifico e infatti Hegel parla di una vera e propria “Lotta per il riconoscimento”.
La lotta per il riconoscimento è dunque lotta per la vita e la morte. Ciascuna delle due autocoscienze mette in pericolo la propria vita e quella dell’Altro
(Georg W.F. Hegel, Enciclopedia § 432)
Si tratta del traguardo più importante per ogni uomo perché è solo grazie al riconoscimento dell’Altro che si riuscirà a dare un senso al Sé. Tra i disastri che il Sars Cov-2 ha portato in dote c’è anche un minuscolo tesoro che potremmo rivoltargli contro, c’è uno specchio che può riflettere il volto di un’umanità che abbia imparato a riconoscersi come tale. C’è la traccia di un percorso che potrebbe condurci a essere (di nuovo) la più cooperativa delle specie.
Siamo in guerra, lo si sente dire spesso. A molti questa metafora non piace, e non stupisce poi tanto, eppure potrebbe essere la metafora giusta. Jared Diamond, per esempio, la trova utile. Intervistato da Paolo Giordano per “La Lettura” del Corriere della Sera, l’autore di “Armi, acciaio e malattie” ha osservato:
Credo che la guerra sia una metafora azzeccata, per il modo in cui la guerra ci mobilita verso la cooperazione. I Paesi hanno le loro identità nazionali e queste identità sono spesso rafforzate dalla presenza di un nemico comune. I popoli guardano indietro, alle battaglie contro quei nemici, a distanza di decenni. Per esempio, gli inglesi pensano ancora al Blitz del 1940, si dicono che nulla può essere peggio del Blitz e dei nazisti, perciò se hanno prevalso su di loro possono risolvere qualunque problema. Oppure la Finlandia: nel 1939, durante la guerra d'inverno, i finlandesi resistettero all'Unione Sovietica. Io viaggio regolarmente in Finlandia fin da11959 e i finlandesi non hanno mai smesso di dire: se siamo sopravvissuti alla guerra d'inverno, possiamo sopravvivere a tutto. Ora, ciò di cui abbiamo bisogno contro il coronavirus è uno sforzo mondiale. La crisi non può essere risolta dai Paesi separatamente. Se anche l'Italia e la Spagna e il Regno Unito e gli Stati Uniti risolvessero il loro problema con il virus, ma il virus continuasse a esistere in Grecia o nello Zambia, il mondo intero s'infetterebbe da capo. Finora il mondo non ha avuto un'identità simile a quella degli inglesi e dei finlandesi. Questo virus potrebbe costruirla, perché è una lotta globale contro un nemico comune.
Proprio perché è il nemico comune, l’Altro, il virus potrebbe fare da innesco alla ricostruzione di un’autocoscienza di specie. Identità fino a ieri impegnate in continue lotte per il reciproco riconoscimento potrebbero trovare nella lotta ingaggiata contro il virus un’occasione a suo modo storica non solo per sciogliere inimicizie ma per riscoprirsi parte di un’unica fratellanza. L’ostilità dell’Altro palesata all’umanità intera ci interroga sulla nostra identità comune e dona un suono diverso alla parola “noi”. C’è bisogno di uno spillover cognitivo, etico e politico. Il virus ci mette di fronte a noi stessi offrendoci l’opportunità di riprendere cognizione di quel che siamo, una specie, ci costringe a cooperare ricordandoci che l’altruismo è il miglior modo di avere cura di sé stessi, ci fa toccare con mano l’essenza anche un po’ crudele della politica invitandoci a considerare che l’unità politica fondamentale è l’umanità.
Prima degli stati ci sono gli uomini. “L’umanità in quanto tale non può condurre nessuna guerra poiché essa non ha nemici, quanto meno non su questo pianeta”. Lo scrisse nel 1932 Carl Schmitt, uno dei più influenti giuristi e di sicuro uno dei più controversi intellettuali del XX secolo. Lo scrisse nel 1932 agli albori del nazionalsocialismo in un saggio dal titolo “Il concetto di Politico”, considerato un classico per l’intera filosofia politica. Secondo Schmitt, tutto ciò che è politico si basa sulla distinzione di fondo tra amico e nemico. Così come per la morale vale la distinzione buono-cattivo, per l’estetica la distinzione bello-brutto, per la religione quella tra fedele e infedele, per l’unità politica decisiva valgono le categorie di amico e di nemico, laddove amico e nemico, si premura di precisare Schmitt, vanno intesi in “senso concreto ed esistenziale e non come metafore o simboli”. La guerra non è la continuazione della politica con altri mezzi ma ne è il presupposto, ci sono organizzazioni politiche perché di fatto si danno delle contrapposizioni riconducibili alla distinzione amico-nemico. “Il politico può trarre la sua forza dai più diversi settori della vita umana, da contrapposizioni religiose, economiche, morali o di altro tipo; esso infatti non indica un settore concreto particolare ma solo il grado di intensità di un’associazione o di una dissociazione di uomini”.
Eccolo qui il punto, ciò che fa di una comunità una comunità politica è il grado di intensità che la unisce, un’associazione di uomini diventa un’unità politica fondamentale se ciò che la unisce è così forte da mantenersi tale anche nel caso critico ed estremo della lotta. Quella che stiamo vivendo non è la prima pandemia e purtroppo non sarà nemmeno l’ultima, è tuttavia la prima che queste generazioni stanno conoscendo ed è la prima a globalizzazione largamente compiuta. Qualche decennio fa lo spillover di un virus in un mercato di Wuhan sarebbe rimasto molto probabilmente un fenomeno locale, oggi si fa prima a contare quali aree della Terra ne sono rimaste (finora) immuni. Questo sconosciuto ha messo alle strette la specie, ha indossato le insegne del nemico, ci ha illustrato che siamo tutti una stessa comunità anche se lo ha fatto per negazione, e allora cosa aspettiamo a riconoscere a noi stessi, come specie, quell’intensità d’unione che solo può avere un’unità politica?
È tempo di nuovi spillover. Come scrisse il poeta, “Laddove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva”.