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Antivirali: fondamentali nella prossima fase della pandemia

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I farmaci antivirali potrebbero essere uno strumento fondamentale per affrontare la prossima fase della pandemia, quella che sarà caratterizzata dall’emersione di nuove varianti virali. Gli antivirali ad ampio spettro, come il molnupiravir, sono stati identificati quando i virologi dei coronavirus hanno compreso che il gene della polimerasi, la macchina fotocopiatrice del virus, risulta molto conservato nel processo di speciazione dei virus a RNA. La pressione immunitaria agisce, infatti, soprattutto sul gene della proteina spike virale, il target dei vaccini, mentre nessuna pressione dovrebbe agire sul gene della polimerasi virale. In più gli antivirali perdono di efficacia quando somministrati troppo tardi dopo l’infezione e dunque potrebbero essere particolarmente utili per le persone “consapevoli” di essere state esposte al virus. Questo è quello che avviene per i contagi domestici, che sono un driver importante dell’epidemia di COVID-19.

Crediti immagine: Marco Verch / Flickr. Licenza: CC BY 2.0.

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In molti paesi, il decorso dell’epidemia da SARS-CoV-2 conferma nella sostanza le previsioni formulate dal gruppo di epidemiologi della University of Hong Kong coordinato da Joseph Wu, in un articolo pubblicato su Lancet già alla fine del mese di gennaio 2020: senza distanziamento sociale e mascherine, si sarebbe infettato più del 50% della popolazione in pochi mesi. Durante l'anno trascorso, diverse varianti virali, più veloci a diffondersi e, purtroppo, più letali, hanno in parte sostituito il ceppo originario di Wuhan. In più, stanno mettendo alla prova i vaccini sviluppati finora. Queste considerazioni vanno tenute bene a mente quando si fanno proiezioni ottimistiche sui tempi di ritorno alla normalità e indicano l’importanza che riveste la ricerca di antivirali efficaci contro SARS-CoV-2 nell’affrontare con lungimiranza la prossima fase della pandemia.

Antivirali per limitare le infezioni in casa

La Corea del Sud, grazie a contromisure prese in tempo, è riuscita ad assestarsi su tassi d'infezione e mortalità sensibilmente più bassi di quelli registrati in Italia e in altri paesi occidentali con caratteristiche socio-demografiche simili all’Italia: dopo un anno di pandemia, il numero di morti per COVID-19 in Corea del Sud ѐ circa cinquanta volte inferiore che in Italia, mentre il numero dei suoi abitanti è solo di poco inferiore.

Woo-joo Kim, la massima autorità sudcoreana sul contagio, durante l’estate del 2020 rilasciò un’intervista in cui si stupiva del dibattito ancora vivo tra gli accademici occidentali sull’efficacia di barriere per la bocca da lui considerata una conoscenza ben consolidata della comunità scientifica esperta di coronavirus. Sottolineava poi come l’utilizzo estremamente diffuso delle mascherine in Corea del Sud non avesse fatto trascurare le altre misure di distanziamento e di igiene. Come suggerivano Wu e coautori, infatti, il virus poteva essere tenuto sufficientemente a bada seguendo le indicazioni sanitarie sulle mascherine e su alcune altre restrizioni, almeno fino all’arrivo di una soluzione biomedica (un vaccino e/o una profilassi antivirale).

Tuttavia, l'analisi dell’andamento della curva dei casi a Wuhan nel mese di febbraio 2020, mostrò che le restrizioni, come l’uso delle mascherine e il distanziamento, non erano sufficienti ad abbattere il tasso d'infezione al di sotto una certa soglia. L’accelerazione della discesa nella curva dei casi cominciò a essere osservata con l’implementazione della quarantena centralizzata, segnalando l’impatto del contagio in ambito domestico sulla dinamica dell’epidemia. Chiudere scuole, ristoranti, chiese e imporre l'uso inderogabile delle mascherine non è sufficiente se poi, rientrando a casa, si abbassa la guardia.

Il monitoraggio del territorio durante tutto il 2020 ha confermato che il tasso d'infezione dentro le case ѐ dal 10 al 20% e può arrivare a toccare picchi del 50% per le coppie. Il costo del rilassamento domestico, in termini di amplificazione del tasso di infettività nella popolazione, va, infatti, a decurtare, almeno in parte, l’efficacia delle restrizioni imposte all’esterno delle case.

A dicembre, Wendy Painter della Merck ha esplicitato ciò che molti da tempo supponevano, ovvero che almeno la metà dei soggetti che hanno un risultato positivo al test PCR, sanno di essere state esposte al virus giorni prima. Una pronta somministrazione di un antivirale a questi soggetti “consapevoli” potrebbe ridurre la progressione della malattia e, forse, la trasmissione del virus, rendendo meno angoscianti i rapporti interpersonali all'interno dei nuclei familiari.

Si otterrebbe un miglioramento della qualità della vita dei partner e dei congiunti in genere simile a quella ottenuta con la profilassi post-esposizione da HIV (PEP) prima e, vent’anni dopo, con la profilassi pre-esposizione (Truvada-PrEP), uno dei farmaci assunti a vita da pazienti infettati con HIV e composto da due analoghi nucleosidici (emtricitabina e tenofovir), simili a remdesivir o a molnupiravir (EIDD-2801).

Queste molecole mimano le lettere dell’alfabeto genetico virale e dunque riescono a confondere la polimerasi del virus (la macchina fotocopiatrice in miniatura che il virus utilizza per creare nuove progenie virali). Il molnupiravir, al contrario del remdesivir che può essere solo somministrato per via endovenosa (due volte al giorno per cinque giorni, se infettati), ѐ disponibile in compresse (da assumere anch’esse due volte al giorno per cinque giorni) e dunque si presta a un uso profilattico ambulatoriale come già discusso l'anno scorso su Scienza in rete.

Da parte sua, la casa farmaceutica Gilead ha iniziato le sperimentazioni di somministrazioni alternative del suo antivirale remdesivir sull’uomo (in particolare la via inalatoria, ora in fase 1) e ha avviato la fase preclinica (sul macaco) per valutare efficacia e sicurezza del GS-441524. Il GS-441524 aveva mostrato anni fa di poter curare i gatti infettati da coronavirus felino e più recentemente di inibire l’infezione da SARS-CoV-2 e MERS-CoV nei topi.

Le ultime notizie dalla conferenza della International Antiviral Society

Alla conferenza annuale su retrovirus e infezioni opportunistiche (CROI), tenutasi recentemente on line e organizzata dalla International Antiviral Society americana, Wendy Painter ha presentato i dati della fase 2 del molnupiravir (abstract #777), derivati da uno studio condotto in collaborazione con Ralph Baric, virologo esperto di coronavirus alla University of North Carolina. Se somministrato entro quattro giorni dalla diagnosi di infezione da SARS-CoV-2 e non oltre una settimana dall’inizio dei sintomi (quindi con esclusione degli asintomatici), molnupiravir riduce significativamente la quantità di virus nel corpo rispetto al placebo dopo cinque giorni. I dati, finora provenienti da un campione di 130 volontari sani, non hanno evidenziato effetti collaterali o alterazioni ematologiche ed escludono effetti mutagenici della molecola.

Tuttavia, proprio il gruppo del coautore Baric porta (abstract #384) prove di una capacità mutagenica del molnupiravir più alta di quella del Truvada o di altre molecole testate simultaneamente e, per questo motivo, prospetta un uso futuro di questa profilassi antivirale limitato solo ai pazienti più a rischio.

Nello studio di fase 3, che coinvolge poco meno di 1500 partecipanti, nei pazienti non ricoverati si aspettano fino a sette giorni (invece dei quattro dello studio di fase 2) dalla conferma di infezione prima di cominciare la somministrazione del farmaco, anteponendo dunque la prudenza alla precocità della profilassi.

Questa capacità del molnupiravir di ridurre la carica virale se somministrato entro poco tempo dall’infezione era anche prevedibile sulla base di esperimenti fatti in precedenza sui topi, in cui il molnupiravir era stato testato come profilassi antivirale contro il VEEV (venezuelan equine encephalitis virus), un virus a RNA con polimerasi simile a quella di SARS-CoV-2 , e poi altri ancora su topi infettati con SARS-CoV o MERS o SARS-CoV-2, tutti virus a RNA con polimerasi molto simili tra di loro.

Gli antivirali ad ampio spettro, come il molnupiravir, sono stati identificati quando i virologi dei coronavirus hanno compreso che il gene della polimerasi risulta molto conservato nel processo di speciazione dei virus a RNA. La loro genesi dà quindi motivo di credere che possano essere efficaci anche sulle varianti di SARS-CoV-2 di cui si parla negli ultimi mesi.

Durante la conferenza, Meagan O’Brien, dirigente medico della Regeneron, ha poi presentato un altro studio di profilassi (abstract #123) che utilizza invece due anticorpi monoclonali, progettati per attaccare lo spike di SARS-CoV-2 (lo stesso target dei vaccini attuali). In questo studio, è stato effettuato il tampone a tutti i conviventi di adulti con infezione da SARS-CoV-2 asintomatica o con sintomi che non richiedono il ricovero in ospedale. A quelli risultati negativi sono stati somministrati in modo randomizzato la profilassi (un’iniezione sottocutanea dei due anticorpi monoclonali) o il placebo, entro quattro giorni dalla conferma di positività del paziente indice. Durante il mese successivo, è stato visto che i pazienti trattati con il farmaco avevano una probabilità molto minore di manifestare sintomi o cariche virali alte rispetto a quelli trattati con placebo, con un’efficacia che appare anche maggiore di quella del molnupiravir (comprensibilmente, dato l'intervallo più breve tra l'infezione presunta e l'inizio della profilassi).

Il principio secondo cui più si aspetta dall’esposizione virale prima di cominciare la terapia, più essa perde in efficacia, ѐ valido per qualunque profilassi antivirale.

Lo stesso remdesivir, somministrato per via endovenosa, riprodurrebbe molto probabilmente il risultato di O’Brien, come anche già suggerito dai dati prodotti sul macaco infettato con MERS-COV (con farmaco somministrato 24 ore prima o 12 ore dopo l’infezione) o con SARS-CoV-2.

In altre parole, sulla base dei dati a disposizione, non ci sono ragioni per ritenere che gli anticorpi monoclonali (sottocute) abbiano una capacità di abbattere la replicazione virale nel corpo durante i primi giorni dall’infezione maggiore rispetto al molnupiravir (pillola) o il remdesivir, magari incapsulato in nanoparticelle per semplificarne la via di somministrazione. Inoltre, i monoclonali sono molecole grandi rispetto agli analoghi ribonucleosidici e sulle loro cinetiche di penetrazione nei tessuti non si sa abbastanza. Un riferimento a questo problema si trova in questo articolo pubblicato un anno fa su Nature Communications dal gruppo di Nancy Haigwood, nota studiosa del National Primate Research Center dell'Oregon, che ha dimostrato la superiorità degli antivirali convenzionali per l’HIV (in particolare del cocktail Truvada) rispetto ai monoclonali, nell'abbattere il tasso di trasmissione perinatale nel macaco.

Il vantaggio degli antivirali contro le varianti

Gli esperti di filodinamica virale non hanno metodi per poter prevedere, in questa fase, quante nuove varianti virali emergeranno nei prossimi mesi. Le analisi di sequenziamento suggeriscono però che il virus si sta ancora evolvendo e dunque la possibilità che nuove varianti emergano e continuino a dominare ѐ considerata ancora alta.

L’altra preoccupazione dal mondo della filogenesi virale ѐ che alcune di queste nuove varianti si presentano con mutazioni non spiegabili attraverso semplici equazioni di dinamica di trasmissione virale nella popolazione; i modelli richiedono di invocare tempi più lunghi di replicazione nello stesso ospite, fenomeno che ѐ noto accadere in soggetti immunocompromessi. Aree geografiche del mondo o segmenti demografici all’interno di ogni paese con minore controllo della pandemia da AIDS potrebbero costituire serbatoi importanti per la generazione di nuove varianti, che, dunque, vanno poste al centro del monitoraggio internazionale.

Alcuni filogenetisti avanzano anche scenari più ottimistici, sulla base dei dati del primo anno di pandemia. Il numero di combinazioni di mutazioni critiche per l’emergenza di nuove resistenze capaci di prevalere su tutte le altre non sembra altissimo per questo tipo di virus, dal momento che i mutanti sembrano ripresentarsi con combinazioni abbastanza sovrapponibili e ricorrenti. Dunque, le nuove generazioni di varianti diventerebbero, con il passare dei cicli, sempre più prevedibili (così come, in parallelo, diventerebbe più pronosticabile l’efficacia dei nuovi richiami di vaccino per contrastarli).

Al netto di queste diverse posizioni sui possibili scenari futuri, ci sono le varianti già emerse e diventate dominanti in alcune zone del pianeta. Alcuni degli anticorpi monoclonali contro COVID-19 approvati per uso emergenziale in diversi paesi mostrano una modesta o nulla capacità neutralizzante. Questo fenomeno non giunge del tutto inaspettato: le varianti virali sono state selezionate da una pressione immunitaria che ѐ la stessa dalla quale gli anticorpi monoclonali (diventati farmaco) sono stati clonati.

La pressione immunitaria agisce, infatti, soprattutto sul gene della proteina spike virale, mentre nessuna pressione dovrebbe agire sul gene della polimerasi virale: dunque, un analogo ribonucleosidico come il remdesivir o il molnupiravir dovrebbe mantenere la stessa capacità neutralizzante contro tutti i possibili mutanti virali che continueranno a emergere.

Quanto detto merita una serie di condizionali, in quanto il remdesivir e il molnupiravir o altri analoghi ribonucleosidici non sono ancora stati testati, neppure in vitro, contro le nuove varianti virali. Nonostante questo, Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, ha recentemente definito la ricerca di antivirali progettati per SARS-CoV-2 come la direzione futura della risposta alla pandemia.

Vaccini, una soluzione parziale

In attesa di soluzioni alternative, occorre sperare che i programmi di vaccinazione accelerino. Tuttavia non bisogna riporre tutte le speranze sui vaccini: essi soffrono della stessa vulnerabilità all’evoluzione del SARS-CoV-2 che interessa gli anticorpi monoclonali: il loro funzionamento si basa sulle caratteristiche della proteina spike, la parte del virus più esposta a mutazioni.

È stato osservato che in vitro il plasma dei vaccinati con Pfizer e Moderna perde significativamente capacità neutralizzante contro alcune di queste nuove varianti virali, mentre l'entità di questa perdita in vivo non è ancora nota.

I dati dello studio di fase 3 sul vaccino AstraZeneca condotto in Sudafrica, dove la variante dominante è la B.1.351, hanno mostrato che la sua efficacia è estremamente bassa nel prevenire i casi lievi e moderati della malattia. Sulla base dei dati raccolti in Sudafrica, non sappiamo ancora se questo vaccino protegga almeno contro le forme più gravi del Covid. I livelli di anticorpi prodotti potrebbero essere sufficienti a ridurre la carica virale nel corpo, durante i primi giorni dell’infezione, ovvero quanto basta per rendere un po’ più benigno l’intero corso della malattia. Nel criceto, per esempio, il vaccino di AstraZeneca riesce comunque a prevenire la manifestazione della malattia, sebbene induca livelli anticorpali più bassi contro la variante B.1.351.

Il vaccino di Johnson&Johnson ha completato lo studio di fase 3 solo nelle ultime settimane e pare, fortunatamente, che la sua protezione contro le forme gravi della variante sudafricana resti alta. Un’altra variante, la B.1.526, con alcune caratteristiche in comune con la B.1.1.7 (cosiddetta inglese) e la B.1.351, incalza in queste settimane nello stato di New York, come racconta David Ho, direttore dell’Aaron Diamond AIDS Research Center, in una sua recente intervista al New York Times. Della sua capacità di resistere all’azione neutralizzante degli anticorpi monoclonali o dei vaccini si sa ancora poco, ma Anthony Fauci ha accennato una settimana fa a dati che suggeriscono una possibile perdita di efficacia dei vaccini contro questa variante, fortunatamente minore rispetto a quella osservata per la B.1.351.

In generale, va aggiunto che un vaccino che protegge in modo parziale potrebbe esercitare una pressione immunitaria parziale, utile certamente a salvare vite nel breve termine, ma che potrebbe, al tempo stesso, accelerare l’emergenza di nuove varianti virali, soprattutto dove si abbassi la guardia sull’uso di mascherine e sul distanziamento sociale troppo presto dopo la vaccinazione. Queste considerazioni invitano a pensare alle vaccinazioni come strumento per salvare vite, ma non per restituirci nell’immediato la normalità delle relazioni esterne.

Investimento per il futuro

Indipendentemente dalle varianti, l’efficacia di un vaccino dipende anche dalla quantità di anticorpi prodotti nel soggetto vaccinato, che comincia a scemare qualche mese dopo la vaccinazione, purtroppo più rapidamente proprio nelle popolazioni più vulnerabili e la cui tenuta effettiva ancora non è nota; dunque, nei mesi successivi alla vaccinazione, una convergenza di fattori sfavorevoli (tra cui il rilassamento di restrizioni, seppur necessarie per la ripresa dell’economia del paese e/o gli intervalli di somministrazione dei richiami vaccinali, in assenza di mascherine o distanziamento sociale) potrebbe far vincere la partita al virus, se vengono a mancare altre armi, come quelle della profilassi antivirale.

Immaginiamo che tra cinque anni, dopo aver eradicato il virus SARS-CoV-2 dal pianeta, un nuovo virus a RNA faccia il salto di specie e infetti quella umana, con il gene della polimerasi ancora una volta ben conservato nella nuova specie virale. I recettori chiave del nuovo patogeno sono completamente diversi, sicché i vaccini e i monoclonali prodotti contro il SARS-CoV-2 non funzionerebbero. Immaginiamo anche che il remdesivir (o un analogo) sia a quel punto disponibile nella versione in pillola (o sottocutanea o inalatoria), e abbia dimostrato un buon profilo tossicologico e efficacia significativa nel ridurre il rischio di progressione della malattia o di trasmissione del virus ai contatti stretti, se somministrato in tempo. Come utilizzeremmo quel farmaco e che corso seguirebbe l’intera pandemia?

Se i nuovi sviluppi degli studi di Painter e O’Brien porteranno nei prossimi mesi all’approvazione per uso in condizione di emergenza di farmaci destinati a una buona percentuale di soggetti “consapevoli” di essere stati esposti al virus, la scienza risparmierebbe un bel carico di sofferenza evitabile. Una seconda vittoria si otterrebbe se il farmaco antivirale fosse anche in grado di arrestare o contenere i focolai infettivi (attraverso pronta somministrazione della profilassi antivirale dopo tracciamento dei casi sul territorio).

D'altra parte, molecole come remdesivir, molnupiravir e altre simili, inibitrici della polimerasi virale, già esistevano prima della pandemia da SARS-CoV-2 e sarebbero potute già essere considerate un farmaco potenzialmente utile se si fosse prestato attenzione ai timori della comunità scientifica verso un prevedibile salto di qualità dei virus a RNA (e considerando che MERS, possibile bersaglio di questi antivirali ad ampio spettro, è ancora in circolazione).

In generale, una ricerca preclinica più mirata e distribuita sull’intero pianeta, accelererebbe, attraverso un’interlocuzione plurale e trasparente delle comunità scientifiche di diversi paesi, la scoperta di un qualsiasi antidoto alla sofferenza di specie, in questo caso un farmaco antivirale con profilo tossicologico favorevole da utilizzare prontamente come profilassi preventiva a partire dai primissimi mesi del contagio.


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