Sostiene il tribunale che il dissenso della ragazza non era sufficientemente informato e che «le decisioni in campo medico sanitario sono in alcuni casi troppo delicate e complesse, oltre che di estrema rilevanza riguardando la salute del minore, per poter essere valutate da una ragazzina di 14 anni».
La decisione nasce da un conflitto genitoriale – il padre vuole la vaccinazione e la madre no – che il tribunale della famiglia, come è suo compito, è chiamato a dirimere. La peculiarità di tutti questi procedimenti sta nel fatto che, pur essendo formalmente dei “contenziosi” tra due adulti, generano una decisione i cui effetti ricadono direttamente su un minore. La peculiarità ulteriore di questo procedimento particolare sta nel fatto che la decisione che si intende assumere ha carattere sanitario e tocca la sfera più personale dell’individuo.
Va subito detto che il rilievo pratico della decisione rischia di essere pari al nulla. È ovvio che, qualunque cosa dica il padre, la somministrazione del vaccino non è un atto fisicamente coercibile. Quindi, se la ragazza non vuole, non si vaccina. Non solo. È verosimile che, a prescindere dal consenso prestato dal padre, sarebbe ben difficile trovare qualche “vaccinatore” disposto a somministrare il vaccino a un’adolescente che si dichiara contraria.
Detto ciò, i temi teorici sono di grande rilievo. Si delineano, a mio modo di vedere, tre piani di riflessione: quello strettamente processuale, quello dei diritti individuali, quello della tutela collettiva. Tutti e tre si combinano a piacere del lettore. Dunque, al lettore è lasciato il piano superiore delle intersezioni.
Prima di procedere, è anche necessario fare una dichiarazione di (non) conflitto di interessi. Chi scrive è convintamente pro-vaccini, è munito di “tripla dose” e ha fatto vaccinare i propri figli. Chi scrive è anche collega di sezione delle valenti magistrate che hanno redatto il decreto e ha già autorizzato la somministrazione del vaccino ad adolescenti che lo desideravano contro la volontà dei genitori.
Il piano del processo
Questo aspetto è più strettamente tecnico e forse poco appassionante e comprensibile per il non giurista. Cercherò di renderlo agevole. Come ho detto sopra, i procedimenti che si svolgono davanti alla sezione famiglia del tribunale ordinario – a differenza, ad esempio, di quello che accade al Tribunale per i minorenni – vedono contrapposti due adulti che litigano su scelte da prendere per i propri figli. Questo comporta che, davanti al giudice, solo gli adulti hanno un loro rappresentante – l’avvocato – che possa fare valere le rispettive ragioni e muovere le leve del processo. Tuttavia, quello che il tribunale decide avrà effetto nella sfera giuridica e fisica del minore, che in qualche modo attende passivamente. Ora, poiché la vitae necisque potestas non è più in vigore da qualche secolo, esiste un problema oggettivo: il principale soggetto del processo non è nel processo. Questa situazione è stata affrontata dalla corte di cassazione imponendo al tribunale la nomina di un curatore speciale del minore ogni volta che il conflitto tra i genitori sia così intenso da giustificare la limitazione della loro responsabilità genitoriale; cioè di un soggetto, normalmente dotato anche della qualifica di avvocato, che possa prendere parte in senso tecnico al processo, per rappresentare gli interessi del minore. Il razionale di questo principio sta nella considerazione che due genitori in aperto contrasto non è detto che siano in grado di valutare in modo lucido l’interesse del minore. Quindi è giusto che il minore abbia la sua voce autonoma all’interno del processo.
Nel nostro caso il contrasto c’era e andava anche al di là della scelta sul vaccino, visto che la minore era affidata all’Ente territoriale, con limitazioni della responsabilità genitoriale per entrambi i genitori. Ma qui c’è ancora di più. Sempre la cassazione, nel noto caso Englaro, ha affermato che, quando si tratta di assumere decisioni sanitarie per un soggetto incapace, il legale rappresentante dotato di compiti generali deve essere ritenuto in potenziale conflitto di interessi (perché portatore di convinzioni, idee, fede.. che non necessariamente devono coincidere con quelle del rappresentato) e non dotato del potere sostanziale di rappresentare l’incapace stesso in atti di contenuto strettamene personale. Di nuovo, deve essere nominato un curatore speciale. Qui, quindi, il curatore speciale doveva essere nominato per due ragioni: perché i genitori erano in conflitto tra di loro e perché la decisione da assumere aveva ad oggetto una scelta personalissima della minore. Il curatore avrebbe potuto esplicitare le ragioni della minore al tribunale con la stessa dovizia tecnica con cui hanno potuto farlo le altre parti, magari garantirle la dovuta informazione e, perché no, convincerla a cambiare idea. Peccato che non sia stato fatto. Si nominano curatori speciali per decidere quanti giorni il bambino debba stare con il padre o la madre o se debba frequentare il liceo linguistico o alberghiero. Valeva la pena farlo anche per decidere del vaccino.
Il piano dell’individuo
Quando si tratta di affrontare il tema dell’autonomia personale sotto l’aspetto giuridico bisognerebbe cercare di mettere da parte le personali convinzioni e limitarsi al rispetto del sistema delle fonti del diritto. Piaccia o non piaccia, il nostro ordinamento è costruito attorno al soggetto (di diritto, non in senso ontologico) inteso nella sua dimensione individuale. Questo segna una netta differenza, ad esempio, con molti modelli giuridico-sociali di provenienza asiatica. La legge – da sempre – ha una vocazione conformativa della natura, stabilendo la maschera che l’individuo deve indossare per assumere il carattere di persona nel mondo delle relazioni giuridiche. A questa persona è riconosciuto il diritto fondamentale e inalienabile di decidere cosa debba essere di sé e del proprio corpo. Lo dice da sempre l’articolo 13 della Costituzione e lo dice anche a proposito dei trattamenti sanitari, a partire da Corte costituzionale n. 471 del 1990. Non il giudice, questo è importante chiarirlo, ma la legge riconosce a tutti il diritto di fare scelte stupide (e non me ne vogliano i non vaccinati), addirittura e incontestabilmente fino al punto di rimetterci la vita. Insomma, non vi è certo necessità di ripetere quello che da anni è pacifico in tema di consenso informato. L’ordinamento tutela terrapiattisti, no vax, fautori della omeopatia, sostenitori della teoria di Hamer… Ognuno crede in quel che vuole e muore come vuole, fino a quando ciò non comporti un onere per la collettività (e qui rinviamo all’ultima parte). Il suicidio non è un atto illegale e non potrebbe neppure esserlo, visto che determina la cessazione del soggetto e quindi l’interesse che il diritto ha per esso.
Tutto questo è vero solo a partire dal diciottesimo anno di età ? Cioè possiamo dire che la maggiore età rappresenti un netto spartiacque tra autonomia e tutela? Ovviamente sappiamo che non è così. Il passaggio dalla logica della tutela a quello dell’autonomia può essere rappresentato come un continuo ricco di sfumature, da costruire sulla persona specifica. La maggiore età è un espediente utilizzato dal diritto civile, in tutte le epoche, per escludere dai traffici giuridici di contenuto patrimoniale chi, non avendo la sufficiente maturità, rischierebbe di alimentare incertezza e confusione. Ma quando si tratta di decidere di se stessi è tutta altra questione e si deve guardare non alla carta di identità, ma alla maturità psichica dell’individuo. In questo caso, l’esercizio della responsabilità genitoriale – anche mediato dal tribunale – si deve porre in termini elastici, in relazione al grado di autonomia di cui è capace il minore, avendo come scopo la salute e la dignità del minore stesso. Siamo di fronte a un processo decisionale complesso, in cui entrano una molteplicità di attori, tra cui sicuramente il medico. Questo è il senso dell’articolo 3, legge n. 219 del 2017, pure richiamato dal tribunale, quando dice che bisogna tenere conto della volontà del minore. E l’articolo 3 dice anche un’altra cosa, che il minore ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e decisione e che deve ricevere le necessarie informazioni per essere messo nelle condizioni di decidere consapevolmente. Rispetto all’informazione, va ricordato che la necessità di rendere edotto il paziente degli elementi di conoscenza che possono aiutarlo a decidere è un passaggio costituzionalmente imposto. Giacché il diritto di decidere del proprio corpo, nel senso del consenso o del dissenso, è esercizio di una libertà costituzionale e giacché l’informazione completa e comprensibile è pre-condizione della validità giuridica della scelta, questa informazione va fornita affinché il soggetto assuma la sua decisione.
Il tribunale considera la volontà del minore, disponendone l’audizione e ritiene di non tenerla in conto perché la ragazzina avrebbe addotto motivazioni superficiali per spiegare la propria contrarietà. Parte dal fondo il tribunale, ma forse dimentica il pezzo in mezzo. Se la minore è disinformata, non va negato il rilievo al dissenso, ma va resa l’informazione come impone la legge n. 219 del 2017. Se la minore sia sufficiente matura non lo può decidere il tribunale, che non ha competenze specifiche, sulla base di un’audizione di qualche decina di minuti. Il tribunale avrebbe potuto e dovuto nominare, magari su richiesta di quel curatore speciale che è mancato, una figura con competenze mediche e in ambito psicologico, la quale avrebbe dovuto farsi carico di illustrare gli elementi di conoscenza per avviare un processo decisionale in cui coinvolgere la ragazza e, al contempo, valutarne capacità, maturità e condizione emotiva. Fatto questo percorso, avrebbe potuto ben essere affermata la medesima conclusione, ma con una motivazione e una legittimità giuridica ed etica ben differente.
Rimane anche una diversa strada, personalmente non condivisibile, ma comunque praticabile e motivabile: spostare fortemente il pendolo sul versante del best interest della minore. Di per sé questa formula non è risolutiva, perché poi rimane da definire il concetto di miglior interesse. In ogni caso, mi sembra fuori discussione che questo tipo di ragionamento richieda di partire da una ponderazione individualizzata a partire dal rapporto costi/benefici della vaccinazione per quello specifico soggetto. Quindi, documenti di carattere generale (Ministero, ISS, FDA…) sulla utilità – anche in termini collettivi – della vaccinazione, raccomandazioni, autorizzazioni amministrative alla somministrazione lasciano il tempo che trovano. Si deve vedere quale rischio rappresenti la mancata vaccinazione per quella ragazza, tenendo conto dell’incidenza della malattia nel suo ambito di riferimento, dell’incidenza delle conseguenze della malattia nella classe di età e sesso e per le condizioni specifiche di salute, dell’incidenza degli effetti avversi della vaccinazione sempre per la medesima classe di età e sesso etc…
Ora, se vogliamo evitare facili slogan, mi pare piuttosto chiaro che l’utilità marginale della vaccinazione Covid-19 per soggetto di quattordici anni sia di gran lunga spostata sul versante sociale. Difficilmente la vaccinazione di un’adolescente può essere definita decisione di “estrema rilevanza” per la salute della minore (lo sarebbe molto di più, tanto per dire, la vaccinazione HPV). In ogni caso, questo tipo di ragionamento non è neppure accennato nel decreto del tribunale. Fondamentalmente il tribunale utilizza esattamente gli stessi argomenti illustrati nelle tante decisioni precedenti in cui il minore era favorevole alla vaccinazione e ad opporsi era uno dei genitori. Ma i principi in gioco, nel caso di minore che rifiuti la vaccinazione, sono radicalmente differenti e la distanza concettuale non è colmata da una rapida audizione (della minore) all’esito della quale si dice che la ragazza merita di essere “sentita” ma non “ascoltata”.
Il piano sociale o della collettività
L’ultimo piano da affrontare è quello della utilità sociale della vaccinazione. Si può imporre la vaccinazione, anche ai minori di età, non già nel miglior interesse del singolo, ma della collettività? Ovviamente la risposta è assolutamente positiva. Ancora una volta, non si tratta di formulare opinioni personali, ma di leggere le norme. Lo dice chiaramente l’articolo 32, comma 2 della Costituzione e l’osservazione è del tutto banale. Anzi, sarebbe stata sicuramente la soluzione meno ipocrita quella dell’obbligo vaccinale, piuttosto che ricorrere a un improbabile nudging condito di green pass e super green pass. L’obbligo vaccinale avrebbe consentito di estendere la disciplina degli indennizzi prevista dalle leggi n. 210/1992 e 229/2005, in questo modo socializzando anche gli eventuali e inevitabili eventi avversi legati alla vaccinazione.
Il piano individuale e della tutela collettiva si muovono in base a direttive del tutto differenti.
Il primo è dominato dalla scelta egoistica del singolo, a lui è dovuta l’informazione (non dimentichiamo, per favore, la matrice contrattuale della teoria del consenso informato in Italia) e a lui è consentita anche la scelta che “gli altri” giudicherebbero irrazionale. Il secondo è dominato dagli interessi superindividuali, l’informazione è un obbligo del singolo e l’ignoranza epistemica è un privilegio che non è consentito. Ma deve essere chiaro che a fissare i limiti tra i due piani non può e non deve essere il giudice. È compito del legislatore (e quindi della politica) quello di imporre obblighi nell’interesse generale; obblighi per i quali – in campo sanitario – vige una riserva di legge espressa.
In passato abbiamo assistito a scelte giudiziarie che hanno ribaltato questo riparto di compiti. Abbiamo avuto giudici che hanno sprecato risorse collettive per assicurare il soddisfacimento di desideri individuali. Penso alla vicenda Di Bella, a Stamina [in cui varie sentenze ordinarono di proseguire il trattamento opponendosi al divieto dell'Agenzia italiana del farmaco]. Ora rischiamo di assistere al percorso inverso, giudici che si lasciano guidare da interessi collettivi a discapito di libertà individuali. Tutti e due gli atteggiamenti sono sbagliati. Può sembrare cosa da poco in un periodo storico in cui i tanti, tantissimi pro-vax sono costretti a subire la violenza verbale (e non solo) – dilagante sui social, oggi nefasti luoghi di aggregazione dell’assenza di pensiero – dei pochi, pochissimi no-vax. Ma è nelle emergenze che ciascuna istituzione deve dimostrare di sapere rispettare il proprio ruolo nel complesso di poteri e funzioni che rendono tale questo sistema democratico.
La “stagione” dei DPCM ha già inferto una pesante spallata al sistema della gerarchia delle fonti e la crisi epidemiologica è stata l’occasione per rispolverare norme di pubblica sicurezza risalenti al periodo fascista. Non vorrei che la vittima successiva fosse il rispetto dell’autodeterminazione individuale. Il giudice Liacos, in Saikewicz – caso antesignano del giudizio di sostituzione – esprime un concetto paradigmatico della scelta per l’incapace: «The goal is to determine with as much accuracy as possible the wants and needs of the individual involved. This may or may not conform to what is thought wise or prudent by most people». È lo stesso concetto che trenta anni dopo verrà affermato dalla nostra corte suprema in una delle migliori sentenza mai scritte sul tema del consenso all’atto medico. Trovarci, tra qualche anno, senza virus, ma anche sbalzati culturalmente indietro di due decenni sarebbe l’ennesimo effetto avverso di Covid-19.