Il 20 novembre si celebra la Giornata mondiale dei diritti dei bambini. La data richiama due eventi importanti: il 20 novembre del 1959 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la Dichiarazione dei Diritti del fanciullo e, in quello stesso giorno di trent’anni dopo, la stessa assemblea approvò la Convenzione sui Diritti dell’Infanzia e dell’adolescenza, conosciuta con l’acronimo CRC, tratto dall’inglese Convention on the Rights of the Child.
Save The Children, la cui fondatrice Eglantyne Jebb negli anni Venti aveva scritto il testo che sarebbe stato utilizzato come base per quelle due carte, a ridosso della data ha presentato la tredicesima edizione dell’Atlante dell’infanzia (a rischio). Un’edizione particolarmente interessante perché è dedicata alla salute, un tema nuovo per l’organizzazione, ma che viene affrontato con l’ottica che da sempre è quella di Save The Children: l’impatto delle disuguaglianze socioeconomiche, educative e territoriali.
“Come stai?” è il titolo del volume, ma è anche la domanda che bambine, bambini e adolescenti in Italia e nel mondo avrebbero voluto sentirsi fare in questi anni in cui una situazione già per certi versi critica è stata peggiorata dalle conseguenze della pandemia di Covid-19 e dalla guerra, ma che, invece, pochissimi adulti hanno rivolto loro presumendo di sapere cosa fosse meglio per i ragazzi senza ascoltarli. E invece l’ascolto è fondamentale, se ne sono accorte anche le organizzazioni internazionali: nel 2017 l’OMS assieme ad altri partner come UNICEF, UNAIDS e UNFPA ha lanciato l’iniziativa Accelerated Action for the Health of Adolescents (AA-HA!) per cambiare il modo in cui i Paesi si confrontano con la salute degli adolescenti. In particolare si chiede un’inclusione sistematica delle aspettative e delle prospettive dei ragazzi stessi nella progettazione delle iniziative dei vari Paesi. E a febbraio 2022, l’OMS Europa ha pubblicato nuove linee guida su come coinvolgere adolescenti e giovani nel processo decisionale sulla loro salute.
L’attenzione dell’Atlante si concentra, dunque, sui determinanti sociali della salute, ovvero analizza quanto incidano sulla salute del bambino (e dell’adulto che sarà) fattori come il luogo in cui nasce, dove vive, quale reddito ha la famiglia, come è la sua casa, qual è il sistema sanitario del paese, quanto è inquinata la città, qual è il livello di istruzione dei suoi genitori. Con la convinzione che gli interventi sanitari sono solo una piccola parte di quello che andrebbe fatto per mantenere o migliorare il benessere psico-fisico dei bambini. L’Atlante fotografa la situazione, mettendo in evidenza anche i nuovi problemi nati con la pandemia, perché quello di cui possiamo essere certi è che Covid 19 non ha lasciato niente come prima, facendo spesso deflagrare situazioni già critiche in partenza.
Cosa è emerso? Un panorama vario e per certi versi contraddittorio.
L’Italia ha un tasso di mortalità infantile (entro il primo anno di vita) tra i più bassi al mondo, ma che varia grandemente tra una regione e l’altra, passando da 1,45 decessi ogni 1000 nati vivi in Toscana a 3,34 in Sicilia e addirittura al 4,42 in Calabria e con il 38% dei casi di decesso relativi a bambini con mamme di origine straniera. Le differenze regionali rimangono un problema enorme della sanità. Basta pensare che se la speranza di vita alla nascita nel 2021 si attesta a 82,4 anni (anche qui tra le più lunghe al mondo), ci sono però 3,7 anni di differenza tra l’aspettativa di vita di chi nasce a Caltanissetta (80,2) e di chi nasce a Firenze (83,9). Mentre l’ultimo rapporto Istat sul Benessere equo e sostenibile evidenzia una differenza anche maggiore rispetto all’aspettativa di vita in buona salute: ci sono oltre 12 anni di differenza per esempio tra chi nasce nella provincia di Bolzano (67,2 anni) e chi nasce in Calabria (54,4 anni). E tra le bambine la forbice è ancora più ampia: 15 anni in meno in Calabria rispetto al Trentino. Mentre un bambino del Mezzogiorno che si ammalava nel 2019 aveva una probabilità di dover migrare in altre regioni per curarsi del 70% in più rispetto a un bambino del Centro o del Nord Italia.
Abbiamo un servizio sanitario basato sui principi di universalità e uguaglianza, ma un accesso alle cure non sempre facile per i più fragili, come i minorenni di origine straniera.
Abbiamo la dieta mediterranea e paesaggi fantastici, ma circa l’82% dei bambini e dei ragazzi vive in aree inquinate da polveri sottili e la percentuale dei minorenni obesi o sovrappeso è tra le più alte in Europa, mentre lo sport è praticato poco e, dopo il Covid, ancora meno.
Abbiamo operatori sanitari impegnati e bravissimi, come è emerso durante l’emergenza pandemia, ma una spesa sanitaria pubblica che fino al 2019 era pari al 6,4% del PIL, inferiore alla media europea e molto inferiore rispetto alla Germania o alla Francia.
Abbiamo ospedali che hanno performance migliori della media europea, ma servizi territoriali che si sono prosciugati negli anni e che invece sarebbero quelli più utili per i minorenni che per fortuna accedono poco agli ospedali ma hanno comunque una domanda di salute da evadere e bisogni specifici che cambiano nell’età evolutiva, dai primi 1000 giorni fino all’adolescenza. A questo proposito, il numero dei consultori familiari si è andato via via assottigliando: tra il 2014 e il 2020 c’è stata una riduzione di oltre il 6% del numero di centri attivi e nel biennio 2018-19 la media di utenti per singola struttura era di 32.325 persone, ben al di sopra dei 20.000 stabiliti dalla legge (34/1996).
Abbiamo due leggi sulla salute mentale che hanno fatto scuola nel mondo: la 180 del 1978 che ha sancito la chiusura degli ospedali psichiatrici e la 517 del 1977 che ha disposto la chiusura delle scuole speciali e delle classi differenziali, ma abbiamo scarsi servizi territoriali per evitare i ricoveri dei bambini e dei ragazzi nei reparti di neuropsichiatria infantile che peraltro hanno solo 394 posti letto a livello nazionale e nessuno in alcune regioni. A dimostrazione che l’Italia è un Paese in cui ci sono leggi avanzate ma l’applicazione lascia a desiderare.
Abbiamo una rete di associazioni e di volontari molto estesa e di grandissima utilità e iniziative importanti lungo tutto il paese, ma non abbiamo la capacità di censirle, di metterle in rete e in generale manchiamo di dati certi su molti temi di salute dell’infanzia che invece sarebbero fondamentali per orientare e mirare le politiche e gli interventi sanitari. In particolare, non esistono dati nazionali sulla salute mentale dei minorenni perché vengono raccolti in modo diverso da regione a regione e quindi non sono confrontabili. Proprio recentemente tuttavia è stato messo in piedi un gruppo di lavoro presso il Ministero della Salute che dovrebbe ovviare a questo problema.
Abbiamo avuto una risposta forte e importante da parte del servizio sanitario all’emergenza Covid, ma le conseguenze della pandemia sui ragazzi sono state molte, a cominciare dalle mancate diagnosi, le cure interrotte, l’aumento dei tassi di obesità per arrivare ai disagi di tipo psichico aumentati moltissimo negli ultimi due anni accelerando una tendenza già in atto.
Secondo le stime del Tavolo di lavoro tecnico sulla salute mentale, infatti, già prima della pandemia 200 bambini e ragazzi su 1000 manifestavano un disturbo neuropsichiatrico (1.890.000 minori), ma meno di un terzo aveva accesso ad un servizio territoriale di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza e nella metà dei casi non riusciva ad avere risposte terapeutico-riabilitative appropriate nel proprio territorio.
E, a proposito dell’effetto pandemia, un’indagine condotta dalla Società Italiana di Pediatria tra marzo 2020 e marzo 2021 in 9 regioni italiane (Abruzzo, Basilicata, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Lazio, Liguria, Lombardia, Marche, Umbria), evidenzia un aumento del 39,5% nei ricoveri per patologia neuropsichiatrica infantile; la principale causa è stata l’ideazione suicidaria seguita da depressione e disturbi della condotta alimentare.
Tra le richieste più urgenti di Save the Children c’è quella di attivare le nuove Case della Comunità finanziate dal PNRR, garantire in tutte le Regioni i più avanzati screening neonatali, realizzare interventi organici per la prevenzione e la cura del disagio mentale degli adolescenti, ma anche assicurare la mensa scolastica e attività sportive gratuite per combattere povertà alimentare e promuovere sani stili di via. In particolare le Case della Comunità dovrebbero diventare il fulcro di una nuova rete territoriale per la salute, multidisciplinare, integrata con i servizi sociali ed educativi, sostenuta dal rilancio dei consultori e da costruire con la partecipazione dei cittadini. Ma la domanda delle domande è: come verranno realizzate? Nella progettazione, le attività consultoriali e l’attività rivolta ai minori è infatti “facoltativa”, gli interventi di salute pubblica (incluse le vaccinazioni per la fascia 0-18) sono “facoltativi”, i servizi per la salute mentale, le dipendenze patologiche e la neuropsichiatria infantile e dell’adolescenza solo “raccomandati”. Siamo tutti chiamati a sorvegliare.