fbpx Una civiltà dell’Età del bronzo collassata per crisi climatica e sovrasfruttamento del suolo. Rischi di oggi, 3.200 anni fa | Scienza in rete

Una civiltà dell’Età del bronzo collassata per crisi climatica e sovrasfruttamento del suolo

La siccità che oggi affligge la Pianura Padana ha precedenti antichissimi: 3.200 anni fa una fase di acuta aridificazione ha probabilmente contribuito alla scomparsa di una delle più antiche civiltà del Nord Italia, già infragilita da forme di sovrasfruttamento delle risorse naturali. Andrea Zerboni, docente dell’Università degli Studi di Milano, ci parla della delicata relazione tra uomo e clima e di come gli umani possano avere iniziato a provocare cambiamenti irreversibili dell’ambiente e a costruire sistemi non sostenibili già nella preistoria. Immagine: Ricostruzioni di due abitazioni nel museo all'aperto del Parco della Terramara di Montale (foto P. Terzi, Wikipedia)

Tempo di lettura: 9 mins

È stato un lungo periodo di siccità a provocare il collasso della civiltà terramaricola, fiorita in Pianura Padana attorno a 3.500 anni fa e conclusasi in modo relativamente brusco trecento anni dopo? Secondo Andrea Zerboni, docente di Geografia Fisica e Geomorfologia all’Università degli studi di Milano, l’ipotesi è molto plausibile: e i segnali che indicano che c’è una precisa corrispondenza tra l’abbandono di centinaia di villaggi e una fase di siccità protratta sono numerosi.

In effetti la civiltà terramaricola, cultura dell’Età del Bronzo che prosperava da qualche secolo nella Pianura Padana, scompare velocemente, dissolvendosi nel giro di poche generazioni: i villaggi di pianura, notoriamente caratterizzati da abitazioni costruite su palafitte all’asciutto e circondati da fossati pieni d’acqua e reti di complessi sistemi idraulici, vengono abbandonati.

Contemporaneamente, invece, resistono alla stessa crisi e continuano la loro esistenza i villaggi situati a una maggiore altitudine sulle colline dell’Appennino settentrionale, i cui abitanti erano abituati a condizioni più dure e avevano costruito relazioni diverse con il territorio. 

Si tratta di un esempio di sistemi che oppongono una diversa vulnerabilità a una crisi climatica? Molti segnali sembrano confermare questa ipotesi. Se così, è anche un esempio importante di come le relazioni che una civiltà stabilisce con il territorio in cui vive siano fondamentali per la sua capacità di resistere alle crisi climatiche e per la sua stessa sopravvivenza. Una lezione che può arrivare fino ai giorni nostri. 

Sono i risultati di quarant’anni di studi negli scavi della Terramara Santa Rosa di Poviglio, condotti dall’Università degli Studi di Milano prima sotto la direzione di Mauro Cremaschi, oggi direttore del museo dedicato agli scavi di Poviglio, quindi sotto la direzione attuale di Andrea Zerboni. Che ci ha raccontato i risultati di lunghi anni di studio multidisciplinare nella zona. Partendo da dove è iniziato tutto: con il disboscamento massivo della Pianura Padana.

Cavallini fittili dell'Età del Bronzo in una teca del Museo della Terramara.

L’antico disboscamento della Pianura Padana

Spiega Zerboni: «Benché il disboscamento della Pianura Padana, che era un tempo coperta di foreste, sia iniziato già circa 5.000 anni fa, è nell’Età del Bronzo, intorno a 3.500 anni fa, che fu fortemente intensificato, per fare spazio ai villaggi, ai pascoli, alle coltivazioni e perché il legno serviva alla costruzione delle tipiche palafitte su cui sorgevano le abitazioni; una delle prove è che nei suoli dell’epoca, conservati sotto i sedimenti dovuti alle alluvioni fluviali, le analisi stratigrafiche mostrano i resti di incendi, perché il disboscamento si eseguiva generalmente con la tecnica del taglia e brucia; ma anche i record regolari dei pollini, come quelli dei depositi lacustri, conservati nei sedimenti sul fondo dei laghi, mostrano che progressivamente – anche se con oscillazioni - sono diminuite le specie vegetali tipiche dei boschi, come la quercia, mentre sono aumentate le specie coltivate dall’uomo e quelle non boschive. Gli umani hanno quindi iniziato molto presto a modificare irreversibilmente l’ambiente, sicuramente con l’agricoltura, che impedisce al bosco di ricrescere. Ma anche la realizzazione di canali per l’irrigazione modifica definitivamente il territorio. Così come la deviazione di un fiume. Si tratta di modifiche magari piccole, ma significative. Il problema è se poi l’insieme di queste modifiche porta a uno squilibrio: come è probabilmente successo nel caso delle Terramare».

Per quanto non sia facile immaginarlo, abituati come siamo ad associare l’idea di sfruttamento eccessivo delle risorse naturali ai nostri tempi, molti dati portano in effetti a ipotizzare che già 3.200 anni fa in Pianura Padana si sia realizzato un sovrasfruttamento delle risorse naturali.

Continua Zerboni: «La civiltà terramaricola ha disboscato la Pianura Padana centrale e trovato un terreno fertile e molto produttivo: c’è stato quindi un forte sviluppo dell’agricoltura, con forme di coltivazione intensiva lungo le sponde del Po e dei suoi affluenti, ben prima dello sfruttamento agricolo che sarebbe stato messo a punto dai Romani. I villaggi si sono moltiplicati e c’è stato probabilmente un forte sviluppo demografico: questo è durato qualche secolo, a partire da circa 3.500 anni fa. Poi circa 3.200 anni fa le comunità sono scomparse e i villaggi a nord e sud del Po sono stati abbandonati nel giro di poche decine di anni. Le popolazioni migrano per tante ragioni: i dati raccolti nel sito di Poviglio, dove con gli scavi abbiamo esplorato sia il villaggio sia gli importanti sistemi per la gestione idrica tipici di questa civiltà, hanno fornito molti elementi che fanno pensare a una crisi indotta dalla siccità, che ha fatto precipitare una preesistente situazione di difficoltà legata alla progressiva perdita di fertilità della terra dovuta all’intenso sfruttamento agricolo e alla massiccia deforestazione».

I segni che portano a identificare un lungo periodo di siccità 3.200 anni fa in Pianura Padana (e non solo) sono diversi e legati agli studi condotti attraverso discipline differenti: dall’archeologia allo studio dei pollini a quello delle stalagmiti.

Come spiega ancora Zerboni: «Attorno ai villaggi terramaricoli c’erano enormi e sofisticati sistemi di gestione delle risorse idriche: canali artificiali che si allacciavano ai canali fluviali, a volte deviando l’acqua dai fiumi per portarla nel fossato che circondava il villaggio, da cui si dipartivano i sistemi per l’irrigazione dei campi; inoltre i terramaricoli scavavano pozzi per raccogliere l’acqua dalla falda acquifera: attorno al villaggio di Poviglio, gli scavi archeologici hanno portato alla luce un sofisticato sistema di pozzi che intercettano le piccole falde acquifere a bassa profondità (fino a quattro o cinque metri), da cui si estraeva acqua per uso domestico o per l’agricoltura; nello scavo del villaggio di Poviglio, abbandonato circa 3.200 anni fa, si nota che avvicinandosi alla fase finale della sua vita i pozzi diventano via via sempre più profondi. Fu proprio Mauro Cremaschi, che allora dirigeva gli scavi, a notare questo fenomeno e a ipotizzare che fosse dovuto all’abbassarsi della falda dovuto alla siccità. L’ipotesi è stata confermata da altre osservazioni, relative al paesaggio agricolo: le colleghe dell’Università di Modena coordinate da Anna Maria Mercuri, hanno studiato i pollini provenienti sia dal sito archeologico di Poviglio sia da alcuni carotaggi fatti in profondità; anche da questi studi si nota un cambiamento nell’uso del suolo; dai pollini risulta che all’avvicinarsi alla fase dell’abbandono del villaggio diminuiscono gli indicatori di coltivazione (cereali, legumi…), mentre aumentano le specie vegetali tipiche dei pascoli, per esempio quelle più resistenti al calpestio. Un maggior ricorso alla pastorizia è un altro indicatore di maggiore aridità del suolo, perché l’allevamento, specialmente quello ovi-caprino, richiede meno acqua dell’agricoltura. E in effetti questo è ulteriormente confermato dallo studio dei resti ossei del periodo, ritrovati nello scavo del villaggio di Poviglio: si nota, progressivamente, un passaggio dall’allevamento di bovini e suini, che richiedono più acqua, a quello di pecore e capre, più adattabili a terreni aridi».   

Foto aerea dell’area di scavo della stagione 2020, che evidenzia la presenza di strutture idrauliche. Crediti: Ministero della Cultura.

Lo studio degli speleotemi dà un’altra conferma

Un altro tassello utile a ricostruire questo appassionante puzzle è stato dato dagli speleotemi, le stalagmiti trovate nelle grotte dell’Appennino. Come spiega Zerboni: «I paleoclimatologi, in questo caso i colleghi dell’Università di Pisa, del CNR-IGG e di INGV, utilizzano gli speleotemi per trarne informazioni sul clima, perché stalattiti e stalagmiti crescono regolarmente per lo sgocciolamento dell’acqua che fa precipitare carbonato di calcio, mantenendo memoria delle condizioni esterne alla grotta, ovvero temperatura e intensità delle piogge. Se l’anno è siccitoso, lo speleotema rallenta la sua crescita e assume una diversa composizione chimica: in base agli studi sugli speleotemi si riescono a costruire dunque delle curve che danno indicazioni sulle precipitazioni, magari non a cadenza annuale, ma certamente di qualche anno. Dagli studi sugli speleotemi della Tana della Mussina, una grotta situata nell’Appennino reggiano, è confermata la presenza di un periodo arido attorno a 3.200 anni fa, che si protrasse probabilmente per qualche decina di anni. Questo è il terzo tassello, che rafforza ulteriormente l’ipotesi che la crisi delle Terramare sia effettivamente dovuta all’impatto della siccità. Una siccità che probabilmente colpì vaste aree del Pianeta, del resto: una recente pubblicazione di un gruppo americano basata su studi di dendrocronologia, ovvero sull’osservazione degli anelli di accrescimento degli alberi, ha ipotizzato un periodo di aridità accentuata similmente 3.200 fa in Anatolia, in corrispondenza di una importante crisi nell’impero Ittita. Potrebbe essere un altro caso di crisi di una società concomitante con una crisi ambientale, in cui il clima potrebbe avere contribuito».

La vulnerabilità al clima è legata al sovrasfruttamento delle risorse    

Tuttavia, sottolinea Zerboni, non si tratta solo di clima; un peggioramento delle condizioni climatiche non porta automaticamente al collasso di una società, in una sorta di determinismo climatico: «Una volta confermata, come è plausibile, la presenza di un periodo di aridità protratta in concomitanza con la fine della civiltà terramaricola, bisogna però guardare a tutto l’insieme della situazione. La forzante climatica c’è, l’abbiamo osservato, ma è importante inquadrarla nel contesto terramaricolo: forte crescita demografica della popolazione, sovrasfruttamento delle risorse agricole, conseguente impoverimento del suolo, che trattiene meno l’umidità anche a causa della deforestazione. Sono fattori che creano una forte vulnerabilità ai cambiamenti climatici. Ed è per questo che la crisi dell’Età del Bronzo rappresenta una lezione utile anche ai nostri giorni: le ragioni delle variazioni climatiche oggi sono differenti, ma resta vero che l’utilizzo eccessivo delle risorse naturali crea una forte vulnerabilità nelle comunità umane. La civiltà terramaricola non era preparata, aveva creato un sistema che si rivelò non sostenibile. I villaggi appenninici della stessa epoca di quello di Poviglio (ad esempio quello situato presso San Michele di Valestra), a quanto sembra, continuarono a esistere e non vennero abbandonati, nonostante la siccità: le comunità di montagna erano abituate a vivere in un ambiente più difficile, meno produttivo dal punto di vista agricolo, che non consente coltivazioni estensive. Si basavano molto maggiormente sull’allevamento e quindi sono state meno vulnerabili al calo delle precipitazioni. Il clima non ha avuto quindi lo stesso effetto su tutti i sistemi, alcuni si sono dimostrati più resistenti».

Le indicazioni dagli studi nella Mezzaluna Fertile

Recentemente, Andrea Zerboni ha coordinato con Eleonora Regattieri, del CNR-IGG, uno studio che riguarda il clima in un periodo più antico, 8.200 anni fa, in Mesopotamia (la regione compresa tra gli attuali Iraq, Iran, Turchia e Siria), con l’obiettivo di comprendere quale ruolo abbia avuto il clima nello sviluppo delle prime civiltà di agricoltori e allevatori del vicino Oriente. Lo studio, pubblicato su Scientific Reports, in questo caso ha ridimensionato l’effetto che era stato attribuito al clima, in particolare a una crisi di aridità identificata a livello globale 8.200 anni fa, che avrebbe provocato nella Mezzaluna Fertile un periodo di siccità della durata di alcuni secoli, spingendo le popolazioni neolitiche a mettere a punto nuove strategie per migliorare la resa dei campi coltivati e successivamente la creazione dei primi centri urbani. Come spiega Zerboni: «In realtà le analisi di uno speleotema formatosi 8.200 anni fa a cavallo di questo evento climatico ha mostrato che nella regione non c’è stata una crisi di aridità così rilevante come si pensava: in questo caso, così come sempre più spesso emerge dal record geo-archeologico, si vede come le variazioni climatiche giochino comunque un ruolo nel modulare le dinamiche culturali e di sussistenza esistenti. Non vediamo un evento così intenso, ma che dà comunque effetti: per esempio sulla localizzazione dei siti, che nei periodi aridi si avvicinano maggiormente alle risorse idriche. Anche la introduzione dei contenitori in ceramica potrebbe essere legata alla necessità di conservare riserve di acqua. Si tratta di ipotesi, per ora. In ogni caso emerge abbastanza chiaramente che il clima è solo uno dei fattori in gioco: se si instaurano condizioni di vulnerabilità, tipicamente per il sovrasfruttamento delle risorse, la capacità di adattamento diminuisce o crolla completamente, come si può ipotizzare nel caso delle Terremare».       

Oggi abbiamo risorse tecniche che ci consentono di affrontare meglio delle popolazioni terramaricole l’emergenza siccità, giunta già al secondo anno in Pianura Padana. Ma, come avverte Zerboni, il punto non è affrontare l’emergenza, ma creare condizioni di sostenibilità. Questa è la lezione che possiamo oggi trarre dall’esperienza delle Terramare.

 


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