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Capire il balenese: ascoltare per coesistere

Cosa dicono le balene? Cosa gli passa per la testa? L'intelligenza artificiale e le nuove tecnologie possono aiutarci a comprendere i loro messaggi? Oggi ancora no, ma in un futuro molto prossimo, grazie ad esse, potremmo essere in grado di capire e parlare il "balenese". Ce lo racconta nel suo libro il biologo inglese Tom Mustill

Crediti foto Todd Cravens su Unsplash

Tempo di lettura: 11 mins

Se provate a cercare su un motore di ricerca come YouTube “whale sound” compariranno centinaia di video. Molti di questi hanno l’etichetta “canti di balene per rilassarsi” e sottotitoli come “un’ora di relax con suoni di cetacei non-stop e senza musica”. Se non lo avete mai fatto, provate a ascoltare il canto delle megattere e fatevi trasportare. Con quei suoni nella testa, immaginate il blu dell’oceano, di immergervi cercando di non sentirvi in preda alla vertigine mentre sotto di voi il blu si approfondisce e diventa nero. Un suono arcaico e magnetico, che incanta e rilassa chiunque lo senta. Ma non è sempre stato così, e se oggi molti di noi conoscono i versi di balene e delfini, fino all’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, si pensava ai mari come a liquidi regni del silenzio. Poi, i primi idrofoni, microfoni che possono essere immersi in acqua e registrare i suoni, hanno rivelato un paesaggio acustico marino inaspettato, pieno di click, schiocchi, crepitii, fischi e melodie che niente hanno da invidiare ai canti degli uccelli e al frinire dei grilli che si librano nell’aria in boschi e campagne (in buona salute). A questo mondo sonoro e all’esplorazione del suo significato è dedicato Come parlare il balenese, il bel libro del biologo e documentarista inglese Tom Mustill , edito in Italia da Il Saggiatore.

Nel settembre del 2015, l’autore si trovava in vacanza nella baia di Monterey, in California, un posto famoso per la ricchezza di cetacei, dove ogni giorno partono numerose barche per portare i turisti a osservare balene e delfini di tante specie diverse. Mustill era su un kayak con una sua amica, incantato e anche un po’ intimorito di trovarsi a pelo d’acqua circondato da enormi cetacei. Poi il timore divenne paura reale: all’improvviso, dalla profondità dell’oceano si librò in aria, con un impressionante salto, una megattera, proprio sopra il kayak, per poi rituffarsi trascinando con sé i due malcapitati, risucchiati nel profondo e poi rispediti in superficie grazie alla spinta dell’enorme volume d’acqua spostata dal gigantesco cetaceo. Incredibilmente, Mustill e la sua amica erano usciti incolumi dall’incidente, anche se comprensibilmente scioccati, e si ritrovarono loro malgrado protagonisti di un video virale sul web. Rivedere la scena da un’altra prospettiva regalò a Mustill una sorta di maggiore veridicità all’incredibile accaduto, e lo pose di fronte a  martellanti interrogativi: perché la megattera aveva saltato vicino al kayak? E più in generale: perché le megattere saltano fuori dall’acqua? È vero, come commentaò una sua amica cetologa guardando al rallentatore il video, che la balena aveva invertito l’atterraggio per evitarli, accortasi di loro all’ultimo? Perché esistono tantissime storie di persone salvate in qualche modo dai giganti del mare? E come comunicano questi animali? Cosa si dicono? Alla ricerca di queste risposte Mustill incontra studiosi di cetacei sparsi in tutto il mondo, rendendosi conto che «di molte specie di cetacei non sappiamo nulla, solo piccoli pezzi delle loro vite, qualche avvistamento, ritrovamento di corpi spiaggiati, registrazioni di alcuni suoni».

Un ascolto che salva la natura

La scoperta dei canti delle megattere si deve a Roger Payne, celebre biologo marino, che ha dedicato la sua vita allo studio e alla tutela dei cetacei. Nel 1967 Payne pubblicò su Science uno studio  in cui rivelava che questi canti hanno una struttura, fatta di strofe e ritornelli che si alternano seguendo un ordine ben preciso. Ogni canto dura dai 5 ai 20 minuti, si interrompe quando la balena sale in superficie per respirare e poi ricomincia da capo. Prima della pubblicazione scientifica, però, Payne decise di fare arrivare la potenza delle sue scoperte al grande pubblico, convincendo una casa discografica a incidere Songs of the humpback whalesun disco con le registrazioni delle megattere. Il disco fu allegato alla quarta di copertina del National Geographic, arrivò nelle case delle persone, meravigliò e commosse gli ascoltatori con tutta la sua incantevole potenza. Come ha raccontato Mustill alla presentazione del suo libro al festival della scienza di Genova: «prima della pubblicazione delle canzoni, le balene erano per tutti solo “stupidi pesci”. Quei suoni le hanno rese vicine a noi, e le persone hanno iniziato a usarle per protestare contro l’industria baleniera».

Tra il 1950 e il 1960 l’industria baleniera era infatti ai suoi massimi con un prelievo annuo di decine di migliaia di cetacei, sfruttati per le carni e, soprattutto, per l’olio (che serve ai cetacei proprio per emettere e recepire i suoni e comunicare tra loro), in tempi antichi usato per dare luce alle lampade e poi riscoperto un ottimo lubrificante per macchinari industriali. Anche l’ambra grigia, un secreto solido e oleoso dell’intestino dei capodogli, era un ricercato ingrediente per l’industria dei profumi. «Il prelievo industriale è stato fermato perché abbiamo iniziato ad ascoltare le balene» dice Mustill. Roger Payne aveva intuito la potenza di quei suoni, e capì che era fondamentale usarla per salvare le balene, ormai decimate, per impedire che davvero gli oceani si tramutassero in regni silenziosi. Il suo fu un gesto visionario e anche anticonvenzionale per un ricercatore, che prima ancora di pubblicare i suoi studi e di restituirli alla comunità scientifica, decise di usarli come grido di allerta contro le nostre rovinose azioni.

Le nuove frontiere per la conservazione

Il progresso tecnologico è stato fondamentale nel campo dell’etologia, strumenti sempre più raffinati ci hanno permesso di scoprire cose un tempo impensabili della vita degli animali. Grazie a collari in grado di emettere segnali radio, abbiamo iniziato a seguire gli spostamenti degli animali con antenne simili a quelle televisive, usate a piedi o montate su jeep o aerei ultraleggeri. Oggi possiamo farlo comodamente seduti davanti al computer grazie ai GPS, raccogliendo dati precisissimi anche in posti in cui sarebbe stato impossibile andare di persona. Fototrappole nascoste in natura ci permettono di vedere gli animali mentre si muovono nel loro ambiente, telecamere a infrarosso ci consentono di vedere nell’oscurità, i bat detector rilevano gli ultrasuoni prodotti dai pipistrelli, i radar e gli idrofoni quelli dei cetacei. Abbiamo iniziato a studiare come si comportano gli animali in tempi recenti, la nascita dell’etologia risale agli anni Trenta del Novecento, e da allora abbiamo scoperto sempre più cose. Sappiamo che i delfini si chiamano per nome, con fischi firma che identificano i singoli individui, sappiamo che il barrito degli elefanti non è che uno dei suoni che i pachidermi usano per comunicare, sappiamo che molte specie, inclusi diversi cetacei, hanno una cultura, apprendono e si tramandano i canti, e hanno dialetti specifici in aree geografiche diverse. Abbiamo scoperto che gli altri esseri che con noi abitano il pianeta sono complessi, hanno identità e personalità distinte, comunicano, hanno sentimenti, sono immensamente lontani dagli oggetti animati descritti da Cartesio.

Quanto ancora ci può aiutare la tecnologia a approfondire la conoscenza degli animali è l’interrogativo che anima le pagine di Come parlare il balenese. Oggi abbiamo a disposizione una potenza computazionale incredibile, una tecnologia affascinante e a tratti inquietante, che, se ben governata, può permetterci di approfondire le nostre conoscenze del mondo animale. Un esempio è il progetto Happywhale che combina citizen science e software di riconoscimento. Le code delle megattere sono infatti caratteristiche per ogni individuo, una sorta di impronte digitali, e un tempo i ricercatori si basavano su foto ben fatte da analizzare a schermo per identificarle a occhio. Happywhale raccoglie immagini caricate da utenti in tutto il mondo e usa un algoritmo per l’identificazione e la catalogazione. Ad oggi (ma il numero è in costante crescita) sono  state raccolte quasi 720000 immagini, che hanno permesso di identificare 103131 individui  e di ricostruire attraverso gli avvistamenti le migrazioni delle balene e la struttura dei gruppi. Grazie ai ricercatori di Happywhale, Mustill ha scoperto che la megattera che gli è piombata addosso era un maschio, nome in codice CRC12564.

E poi c’è chi sta proprio cercando di tradurre il balenese: è il progetto multidisciplinare CETI (Cetacean Translation Initiative) che raggruppa biologi, esperti di robotica, programmatori, analisti, linguisti e crittografi. Il focus delle ricerche sono i capodogli , conosciuti ai più come Moby Dick, il leviatano del romanzo di Melville. Attraverso un software che lavora un po’ come i traduttori automatici, e che è in grado di decodificare automaticamente i suoni, il team di CETI sta cercando di creare una sorta di alfabeto dei capodogli. I primi risultati hanno già permesso di capire che i suoni dei capodogli sono molto più ricchi di quello che si credeva, e creati, come il nostro linguaggio, dalla combinazione di fonemi. I software permettono di distinguere e identificare i singoli individui, e così si è visto che hanno conversazioni che ricordano le nostre: un capodoglio aspetta che finisca di “parlare” un altro individuo prima di rispondere. Di più: combinando droni e uno speciale microfono che aderisce alla pelle dei cetacei simulando la presa a ventosa delle remore, i ricercatori possono accoppiare a riprese video i suoni emessi sott’acqua.

Insomma, la tecnologia, e l’AI in particolare, promette nuovi scenari, in cui forse saremo in grado di tradurre i linguaggi di alcuni animali. «Quello che troveremo cambierà la prospettiva filosofica su noi stessi» dice Tom Mustill. «La tecnologia ci aiuta a ridefinire le nostre idee. Per esempio, non sapevamo ci fossero microbi finchè non abbiamo usato i microscopi. Interagire con le altre specie potrebbe aiutarci a vivere in modo più collaborativo e mutualistico. D’altro canto, il rischio è che, se scoprissimo come dialogare con gli animali potremmo usare questo per manipolarli, inquinare i loro linguaggi, e utilizzarli per i nostri scopi». Cosa che d’altronde già succede, delfini e beluga purtroppo sono stati usati in diverse occasioni come strumenti per le azioni militari. Ma il punto di Mustill sta nell’importanza di sperimentare, di tentare nuove strade guidati dall’obiettivo di tutelare il mondo naturale dalle costanti minacce che ancora rendono difficile il futuro di molte specie di cetacei. L’inquinamento acustico creato da barche, estrazione di petrolio e altre attrezzature umane ostacola le comunicazioni degli abitanti marini. Il passaggio delle imbarcazioni ammutolisce letteralmente le megattere , per non parlare dei sonar militari che causano spiaggiamenti di massa di numerose specie di delfini. Moltissimi cetacei si impigliano e muoiono soffocati nelle reti da pesca, siano esse in funzione o una delle tante fantasma che fluttuano nelle correnti: si stima che ogni anno nel mondo siano circa 300000 quelli che muoiono in questo modo. Il traffico nautico rende alquanto complessi gli spostamenti delle balenottere azzurre che devono letteralmente cercare di schivare le navi, come dimostra uno studio pubblicato su Nature Scientific reports dai ricercatori della ong cilena Ballena azul (qui una animazione del percorso ad ostacoli che devono affrontare).

L'empatia nasce dalla comprensione

Studiare la complessità degli animali e dei loro linguaggi ci cambia, in parte ci toglie quel senso di essere speciali in questo mondo, il che, per alcuni, è fastidioso. Ci pone domande etiche, rispetto alle azioni che compiamo, e ci mette in condizioni di poter essere più solidali. « L'empatia può nascere solo dalla comprensione, e la comprensione deriva dall'informazione e dalla comunanza. Non nasce dal nulla, ma quando si impara a conoscere la vita degli altri e si trovano dei parallelismi con la nostra vita» afferma Mustill. Uno dei rischi è passare dall’antropodiniego della scienza classica, che rifiuta la possibilità di pensieri complessi e sentimenti negli animali, all’antropomorfismo, ovvero a una totale umanizzazione e attribuzione agli animali di modi di interpretare il mondo uguale al nostro. «Credo che siano entrambi sintomi della mancanza di esposizione: dell'immaginare gli animali piuttosto che viverli». E sono entrambi modi sbagliati di pensare all'alterità animale. Se negare ogni forma di pensiero articolato e sentimento negli animali, riducendoli a oggetti animati  è riduttivo, è vero che ogni specie ha il suo universo sensoriale con cui esplora il mondo, e forzatamente non può avere lo stesso modo di percepire e sperimentare la vita di un essere umano. La chiave, come dice Mustill, è quella di ascoltare in modo acritico, liberandoci dai preconcetti. Uscire dall'antropocentrismo che ci porta ad ascoltare solo noi stessi, e provare a sentire il mondo intorno a noi. Scrutiamo le stelle, esploriamo lo spazio alla ricerca di altre forme di vita, le immaginiamo in romanzi e film, attribuendo agli alieni abilità (il più delle volte mostruose) diverse dalla nostra. Ma poniamo poca attenzione a quello che c'è di diverso intorno a noi, su questo pianeta.

Insomma, la conoscenza è la chiave della coesistenza e della tutela, come dimostra il disco di Payne, che ha salvato molte balene da una imminente estinzione negli anni Settanta. E poi ci vuole un po' di fiducia nel futuro. «Spesso pensiamo di essere cattivi. Pensiamo di essere come un cancro sulla terra. Pensiamo di essere un problema terribile a causa delle cose terribili che facciamo. Ma il rischio, facendo così, è che diventi una profezia che si autoavvera: se gli animali sono condannati non c’è niente da fare e quindi li rendiamo ancora più condannati. Nell’ultima intervista che ho fatto a Roger, quando stava morendo, mi ha detto che era molto pessimista per la direzione in cui stiamo andando, ma al contempo ottimista, perché la natura umana può cambiare molto rapidamente nelle sue concezioni e quindi nelle azioni» commenta Tom Mustill.

Poco prima di morire, lo scorso giugno, Roger Payne ha scritto un bellissimo articolo per il Time. In esso afferma “la sfida consiste ora nel capire come motivare noi stessi e i nostri simili a fare della conservazione delle specie la nostra vocazione più alta, qualcosa che non potremo mai rimandare, sminuire o cancellare. Come possiamo trasmettere questa idea al mondo intero? La chiave è l'ispirazione. […] Credo che forme di vita straordinarie come le balene possano farci focalizzare sull'urgenza di porre fine alla nostra distruzione del mondo naturale. Molti dei problemi più gravi dell'umanità sono causati dal disinteresse per le voci degli altri, compresi i non umani". Come dargli torto?

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