Un giovane musicista, Antonio Cicognara, ha espresso l’opportunità di promulgare un manifesto sulla musica, partendo dalla considerazione che nel Novecento la definizione di questa forma d’arte è divenuta perlomeno ambigua. Si sono avute infatti linee di creazione musicale che hanno innovato sui valori ereditati dal passato, legandosi alla tradizionale concezione che si ha della musica; e altre linee di innovazione più drastica dove i cardini classici sono stati largamente ignorati e sostituiti spesso da regole alternative per lo meno problematiche.
Le due direttive della musica del Novecento
La prima direttiva, che chiamerò “evolutiva”, rappresenta il genere di musica che io gusto tanto quanto Bach, anzi prediligo: in essa elencherei i lavori di R. Strauss, Stravinskij, Prokofieff, Shostakovich, Bartok, Janacek, Hindemith, Britten, Debussy, Ravel, Poulenc, De Falla, Rodrigo, vari del Nuovo Mondo (e di molti, molti altri ancora che un intenditore non avrà difficoltà a individuare). Qui si obbedisce al criterio stravinskijano che la musica debba piacere in sé e per sé.
La seconda direttiva ha come rappresentanti Schoenberg, Webern, la scuola di Darmstadt, Boulez, Stockhausen e seguaci vari che raggrupperò sotto il nome di postdodecafonici. Musica d’avanguardia, decisamente “trasgressiva” o perlomeno “problematica”. Il compositore György Ligeti ha parlato di musiche “entropiche” ossia vicine al rumore casuale. Per restare in termodinamica, a me piace chiamarle musiche “adiabatiche”, vale a dire incapaci di convogliare all’esterno significati ed emozioni, o un qualsiasi stimolo che non sia riservato ai soli addetti ai lavori. Roman Vlad ha parlato, in taluni casi, di “nuovo indebitamente anteposto al vero”.
Quasi un manifesto
Voglio riportare alcune significative idee di Cicognara, che motivano l’esigenza di un divorzio. Cerco di riassumere il suo pensiero:
«Molti specialisti si mostrano polemici in merito ad un insieme ben preciso – benché eterogeneo – di prodotti costituenti il grosso della cosiddetta musica colta contemporanea; tale produzione è quindi quantomeno problematica. In qualunque campo intellettuale, vale l’ovvio principio che nessuna delle diverse soluzioni esclusive proposte per risolvere una questione aperta può essere assunta come ufficiale. Pertanto, la produzione problematica che divide i musicisti non può più godere dell'aggettivo “musicale”; o comunque, alla volontà di conservare tale aggettivo dovrebbe corrispondere la dichiarata consapevolezza di intenderlo in tutt'altra accezione – per esempio, nella migliore delle ipotesi, sperimentazione o ricerca – piuttosto che quella da riservare al resto delle invenzioni musicali. Dunque, due arti dei suoni. Nell'ambito della produzione non problematica, si sperimenta da secoli che la comprensione del senso musicale è un fenomeno spontaneo di risposta all'ascolto, e che si manifesta in misura tanto dell'educazione personale, quanto della complessità della musica. C'è difetto in percezione di senso quando il brano è troppo complesso per il livello d'educazione dell'ascoltatore (il quale potrà tuttavia godere in seguito del brano se opportunamente educato all'ascolto). In ogni caso, l'educazione – sia essa elementare, sia essa avanzata – prepara sempre a un ascolto spontaneo: in tempo reale, l'ascolto è il solo processo necessario a godere del senso musicale. Se andiamo alla produzione problematica, essa resta priva di senso per un cospicuo numero di specialisti, che infoltiscono la schiera crescente degli scettici circa tale produzione. Allora la vacuità percepita dai primi può venire solo dal loro limitarsi all'ascolto; per contro, si deve pensare che i fautori ricorrono ad altri processi mentali di natura volontaria, senza i quali il brano risulta non significante e, sotto l'aspetto ideativo, banale. Non significante perché chi cerca un senso nei soli suoni, non lo trova. Banale perché, quando il senso non sta nel solo sistema di suoni (o si pretende che si formi a partire dalla notazione), i brani in questione hanno la stessa struttura significante di insiemi di suoni costruiti a caso: la loro supposta complessità sta sul piano soggettivo (gli intenti dell'autore, la partecipazione richiesta all'ascoltatore), ma non nel sistema musicale oggettivo. Oggettivamente, hanno la complicazione banale di strutture semantiche casuali.»
L’aspetto scientifico
Il discorso di Cicognara è una semplice constatazione fenomenologica e vale ancor più se si prende in considerazione il pubblico delle sale, privo di base professionale. Ma un amante della musica che sia anche aperto alla scienza non si accontenta di fermarsi a questo livello: sapendo che lo stimolo musicale rappresenta la sonda cerebrale oggi più utilizzata dalle neuroscienze in quanto implica un’attività cognitiva più complessa di ogni altra stimolazione, egli si pone almeno due interrogativi basilari. Primo, che cosa c’è, a livello dell’elaborazione cerebrale, nella musica “avanguardistica” che rende arduo e limitato il suo apprezzamento? Secondo, dal punto di vista neurobiologico, quanto di oggettivo e quanto di convenzionale c’è nei criteri dell’armonia classica? Possiamo accettare senza discuterlo, oggi, il dettato di Schoenberg: “L’armonia classica è solo una convenzione cui ci siamo assuefatti…”? Il musicista non può accontentarsi di intuire o improvvisare alcune leggi: prima o poi dovrà cercare di motivarle, se vorrà continuare a fare arte. Compito questo che potrà affrontare a fianco dello scienziato.
Occorre sempre del tempo perché il vasto pubblico accolga espressioni musicali fortemente innovative: vengono spesso citate le sfavorevoli accoglienze riservate alla sonata op. 106 Hammerklavier o agli ultimi quartetti di Beethoven, o al Sacre du Printemps di Stravinskij. Il brano di Stravinskij, tuttavia, in pochi anni è divenuto per tutti uno dei grandi capolavori del Novecento. A un secolo da Schoenberg, invece, le musiche dodecafoniche e postdodecafoniche rimangono ancora patrimonio di pochi eletti, malgrado le odierne tecnologie dell’informazione permettano al pubblico di familiarizzare con esse in tempi brevi. Questo divario mi sembra vero soprattutto in Italia, dove si bada più alla sostanza e alla vitalità delle cose (l’ascolto spontaneo di Cicognara, il vero di Vlad), mentre certi valori formali esercitano minor fascino (gli altri processi volontari di Cicognara).
Elogio della dissonanza
Ritengo importante fare una precisazione. Leos Janácek ha sentenziato: “La storia della musica è un percorso di adattamento dell'uomo alle dissonanze”. L’impiego della dissonanza, infatti, è andato sempre crescendo durante secoli di maturazione della musica. Talvolta si legge l’affermazione che al pubblico non piacciono le dissonanze, oppure che al pubblico non piace l’atonalità, ed è a tali circostanze che viene attribuita l’insofferenza per certe musiche contemporanee. Niente di più erroneo: la dialettica consonanza/dissonanza dà arricchimento di espressione e di significato, come la prosodia nel parlato, di cui la musica è una forma di nobilitazione, o come il chiaroscuro e il contrasto di colore nella pittura. E ciò indipendentemente dall’essere in ambito tonale o meno. La presenza degli intervalli dissonanti di II e di VII maggiore già nella scala naturale diatonica (o di giusta intonazione) e di altre ancora se la composizione è cromatica, fa sì che anche in una composizione tonale le dissonanze siano inevitabilmente presenti. L’affermazione di Schoenberg che tutte le note e tutti gli accordi nel pezzo musicale devono avere eguale peso non corrisponde dunque a un’emancipazione della dissonanza, come si sente dire con una certa frequenza, bensì a un appiattimento, a una mortificazione del suo ruolo, a una perdita di espressività e contesto. Dunque semmai è proprio l’eliminazione della dicotomia consonanza/dissonanza che rende certa musica del Novecento poco significante.
Ritrovati delle neuroscienze
Ogni parametro del suono - altezza, intensità, metro, tempo - raggiunge il cervello come successione di impulsi o “spari neurali” che arrivano a zone separate della corteccia uditiva, tra loro interagenti. Il cervello funziona dunque come contatore di impulsi. È dalla confluenza di questi vari conteggi che l'evento sonoro prende corpo. Ebbene, il treno di impulsi che pervengono al cervello sotto lo stimolo di un accordo consonante è, sia per calcolo teorico, sia per verifica sperimentale in animali, assai più nitido e di facile elaborazione di quello associato a un accordo dissonante. Quest’ultimo presenta invece un treno di spari neurali che tanto più corrisponde al rumore casuale quanto più marcata è la dissonanza. Ciò rende l’appropriazione del messaggio musicale un’operazione più complessa, che richiede processi mentali remoti dal modo usuale in cui il nostro cervello funziona. È qui che diviene necessario recuperare con un atto di volontà valori che non si manifestano in modo spontaneo, ed è qui l’origine della divaricazione tra creatori di musica e ascoltatori.
Secondo le neuroscienze la teoria classica dell’armonia non è dunque una convenzione, ma il riconoscimento di caratteristiche percettive essenziali del sistema uditivo e dei sistemi cognitivi associati, valendo questo per tutti gli esseri umani, in particolare nell’infanzia. È chiaro che, se nel neonato sono ben accette solo le consonanze elementari (innatismo della consonanza, suggerito da studi di psicologia della percezione), l’individuo maturo, grazie alla plasmabilità del cervello, avverte l’esigenza di una maggiore complessità del messaggio. Vale per il singolo nel suo arco vitale, vale per le successive generazioni, come vuole Janácek. Ciò viene a confermare il punto di vista del grande Helmholtz, inventore della psicoacustica, il quale aveva proposto una sudditanza dell’estetica musicale all’acustica e alla biologia dell’apparato uditivo, chiarendo però che “nello sviluppo progressivo dell’umanità, i princìpi estetici sono stati soggetti a mutamento e lo saranno ancora”.