Spreading Homo sapiens, Urutseg. Fonte: Wikipedia, licenza: pubblico dominio
Rispondo volentieri a un recente articolo pubblicato da Gianfranco Biondi e Olga Rickards. Gli autori commentano una mia breve rassegna critica su alcuni recenti contributi a proposito dell’origine della nostra specie attribuendomi posizioni che non ho mai sostenuto e incorrendo in una serie di imprecisioni e di equivoci che risulta opportuno chiarire. E questo non solo per attribuire il giusto significato a quanto da me affermato – questione di limitata importanza – ma soprattutto per arricchire un dibattito molto interessante che ci consenta di ragionare in base alle più recenti evidenze empiriche. Si tratta di un argomento complesso e quindi risulta utile considerare ciascuna affermazione separatamente, citando direttamente il testo degli autori.
“Chi pensava, e noi fra questi, che l’ipotesi dell’origine multipla della nostra specie fosse ormai null’altro che un argomento della storia dell’antropologia deve ricredersi”. Agli autori sembrerebbe che l’articolo a mia firma, pubblicato il 24 luglio su La Lettura del Corriere della Sera, faccia rispuntare “l’ipotesi falsificata dell’origine multipla della nostra specie” (come indicato nel loro titolo). Ma si sbagliano. Non solo condivido la tesi che quest’ultima teoria (Wolpoff, 1994) sia stata falsificata, come già ampiamente illustrato nel mio "The Bone Readers" (2009). Ma sostengo che anche la versione originale del modello Out of Africa – quando suggerisce un'unica e recente uscita di Homo sapiens dall'Africa – è suscettibile di parziale falsificazione grazie a nuove scoperte fossili, al perfezionamento della ricerca sul DNA antico e ai miglioramenti delle tecniche di datazione. Quest'ultima possibilità è condivisa anche da Chris Stringer, un autorevole padre di questo modello (Galway-Witham e Stringer 2018). Si discute ora se è il caso di affinare l'interpretazione delle nostre origini africane con un modello aggiornato che tenga conto delle complesse interazioni di ibridazione e assimilazione che ormai sappiamo aver avuto luogo sia fra le differenti specie umane (soprattutto in Eurasia e Oceania) che fra le varie popolazioni di H. sapiens (soprattutto in Africa), a seconda delle loro diverse nicchie ambientali, documentate sia dai loro resti fossili che da quelli della loro cultura materiale (Scerri et al, 2018). Pe un'analisi delle loro ascendenze con riferimento a H. heidelbergensis vedasi Manzi (2014; 2016).
“Il modo di ragionare di Tuniz si inserisce nel superato filone del modello evolutivo lineare che pretendeva di spiegare la comparsa dell’Homo sapiens in Oriente come semplice e graduale trasformazione dell’Homo erectus”. Falso! Non si tratta di un’affermazione di chi scrive ma di un’argomentazione controversa di alcuni antropologi (Athreya e Wu, 2017), di cui discuto in termini dubitativi. Contro i modelli evolutivi lineari, in termini ancora più generali e con un’enfasi sui processi circolari fra evoluzione biologica ed evoluzione culturale, vedasi, fra gli altri, Tuniz e Tiberi Vipraio (2018).
“I fossili a cui fa riferimento Tuniz quindi non sono affatto forme di transizione o ibride tra l’Homo erectus e l’Homo sapiens quanto le discendenti di popolazioni di una specie pre-sapiens”. Questa critica va rivolta agli autori degli articoli commentati (Wu Liu et al, 2010) e richiede in ogni caso ulteriori approfondimenti.
“Gli studi molecolari hanno stimato che l’Homo sapiens sia uscito dall’Africa per andare verso oriente tra 75.000 e 62.000 anni fa e che sia arrivato in Australia e Nuova Guinea circa 50.000 anni fa”. Vero! Ma si tratta di una stima derivante soltanto dai suddetti studi molecolari. Nuove scoperte archeologiche documentano una fuoriuscita di H. sapiens dall’Africa risalente a 180.000 anni fa (Hershkovitz 2018) e un arrivo in Cina intorno a 120.000 anni fa (Wu Liu, 2015). Altre scoperte archeologiche dimostrano la presenza di H. sapiens in Australia già 65.000 anni fa (Clarkson, 2017). Si conferma quindi, anche in questo caso, l’utilità di integrare i risultati che emergono da studi diversi in un’ottica interdisciplinare.
“Tuniz continua a proporre l’idea dell’esistenza degli ibridi”. Non è Tuniz a proporre l’idea, troppo onore! Gli ibridi esistono in base a numerosi studi recenti con metodi molecolari. Vedasi per esempio la recentissima attribuzione di un padre neandertaliano e una madre denisoviana a una giovane donna di 90.000 anni fa, i cui resti sono stati trovati nella caverna di Denisova (Slon et al, 2018). E il fatto che siano oggetto di discussione, anche critica, non impone certo il silenzio sulla divulgazione di articoli pubblicati su prestigiose riviste internazionali.
“Ma il tarlo dell’origine multipla lo ha irrimediabilmente contaminato e ha ritenuto di trovarne conferma in un articolo di María Martinón-Torres, Song Xing, Wu Liu e José María Bermúdez de Castro”. Come detto sopra, l’origine multipla di Homo sapiens discussa da chi scrive non si riferisce al modello multiregionale (Wolpoff, 1994) ma ai nuovi modelli basati sull’assimilazione e gli incroci che hanno avuto luogo fra diverse popolazioni di H. sapiens, e fra H. sapiens e altre specie, sia in Africa sia nel resto del mondo (Galway-Witham, 2018). Si noti che nemmeno l’articolo di Martinón-Torres si riferisce al modello multiregionale, quanto piuttosto a nuove idee sull’origine africana di H. sapiens, con possibili apporti di provenienza asiatica.
"Tuniz parla di forme tradizionali non identificate e di ipotesi sorprendenti per confermare le quali non si hanno ancora dati. Davvero non sembra serio praticare la divulgazione scientifica in questo modo". Sono cose che succedono quando si commentano nuovi modelli interpretativi, che si sottopongono al vaglio degli altri scienziati per ottenere conferme o smentite. È così che procede la scienza. La divulgazione scientifica non consiste solo nel presentare conclusioni "definitive", ma anche nel riportare il faticoso processo per tentativi ed errori che caratterizza il metodo scientifico. Inoltre, anche se è saggio non seguire troppo le mode del momento quando si rimane nell'ambito scientifico, e attendere il consolidamento delle scoperte prima di inserirle nei libri di testo, mi sembra legittimo informare l'opinione pubblica di ogni risultato accertato scientificamente, se pubblicato in riviste autorevoli e peer reviewed. E questo anche prima di una loro definitiva consacrazione nell'empireo della scienza (ma sempre temporaneamente). Purtroppo a volte le esigenze di mercato impongono ai giornali alcune titolazioni ad alto impatto, che poi non corrispondono sempre al contenuto degli articoli. È su questo che bisogna vigilare.
"L’aver risollevato in maniera tanto disinvolta un dibattito antropologico ormai risolto è servito solo per poter presentare enfaticamente un risultato di ricerca di per sé inidoneo ad essere materia di divulgazione scientifica". Questa sembra un’illazione che sconfina dai canoni di un leale dibattito accademico e sconfina nella calunnia. In verità la microtomografia ai raggi X sui denti degli ominidi può dare preziose informazioni che permettono, in modo complementare a quelle molecolari, importanti confronti e classificazioni tassonomiche e filogenetiche. L'articolo è menzionato solo come esempio di una ricerca di frontiera per sottolineare l'importanza degli studi interdisciplinari che godono di effetti sinergici, soprattutto con gli studi di paleogenetica. In particolare, quando applicati a tutti i denti fossili disponibili dei diversi ominini asiatici, queste analisi permetteranno di gettare non poca luce su tutto il dibattito in questione. E il divieto di comunicare quanto già si intravede con l'uso di una torcia sembra alquanto ingiustificato.
“Il nome della specie si scrive con la prima lettera minuscola”. Vero! L’idea di trasferire la lettera maiuscola sul termine H. sapiens è una scelta editoriale della rivista, fuori dal controllo dell’autore, insieme al titolo e alla relativa grafica. Essa può disturbare un antropologo ma è conforme a numerose opere divulgative, fra cui il notissimo "Sapiens" di Harari (2014). Si può anche pensare che questa scelta della rivista dipenda dall’abitudine di attribuire la lettera maiuscola ad alcuni nomi collettivi (quando si vuole sottolineare l’esistenza di regole e comportamenti comuni) e assegnare loro un’unica identità. L’iterazione di questa obiezione –con un (sic!)– effettuata per ben 14 volte lungo tutto il testo sembra poco generosa verso il lettore e risulta comprensibile solo assumendo una visione tolemaica del ruolo dell’antropologia nel campo dell’ortografia. D'altra parte, anche le espressioni "l'Homo sapiens" e "l'Homo erectus" usate dagli autori sono improprie, visto che l'articolo non si usa di fronte a nomi di genere/specie.
Concludendo. Al di là della vena polemica molto accesa, che pare ispirarsi a uno stile che ormai va per la maggiore, sono grato a Biondi e Rickards per aver richiamato l’attenzione su un tema tanto appassionante. Si è così presentata l’occasione di riaprire un dibattito che sembrava sepolto e ammettere che vale la pena continuare a indagare sulle nostre origini, anche se, alla fine, non ne sapremo mai abbastanza. Se vogliamo restare scienziati, l’importante è che tutto sia sempre e comunque falsificabile. Se vogliamo procedere sulla strada delle conoscenze, non dobbiamo dare nulla per acquisito. E infine, ma non da ultimo, è vitale che ci si confronti all’insegna del rispetto, pur nella diversità dei punti di vista.