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Trasparenza della ricerca: a che punto siamo?

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L’articolo di Sergio Harari sul Corriere della Sera del 22 dicembre 2013 sulla trasparenza nella ricerca scientifica è una buona occasione per riflettere su uno degli argomenti più importanti che attraversa oggi il dibattito scientifico internazionale. Harari ha salutato con entusiasmo la notizia secondo cui una grande multinazionale del farmaco, GlaxoSmithKline (GSK), avrebbe deciso di mettere tutti i dati dei suoi studi clinici (nessuno escluso) a disposizione di chiunque avesse desiderato condurre su di essi nuove analisi e approfondimenti, previa naturalmente l’approvazione di un comitato scientifico indipendente. Condividiamo pienamente l’entusiasmo di Harari. 
Una simile iniziativa rappresenterebbe una svolta significativa non solo per il progresso della medicina ma anche per la sua stessa credibilità. Ma perché un’azione così semplice avrebbe un effetto tanto importante?

Marcia Angell, la prima donna a ricoprire il ruolo di direttore responsabile del New England Journal of Medicine, una delle più prestigiose riviste medico-scientifiche al mondo, così si pronunciava nel 2009 in un articolo di giornale: “Semplicemente non è più possibile credere a gran parte della ricerca clinica pubblicata, o fare affidamento sul giudizio di medici stimati o di linee guida autorevoli. Non traggo alcun piacere da questa conclusione, che ho elaborato lentamente e controvoglia nel corso dei due decenni in cui ho lavorato come editor al New England Journal of Medicine.”
Questo clamoroso atto di sfiducia, ormai sempre più condiviso non solo nel mondo scientifico ma addirittura fra la gente comune, è il risultato dei numerosissimi scandali, più o meno fragorosi, che hanno costellato la storia recente e meno recente della ricerca clinica. Abbiamo infatti troppe volte scoperto che dietro la riservatezza delle informazioni scientifiche sullo sviluppo di farmaci e presidi medici, concessa per tutelare i giusti interessi commerciali di chi ha investito in ricerca e innovazione per la tutela e la promozione della salute, si sono nascoste truffe, frodi e addirittura reati gravi. Si va dall’occultamento di seri effetti collaterali (anche mortali) dei farmaci, alla modifica fraudolenta dei dati a favore del proprio prodotto, per citare solo i più comuni.
Sono molte le multinazionali del farmaco che si sono macchiate di questo tipo di azioni. Contrastare una simile corruttela è purtroppo impresa ardua. Sicuramente la via giudiziaria si è rivelata del tutto inefficace. Da un lato c’è da pensare che solo una minima parte delle frodi venga portata alla luce.
Dall’altro, anche quando ciò accade, le super multe comminate non hanno alcun peso per chi le riceve.
Il New York Times ha riportato tempo fa come la multa record che proprio la (apparentemente) virtuosa GSK ha accettato di pagare poco più di un anno fa (3 miliardi di dollari!) per aver occultato informazioni su importanti effetti avversi di alcuni farmaci, rappresenti meno del 10% del fatturato di quegli stessi farmaci, nel periodo contestato. Una cifra derubricata fra i “costi d’impresa”.

Di fatto, l’unico modo per ostacolare questi comportamenti è quello di imporre trasparenza e aumentare il controllo delle informazioni. Non parliamo naturalmente di segreti industriali, ma dei dati clinici degli studi.
Un primo passo in questa direzione è stato fatto qualche anno fa dal comitato internazionale delle riviste medico-scientifiche (ICMJE), che ha obbligato alla registrazione pubblica di tutti i protocolli di studio, per poterne poi pubblicare i risultati. Se questo ha liquidato d’un colpo l’inveterata usanza di insabbiare interi studi che avessero dato risultati contrari alle aspettative o alle convenienze, non ha però intaccato l’altra via, in qualche modo ancor più pericolosa, della frode scientifica: l’occultamento o la modifica di una parte selezionata dei risultati. Ecco allora che l’iniziativa di rendere pubblici i dati degli studi clinici diventa l’ultimo baluardo a difesa sia della scienza sia dell’altruismo dei malati che, come ricordava giustamente Harari, scelgono di partecipare a nuovi studi, rendendo così possibile l’avanzamento delle conoscenze per tutti.

Ci tocca tuttavia, purtroppo, smorzare un poco gli entusiasmi. Proprio pochi mesi dopo la dichiarazione da parte di GSK di mettere a disposizione i dati dei suoi studi a chiunque ne facesse ragionevole richiesta, la stessa GSK si è inspiegabilmente comportata in modo diametralmente diverso.
Come Istituto “Mario Negri” eravamo parte di un consorzio europeo vincitore di un bando comunitario per la realizzazione di una collaborazione pubblico-privato per la ricerca nel campo dei nuovi antibiotici. La controparte privata era per l’appunto GSK e l’obiettivo del progetto, finanziato dalla commissione europea per più di 100 milioni di Euro (!), era la realizzazione di 4 studi clinici su un antibiotico della stessa GSK. Fin da subito la collaborazione si è dimostrata difficile. Anzitutto, quando abbiamo sollevato dubbi su alcune scelte relative ai protocolli degli studi (come ad esempio la scelta del farmaco di controllo e della dimensione del campione), si è capito che non vi era alcuna disponibilità alla discussione. Ma lo scoglio più grosso, su cui si è infranta la possibilità di una nostra partecipazione al progetto, è stato proprio quello della trasparenza. Nel complesso contratto di collaborazione redatto da GSK era previsto che nessun partner accademico potesse avere libero accesso ai dati dei pazienti e che in ogni caso nessuno avrebbe potuto pubblicare alcunché senza una previa autorizzazione da parte dell’azienda.
A nulla sono serviti i numerosi tentativi di mediazione, che garantissero almeno l’accesso ai dati di tutti i pazienti da parte dei centri che avevano contribuito a produrli, e la possibilità di pubblicare i risultati di analisi indipendenti, neppure dopo un embargo di due anni a favore di GSK.

Così, rinunciando a un importante finanziamento pubblico, l’Istituto “Mario Negri” è uscito da un consorzio che non dava alcuna garanzia di tutelare a dovere la necessaria trasparenza scientifica, e con essa l’impegno dei pazienti che avrebbero accettato di parteciparvi. Rimangono due grandi rammarici e un interrogativo.
Da un lato l’atteggiamento pilatesco della Commissione Europea che, a fronte di un contributo economico davvero enorme, non si è preoccupata di stabilire delle garanzie minime di tutela dell’interesse pubblico. Da un altro lato l’incapacità da parte dei vari istituti accademici europei di formare un fronte compatto a difesa dell’interesse della scienza. L’interrogativo si riferisce invece al comportamento di GSK. Nessuno si aspetta che un’azienda che ha il dichiarato obiettivo di fare profitto sia particolarmente sensibile all’interesse pubblico o a quello scientifico.
Ma che bisogno c’era di dichiarare pubblicamente una disponibilità, alla prova dei fatti fasulla?

Si potrebbe pensare che ci troviamo di fronte all’ennesima nuova forma di pubblico raggiro. Tuttavia vi sono anche chiari segnali positivi, che provengono da una parte importante del mondo scientifico e indicano come la reale disponibilità pubblica dei dati degli studi clinici possa diventare nel prossimo futuro un passaggio obbligato per chi fa ricerca. Dobbiamo tutti impegnarci affinché questo obiettivo venga raggiunto nel più breve tempo possibile.
E anche l’industria del farmaco, GSK compresa, dovrà alla fine adeguarsi sul serio.

 

VITTORIO BERTELE', GUIDO BERTOLINI, SILVIO GARATTINI


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