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Stamina a Brescia, tra audizioni e contraddizioni

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Quasi un milione di euro solo in spese legali, senza parlare dell’impegno di personale e strutture sottratte ad altre necessità, o della ricaduta in termini di immagine su un centro di eccellenza dichiarato dall’AgeNaS nel 2013 il secondo miglior ospedale italiano dopo il San Raffaele di Milano, il primo quindi in Italia tra le strutture pubbliche. Dalle prime audizioni dell'indagine conoscitiva della Commissione Sanità del Consiglio regionale lombardo sull'approdo del metodo Stamina a Brescia e sul ruolo della Regione Lombardia nella vicenda, gli Spedali Civili cercano di uscire come una delle tante vittime della bufera che da Torino a Trieste, passando per San Marino, è cresciuta di intensità fino a travolgere il centro lombardo. Eppure, a frugare tra le carte, qualcosa non torna in questa interpretazione dei fatti.

Mario Mantovani, assessore regionale alla Sanità e vicepresidente della Lombardia, difende il comportamento della Regione in un intervento breve e sintetico (“elusivo” lo definirà Sara Valmaggi, vicepresidente PD del Consiglio regionale): «Le ASL e gli ospedali sono totalmente autonomi dalla Regione in questo campo» ha voluto puntualizzare l’assessore. «A Regione Lombardia non è stata chiesta, né si sarebbe dovuta chiedere, alcuna autorizzazione».

Un conflitto di interessi, ma non economici

«Ma al Pirellone si era a conoscenza del fatto che uno dei primi pazienti da sottoporre alle infusioni era Luca Merlino, dirigente che per conto della Regione era responsabile tra l’altro proprio dei controlli di queste attività?» ha incalzato Mantovani Paola Macchi, consigliera del Movimento 5 stelle. Fin dalle prime fasi dell’approdo di Stamina a Brescia il “paziente eccellente” viene infatti tenuto informato dalla Direzione generale degli Spedali Civili, con mail datata 5 agosto 2011, del controverso scambio epistolare in corso con Carlo Tomino dell’Agenzia italiana del farmaco (AIFA), e in particolare della lettera che i vertici dell’ospedale bresciano interpretano come un via libera, soffermandosi sulla ormai famosa espressione “non si ravvedono ragioni ostative” e sorvolando sulla premessa, che cioè fosse soddisfatta una serie di requisiti. Ma su questo torneremo.

Il punto ora è capire se Merlino viene aggiornato in quanto responsabile dell’Unità organizzativa per il governo dei dati, delle strategie e piani del sistema sanitario, che ha tra le sue funzioni la Definizione di politiche relativamente alle attività di verifica, monitoraggio e controllo delle attività sanitarie di natura ospedaliera e specialistica ambulatoriale o non piuttosto come paziente in attesa di sapere se potrà sottoporsi al trattamento. Il direttore vicario della Regione Lombardia sarà infatti uno dei primi tre pazienti autorizzati a settembre a ricevere le infusioni, la prima delle quali in data 26 ottobre 2011. Una circostanza di cui, secondo Mantovani, i vertici della Sanità lombarda dovevano allora essere al corrente, almeno a livello personale, ma senza che a lui risulti alcun documento a riprova di ciò.

Il costo della vicenda

L’assessore ha poi risposto anche a chi, come Stefano Carugo, cardiologo e consigliere per il Nuovo Centrodestra, lo sollecitava a dare una parola definitiva, che sia uno stop, a questa vicenda: «Tutto dipende dal decreto Balduzzi, poi convertito nella legge 57 del 2013» ripete Mantovani. «Davanti a questo, e alle conseguenti sentenze dei giudici, noi come Regione non possiamo fare nulla».

La maggior parte dei giudici che si sono espressi a favore dei trattamenti infatti si è limitata ad affermare un principio di equità: se la legge consente il trattamento ai primi pazienti entrati a Brescia, lo stesso diritto non si può negare ad altri. E così, nei momenti di maggiore esposizione mediatica, gli uffici e i reparti sono stati subissati da un’ondata di richieste telefoniche o scritte: «Anche un centinaio al giorno» ha riferito Ezio Belleri, commissario straordinario degli Spedali Civili di Brescia, «una situazione che ha messo a dura prova la capacità organizzativa della struttura e la possibilità di rispondere a tutti».

Anche per questo l’Azienda ha cercato di frenare l’afflusso di pazienti da ogni parte d’Italia e Mantovani ha proposto che altri centri, per esempio a Verona, si facessero almeno in parte carico di questa richiesta.
Poi, dall’estate scorsa, perfino il peso economico dei ricorsi alle ordinanze dei tribunali si è fatto insostenibile: «Visto che ormai la linea dei tribunali sembrava consolidata, abbiamo rinunciato a ricorrere se non nei casi che ci mettevano più alle strette» ha dichiarato Belleri.

Solo in spese legali l’Azienda ospedaliera ha già speso più di 918.000 euro, nel tentativo di opporsi alle oltre 500 sentenze che da ogni parte di Italia ingiungono di continuare a infondere ad adulti e bambini un trattamento su cui la Procura di Torino sta indagando in quanto “imperfetto e pericoloso per la salute pubblica”, che secondo l’ispezione dei NAS e delle principali autorità sanitarie di questo Paese presenta poche cellule staminali e molti rischi di contaminazione, che i medici in base all’articolo 13 del  loro Codice deontologico non potrebbero somministrare in quanto “terapie segrete” e perché tenuti ad “adeguare, nell’interesse del  paziente, le loro decisioni ai dati scientifici accreditati o alle evidenze metodologicamente fondate”.

Ospedale di Brescia: una difesa contraddittoria

Dati scientifici accreditati e prove metodologicamente fondate che ancora non sono stati prodotti da Stamina né reperiti sulla letteratura internazionale, ma che sono la prima condizione indispensabile per l’applicazione dell’ormai ben noto decreto Turco-Fazio, spesso citato come quello che autorizzerebbe le cosiddette “cure compassionevoli”.
E’ appellandosi a questa legge che gli Spedali Civili di Brescia si sono rivolti all’AIFA e sostengono, come ha ripetuto nella sua audizione in Regione anche Mario Mantovani, di aver agito rispettando in tutto la normativa vigente. Eppure, su questo punto, la posizione dell’Azienda ospedaliera appare contraddittoria.

Nel suo reclamo al Tribunale di Asti, che il 24 aprile 2013 aveva ingiunto di trattare una bambina colpita da encefalopatia epilettogena, l’ospedale di Brescia si appella proprio al fatto che la Turco-Fazio non si possa applicare a Stamina, per l’assenza di qualunque prova scientifica indispensabile per l’applicazione della legge e cioè per l’”insussistenza, in relazione al cd protocollo Stamina, dei requisiti di scientificità richiesti dal DM 5.12.2006 (ove ritenuto applicabile detto testo normativo), nella assenza di un qualche riscontro oggettivo, accreditato nella comunità scientifica”. Inoltre si cita il Parere della Commissione Scientifica Ministeriale e della Commissione Scientifica costituita presso la Regione Sicilia, che critica severamente la fondatezza e la validità del metodo Stamina.

In questo ricorso, quindi, l’ospedale di Brescia smentisce di fatto il principio con il quale difende la legittimità del suo operato nell’estate del 2011, quando, scrivendo a Carlo Tomino dell’AIFA, la direzione generale comunicava di agire in base alla Turco-Fazio soddisfacendone le condizioni, prima fra tutti quella di trattare “casi compassionevoli per i quali esistano già pubblicazioni scientifiche accreditate o evidenze cliniche scientificamente provate”.

In questo paradossale gioco delle parti il giudice conferma la mancanza di qualunque base scientifica al metodo Stamina, dove afferma: «V'è peraltro da evidenziare come, astrattamente, assuma valore ostativo alla concessione della misura cautelare qui richiesta l'effettivo difetto - pure eccepito dalla difesa di parte reclamante - dei presupposti di cui all'art. 1 comma 4, lettere a) e c) del DM 5.12.2006: nel caso di specie, è stato, infatti, espresso parere negativo da parte del Comitato Etico Provinciale ed è palese la assenza di un effettivo supporto scientifico, sotto il profilo della pubblicistica specialistica accreditata [sulla scorta del dibattito scientifico apertosi sul punto (in modo molto acceso nel più recente arco temporale) corroborato oltretutto dal parere negativo all'avvio della sperimentazione clinica da ultimo adottato in sede di Commissione Scientifica Ministeriale] onde, a rigore, l'applicazione dei requisiti sopra menzionati indurrebbe ad un rigetto della azione cautelare ed all'accoglimento del reclamo di Spedali Civili».

Fuori dal linguaggio giuridico, il giudice ammette che è vero: nel caso Stamina non si ritrovano almeno due delle condizioni indispensabili per applicare la legge Turco-Fazio. E ciò diversamente da quanto l’ospedale di Brescia scrive ad AIFA, per poi negarlo ora davanti al tribunale.

La "dignità della persona"

Nonostante ciò, il tribunale rigetta il reclamo con un altro ordine di argomentazioni, che va oltre il problema della scientificità, invocando, e anzi quasi contrapponendovi, la “dignità della persona”: «In particolare, ritiene il Collegio che il postulare la necessaria sussistenza dei requisiti di cui alle lettere a) e c) dell'art. 4 del citato D.M. [in presenza di gravi malattie, per le quali non sussiste alcuna terapia farmacologica e con riferimento alle quali la cura compassionevole sia costituita da terapia a carattere sostanzialmente sperimentale (con le incognite che inevitabilmente ne derivano), la quale pur tuttavia appaia come l'unico strumento percorribile, al fine di assicurare al paziente una decorosa convivenza con la sua condizione patologica] finisca per realizzare una tutela solo parziale del diritto alla salute: tali requisiti finiscono, infatti, per tutelare esclusivamente il diritto alla salute inteso nella sua primigenia accezione di approntare un presidio terapeutico destinato al regresso della malattia, a scapito dell'altra fondamentale componente del diritto alla salute, inteso come componente della dignità della persona, così finendo per sacrificare completamente l'esigenza (di carattere individuale, inalienabile ed insopprimibile) di assicurare al paziente una decorosa convivenza con la sua condizione patologica in nome della scientificità e della opportunità etica della cura praticata. Tale è la situazione del caso di specie».

C’è poi anche un altro punto della legge Turco-Fazio che impedisce di applicarla a difesa del comportamento degli Spedali di Brescia. Nei loro documenti infatti la norma è sempre citata in riferimento a “pazienti in imminente pericolo di vita o con grave patologia a rapida progressione, in assenza di valide alternative terapeutiche”, quando alcuni di questi primi casi, per esempio quelli con morbo di Parkinson, non possono certamente rientrare in questa definizione.

Purtroppo Cornelio Coppini, il direttore generale che ha gestito l’ingresso e la prima fase di Stamina a Brescia, è mancato proprio un anno fa, e quindi non potrà raccontare la sua versione dei fatti, né spiegare quali fossero le “competenti autorità” che hanno “sollecitato la prosecuzione” dei trattamenti e in che modo è stata esercitata questa pressione, riferita in una mail del 27 luglio 2012 a Bruno Vespa.

Ogni tribunale va per la sua strada

Il commissario straordinario Ezio Belleri, chiamato a sostituirlo dal suo ruolo precedente di direttore amministrativo degli Spedali, ha presentato alla Commissione Sanità del Consiglio regionale lombardo una relazione molto dettagliata e documentata, in cui ha sottolineato il peso logistico ed economico di questa vicenda, ma anche la difficoltà ad attenersi alle indicazioni che emergono dai Tribunali.

Non solo infatti le sentenze sono contraddittorie tra di loro nell’indicazione di massima (circa la metà, infatti -- da quanto è emerso dalle udienze dell’Indagine conoscitiva che si sta effettuando parallelamente in Senato --  rigetta la richiesta di trattamento), ma anche nelle modalità di attuazione: «Ci sono giudici che ci ordinano di infondere le cellule, ma di farle produrre in cell factory, condizione a cui Stamina si oppone» ha raccontato; «altri, come ha sancito una recente sentenza del Tribunale dell’Aquila, di procedere anche con cellule destinate ad altri pazienti o provenienti da pazienti deceduti, cosa che farebbe di noi una “banca” di questo materiale; il Tribunale di Pesaro ha deciso che si dovesse proseguire oltre le cinque infusioni previste dal protocollo siglato con la Stamina Foundation, per cui pazienti che dovrebbero uscire dal programma continuano invece a richiedere cure, sovvertendo le liste d’attesa, così come è accaduto anche quando i giudici di Trapani ci hanno ingiunto di effettuare il trattamento entro una certa data, scavalcando altri pazienti».

Le due biologhe lavoravano insieme?

Questo stesso tribunale siciliano, il 10 febbraio 2014, interviene anche sull’ostacolo rappresentato dal fatto che la biologa addetta alla preparazione delle cellule di Stamina, Erica Molino, non sia iscritta all’Albo. Il giudice di Trapani, infatti, la autorizza a preparare le cellule purché sia affiancata da un collega in regola. Una clausola che comunque sembra mettere in crisi il metodo Stamina, finora gestito in maniera esclusiva dalla Molino, come ci ha raccontato l’unico altro biologo di Stamina che operava a Brescia fino alle ispezioni del maggio 2012, ma che veniva chiuso fuori dal laboratorio durante il trattamento delle cellule secondo il misterioso “metodo Vannoni”.

Belleri ha dichiarato che le infusioni saranno sospese nel mese di marzo per assenza della biologa, che evidentemente non ha un sostituto, in linea con quanto dichiarato da Vannoni su Twitter: «Credo che si riprenderà senza problemi a fare infusioni…ipotesi più probabile aprile”. L’èquipe di medici e biologi di Stamina di cui parla lo stesso Vannoni nelle sue interviste non deve quindi essere così nutrito, se l’assenza di una sola persona basta a bloccare l’attività.

La testimonianza di Giuseppe Mauriello Romanazzi contrasta anche con quanto affermato da Arnalda Lanfranchi, responsabile del Laboratorio cellule staminali degli Spedali civili di Brescia e moglie di Fulvio Porta, responsabile per l’ospedale del progetto di collaborazione con la Stamina Foundation.
Nel ricorso dell’Azienda ospedaliera dinanzi al TAR della Lombardia, infatti, la biologa dichiara: «In tutte le fasi, ad eccezione della prima riguardante l’effettuazione della biopsia, il personale del mio laboratorio, ma per la maggior parte io stessa, abbiamo supervisionato la procedura di preparazione delle cellule prodotte». La dottoressa potrebbe quindi gettare luce sul metodo ancora coperto da segreto (ma, come ormai si sa, non da brevetto, diversamente da quanto affermato ripetutamente nei documenti dell’ospedale). Lo farà?


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