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Norbert Wiener, il matematico che avvistò il nostro tempo

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Ricorrono quest’anno i cinquant’anni dalla scomparsa di Wiener (1894-1964).
L’Institute of Electrical and Electronic Engineers patrocinerà in giugno una “Conference on Norbert Wiener in the 21st Century” a Boston. Nel 1994, per il trentennale, che coincideva anche col centenario della nascita, si tennero due ampi congressi, uno sugli aspetti applicativi della sua matematica, l’altro su quelli puri, sempre negli Stati Uniti. Sarebbe bello, però, che di lui ci si ricordasse anche al di là delle scienze cosiddette hard, e non solo negli Stati Uniti.
Testimonierà nel ’94 Dirk Struik (1894-2000), fisico e storico della scienza, suo amico carissimo, nato nello stesso anno e che gli sopravvisse di 36 anni: «In effetti, quando penso a Norbert Wiener, ciò che continua a colpirmi è la sua visione. Era una cosa grande. Vide più in profondità di molti di noi, forse più di tutti noi, e non solo nel campo matematico ma anche in quello più vasto delle applicazioni» [tr. it. mia].

Wiener non è stato solo un matematico dalla “towering stature”, come scriveranno i suoi colleghi americani sul numero speciale della loro rivista dedicatogli in memoriam. Aveva anche una formazione filosofica di prim’ordine che gli conferiva occhiali unici per capire dove stavano conducendo le innovazioni che aveva sotto gli occhi ed al cui sviluppo aveva contribuito dal 1919, anno in cui era entrato al dipartimento di matematica dell’MIT, da sempre punta avanzata della ricerca tecnologica mondiale. Vide per tempo i cambiamenti che si profilavano all’orizzonte, come facevano le vedette sugli alberi dei velieri. E come loro si mise a gridare, mettendo in guardia circa i pericoli che scorgeva.
Scrisse in un capitolo di The Human Use of Human Beings (1950): «In molti passaggi di questo libro, ho mostrato come il futuro immediato della società sia oscuro e irto di pericoli. In primo luogo ho indicato che stiamo percorrendo la rotta basandoci su una mappa, l’idea di progresso, sulla quale non sono riportati gli scogli che ci minacciano» [tr. it. mia].
Già nell’autunno 1945, Wiener aveva intuito la possibilità che nel prossimo futuro scaturisse una fabbrica con alti gradi di automazione, con la conseguente espulsione dal processo produttivo del personale non sufficientemente qualificato. Aveva visto quel processo di postindustrializzazione che i sociologi registreranno molto tempo dopo, e che non consiste nel recedere del peso dell’industria in un paese (almeno tendenzialmente), ma nel trasformarsi dei modi di produzione, con la diminuzione degli addetti al settore secondario e l’incremento di quelli impiegati nel terziario avanzato, con l’emergere della cosiddetta economia della conoscenza. Durante la guerra, era stato uno dei massimi esperti di computer elettronici digitali, nonché di sistemi di previsione per il tiro antiaereo (e non) a feedback, guidati da radar e controllati da computer (analogici oppure digitali).
Inoltre, secondo una convinzione tipica della prima cibernetica, per lui computer e cervello umano, differenti quanto si vuole per architettura, erano comunque entrambi sistemi di elaborazione dell’informazione.

Dunque il cervello costituiva un ottimo modello del computer del futuro: leggero, a basso consumo energetico, con grande capacità elaborativa, poco costoso, ubiquo. Gli bastò sostituire mentalmente alle centrali di tiro le macchine industriali, perché comprendesse che il computer sarebbe potuto divenire un ottimo sistema per controllare i processi produttivi, dando luogo ad una nuova rivoluzione industriale che, se troppo rapida e gestita secondo la cieca logica del profitto, avrebbe provocato disoccupazione e mutamenti sociali imprevedibili, se non addirittura funesti.
Era questa una delle idee che lo assillavano nell’autunno ‘45, quando riecheggiavano ancora nelle sue orecchie, come in quelle dell’umanità intera, i boati delle due bombe che avevano raso al suolo due intere città. Era inferocito nei confronti del cinismo della decisione. E stava forse molto probabilmente rendendosi sempre più conto del fatto che la sua stessa intelligenza era stata messa al servizio di Los Alamos a sua insaputa, visto che aveva collaborato con von Neumann alla messa a punto del computer usato per progettare le atomiche. Diede le dimissioni dall’MIT, poi ci ripensò.
Durante il 1946 sembrava essersi tranquillizzato, pensava che avrebbe potuto lavorare per fini pacifici alla “scienza senza nome” che di lì a poco avrebbe chiamato Cybernetics. Partecipò con entusiasmo ai due primi Convegni Macy, in cui ebbe occasione di comunicare le sue idee su di essa. Ma la brace covava sotto la cenere, ed arrivò il colpo di vento che riaccese il fuoco. Sul finire dell’ottobre ’46 gli giunse una lettera da un fisico impegnato nella missilistica che desiderava una copia di un suo libro, pubblicato per conto del governo nel febbraio 1942 in 300 copie numerate, classificato come “confidential” e distribuito secondo una rigida lista di nominativi, che recava stampigliato sul frontespizio il monito: «Questo documento contiene informazioni riguardanti la Difesa Nazionale degli Stati Uniti, ai sensi dell’Espionage Act 50 U.S.C., 31 e 32.
La sua trasmissione o la rivelazione dei suoi contenuti in qualsiasi modo a persone non autorizzate è proibita dalla legge» [tr. it. mia].
Gli scienziati si riferivano al libro come allo Yellow peril (Pericolo giallo), per il colore della copertina, ma soprattutto per la matematica che conteneva, utilissima, ma di un tipo che pochissimi erano in grado di comprendere, riguardante la teoria della predizione e del filtraggio delle serie temporali stazionarie; scoperta che discendeva direttamente dalle sue ultraventennali ricerche. In esso era già delineata anche la visione della “scienza senza nome”, che generalizzava i concetti e le tecniche di studio delle telecomunicazioni, allargandole a comprendere oltre a telefoni, radio e giradischi, anche i servomeccanismi, i sistemi di calcolo analogici e digitali, nonchè i processi di trasmissione dei segnali nervosi e di elaborazione compiuti dal cervello. Secondo questa scienza anche il movimento del volante che aziona il servosterzo della nostra auto è un messaggio che veicola informazione e, come tale, piccoli errori di manovra possono essere trattati come “rumore” e “filtrati”, come avviene con la musica Hi-Fi.

Una scienza fondata sullo studio statistico-probabilistico dell’informazione, della sua produzione, trasmissione, elaborazione, filtraggio, codificazione, utilizzo, indipendentemente dal fatto che abbia un supporto elettrico, meccanico, nervoso. Insomma lo Yellow peril conteneva l’anima stessa di Wiener.
Quando arrivò la lettera del fisico, la misura fu davvero colma e Wiener esplose. La sua risposta fu pubblicata nel gennaio 1947 sulla più prestigiosa e ricercata rivista di Boston, l’Atlantic Monthly, sotto il titolo: “Uno scienziato si ribella”. Conteneva un rifiuto netto di dargli il libro, in quanto «la stessa politica del governo durante e dopo la guerra, ossia con il bombardamento di Hiroshima e Nagasaki, ha fatto sì che offrire informazioni scientifiche non sia un’azione necessariamente innocente, e che può comportare le conseguenze più gravi». Da allora, conservando la scelta di non collaborare a progetti militari, decise di divulgare le proprie idee perché i cittadini fossero in grado di controllare democraticamente le novità che uscivano dai laboratori della scienza. All’inizio del 1947 fece un viaggio in Europa.
Era la prima volta che lasciava l’America dall’inizio della guerra; in Francia trovò un editore pronto a pubblicare le sue idee, mentre suoi vecchi amici inglesi, come J.B.S. Haldane, lo incoraggiarono a farlo.
Il libro fu pronto nel giro di quella stessa estate e uscì l’anno dopo, nel ’48: in esso confluì tutto ciò che pensava, le sue idee matematiche, filosofiche, sociologiche, senza preoccuparsi più di tanto delle restrizioni per motivi di sicurezza nazionale che continuavano ad operare nel dopoguerra. Il titolo diede finalmente anche una denominazione alla nuova scienza: Cibernetica, o Controllo e Comunicazione nell’animale e nella macchina.
L’epoca presente stessa vi era descritta come l’età cibernetica per antonomasia, imperniata sulla comunicazione e simboleggiata dai sistemi di trattamento dell’informazione, in primo luogo dal computer, allo stesso modo in cui le macchine termiche erano state l’epitome dei due secoli precedenti.

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