Il prossimo 7 maggio presso l’Università Bocconi
di Milano si terrà l'incontro Dal bosone di Higgs allo smartphone, organizzato
dal Gruppo 2003 e dall’Università Commerciale Luigi Bocconi. Il tema che verrà
discusso riguarda il rapporto tra ricerca di base (o, come si dice oggi in
Europa, curiosity-driven), quella che
produce scoperte come quella del bosone di Higgs, e sviluppo economico, quello
alimentato da beni innovativi come lo smartphone.
Esiste questo rapporto? Occorre davvero investire a monte
nella ricerca del bosone di Higgs per ottenere a valle lo smartphone? Ed è
quella dei beni e dei servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto l’economia
su cui dobbiamo puntare anche in Italia per uscire dal percorso di declino che
abbiamo da tempo imboccato?
Alcune risposte a queste domande le possiamo già trovare
in letteratura. Nell’anno 2007, per esempio, la National Academy of Science
degli Stati Uniti d’America ha pubblicato il rapporto
Rising
Above the Gathering Storm: Energizing and Employing America for a Brighter
Economic Future.
Il problema affrontato è quello che
anche in Europa che ci poniamo da tempo: come accelerare lo sviluppo economico
al tempo della nuova globalizzazione.
Il rapporto della U. S. National Academy of Science è significativo pere
tre motivi:
A) perché il problema se lo pone una società scientifica;
B) perché
il rapporto sostiene che l’innovazione tecnologica che dipende dalla produzione
incessante di nuova conoscenza scientifica ha un forte impatto sull’economia
(fin dal 1890 avrebbe generato l’85% dell’aumento annuo del reddito medio pro-capite
degli americani);
C) perché propone una vera e propria ricetta per la crescita
economica in quattro punti.
Questi quattro punti sono, a loro volta, molto
significativi. E conviene ricordarli.
1) Aumentare la quantità di talenti migliorando
l’educazione in matematica e scienza nelle scuole primarie e secondarie (il
corso di studi chiamato K-12).
2) Sostenere e rafforzare gli investimenti di lungo
termina nella ricerca di base (si consiglia un aumento dei fondi per la ricerca
di base di almeno il 10% l’anno per 7 anni).
3) Reclutare i migliori studenti, i migliori
scienziati e i migliori tecnici all’interno degli Stati Uniti e dall’estero.
4)Fare in modo che gli Stati Uniti restino al
primo posto nel mondo dell’innovazione.
La tesi di fondo – più ricerca, più ricchezza – non è accettata da tutti. Non perché non sia vera. Ma perché non ci sono sufficienti studi scientifici in grado di dimostrare quanto producono in termini economici gli investimenti in ricerca (si veda, per esempio, l’articolo pubblicato su Nature il 21 febbraio 2011 da Julia Lane e Stefano Bertuzzi dal titolo Measuring the Results of Science Investments).
Non c’è dubbio tuttavia che su questo presupposto – più
ricerca, più ricchezza – si basa un altro rapporto, Science, the endless frontier (il testo è stato di recente pubblicato in italiano da Bollati Boringhieri con
il titolo Manifesto per la rinascita di
una nazione e con un’introduzione di chi scrive) elaborato nel 1945 a Washington da Vannevar
Bush, il consigliere scientifico del presidente Franklin D. Roosevelt, che è
alla base della politica della ricerca seguita dagli Stati Uniti dopo la
seconda guerra mondiale.
Il grande matematico sosteneva che per fare in modo
che gli Stati Uniti acquisissero il primo posto al mondo per il grado di
benessere, economico ma anche sanitario, dei suoi cittadini occorreva che lo
stato federale rinunciasse al suo tradizionale “non intervento” in fatto di
cultura e università, ma investisse all’incirca l’1% della ricchezza nazionale
(oggi la chiamiamo Prodotto interno lordo) in ricerca scientifica.
Una quota
parte non inferiore al 20% degli investimenti doveva essere riservata alla
ricerca di base (che noi oggi chiamiamo anche curiosity-driven), perché quello il primum movens di tutto il processo di innovazione).
Perché gli investimenti in ricerca siano produttivi,
occorre che il paese selezioni le menti migliori. E, dunque, deva allargare la
base di selezione ai giovani di ogni strato sociale, consentendo ai meritevoli
di accedere agli studi universitari a prescindere dal reddito delle loro
famiglie.
L’intervento dello stato in ricerca scientifica e in alta
educazione diffusa è indispensabile, sosteneva Vannevar Bush, perché questo
tipo di investimenti non è alla portata, culturale ed economica, dei
privati.
I privati, invece, hanno un altro ruolo. Sono loro che –
senza aiuto dello stato – devono riuscire a
trasformare le nuove conoscenze prodotte nei laboratori pubblici di scienza di
base e applicata in nuove tecnologie da vendere sul mercato.
Il testo di Vannevar Bush è considerato la base teorica
della moderna politica della ricerca negli Stati Uniti e un po’ in tutto il
mondo. Malgrado la tesi di fondo sia assiomatica e non ancora scientificamente
dimostrata, la correlazione tra ricerca scientifica e sviluppo economico appare
evidente. I paesi che hanno investito di più in scienza sono i paesi che hanno
ottenuto le maggiori performance nel mondo. È vero che il processo di causa ed
effetto potrebbe essere solo apparente e che a investire di più in ricerca sono
i paesi più ricchi, tuttavia è possibile dimostrare la sostanziale veridicità
di almeno tre proposizioni:
1) La ricerca di base produce innovazione
tecnologica, sia pure in maniera non deterministica;
2) I beni e i servizi che oggi sono scambiati con
maggior successo sui mercati internazionali sono quelli a maggior tasso di
conoscenza aggiunto;
3) Anche nei paesi a economia emergente (vedi Cina,
Corea del Sud, Singapore, Taiwan, India, Brasile) c’è una forte correlazione
tra performance economiche e investimenti in ricerca e sviluppo.
Non c’è dubbio alcuno, dunque, che esiste una forte correlazione tra sviluppo economico e ricerca scientifica. Resta la domanda: è su questa correlazione che deve puntare anche l’Italia? O, se si vuole: può l’Italia continuare a evitare di porsi questa domanda?