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Un codice deontologico per difendere i medici?

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Un nuovo Codice deontologico dei medici italiani: a che serve? Già: a che serve? Non ce lo chiediamo con il gesto di stizza di chi si sente molestato da una rete di regole di cui non capisce né l’utilità, né l’opportunità. Cogliamo invece l’occasione dell’uscita del nuovo Codice come un’opportunità per riflettere, con serenità: a che cosa deve servire un codice deontologico?
Nell’articolo “Sulla pelle dei pazienti” (Il Sole 24 Ore, domenicale del 15 giugno 2014) Gilberto Corbellini sostiene che il codice sia di per sé uno strumento per proteggere i pazienti da abusi.
Alla nuova versione rimprovera di essere diventata un “pretesto per rifiutarsi di rispettare decisioni che rientrano nell’esercizio dei diritti fondamentali dell’individuo”.
Condivido l’opinione che nel passaggio dal Codice del 2006 a quello del 2014 sia stata operata una torsione nascosta, riconducibile a una retrocessione rispetto al principio di autonomia che era stato progressivamente introdotto nelle redazioni precedenti del Codice. Tuttavia il cambiamento più profondo mi sembra si possa individuare nella finalità stessa che è stata attribuita al codice deontologico.

In breve, il codice appare concepito come uno strumento per proteggere il medico dalle aggressioni dei cittadini. Ma, in chiave irenica, il compito del codice redatto dai professionisti della cura non è quello di difendere i pazienti dai medici, né inversamente i medici dai pazienti. Le regole comportamentali esplicitate mirano a delimitare il comportamento corretto, così che tanto coloro che prestano le cure quanto coloro che le ricevono sappiano a che cosa attenersi e che cosa aspettarsi gli uni dagli altri. Per questo la deontologia non è sovrapponibile né alla legge, né all’etica; non traccia le demarcazioni tra legale/illegale, né quelle tra buono/cattivo e giusto/ingiusto.
Mira fondamentalmente a far funzionare la professione senza attriti, esplicitando per coloro che si rivolgono ai professionisti a quali regole questi si attengono.

Cerchiamo di dare concretezza a queste considerazioni teoriche. Mi chiedo: quando vado da un medico, posso aspettarmi che mi informi sulla mia malattia e sulla relativa prognosi? Ebbene: i Codici precedenti mi avrebbero risposto con un rotondo “no”.
I medici potevano esercitare una medicina corretta senza informare i pazienti.
Il Codice del 1978 mi diceva che “una prognosi grave o infausta può essere tenuta nascosta al malato ma non alla famiglia”; quello successivo, del 1989, raccomandava al medico di “valutare l’opportunità di tenere nascosta al malato e di attenuare una prognosi grave o infausta”, riservandosi di comunicarla ai congiunti.
E’ solo con il Codice del 1995 che entra, sotto pressione del cambiamento culturale, l’obbligo di informare il malato e di ottenere il consenso ai trattamenti diagnostici e terapeutici.
Nella versione del 2006, poi, se ne espliciterà la ragione: l’art. 6 riconosce che il buon medico dei nostri giorni deve orientarsi al “rispetto dell’autonomia della persona”, oltre a fornire cure efficaci e a fare buon uso delle risorse. E’ un cambio di paradigma, che fa nascere la buona medicina dal delicato equilibrio di tre principi: il bene del paziente; la sua autonomia, che comporta la partecipazione informata al progetto di cura; il punto di vista di una società giusta, in cui non si praticano discriminazioni e vengono protetti i soggetti fragili.

Che cosa succede se questa bilanciata costruzione viene smantellata? Ciò è avvenuto nella nuova redazione dell’art. 6 (“Qualità professionale e gestionale”), nel quale è stato omesso il principio del rispetto dell’autonomia. L’informazione e il consenso - che in linea teorica e secondo il modello ideale dovevano esser orientati alla personalizzazione delle cure; secondo il documento del Comitato Nazionale per la Bioetica del 1992, il consenso informato “si traduce in una maggiore partecipazione del paziente alle decisioni che lo riguardano” - cambiano segno. Diventano funzione del sistema autoprotettivo che il medico si preoccupa di erigere.
Secondo lo slogan coniato da Roberto Satolli, “paziente informato, medico salvato”! E il medico si ritrova a prendere le decisioni secondo i tradizionale parametri della “scienza” e della sua “coscienza”.

Questa interpretazione del cambiamento profondo intervenuto nella nuova versione del Codice trova verifiche testuali precise. Mentre l’autonomia del cittadino (ricondotto al ruolo più gestibile di “persona assistita”…) viene scotomizzata, acquista rilievo quella del medico: questi “impegna la sua autonomia e responsabilità” per le prescrizioni (art.13);  le procedure di procreazione medicalmente assistita “sono di esclusiva competenza del medico che opera in autonomia e responsabilità nel rispetto dell’ordinamento” (art. 44). L’autonomia del cittadino non appare più in forma assoluta, ma controbilanciata da quella del medico: la relazione di cura è costituita dalla “condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità”: art. 20.

Soprattutto fungono da spie del cambiamento di fondo intervenuto alcune aggiunte rispetto al Codice precedente che esplicitano un obbligo di informazione. Così all’art. 14 (“Prevenzione e gestione degli avventi avversi e sicurezza delle cure”) viene raccomandata l’ “attenzione al processo di informazione e di raccolta del consenso” (che diventa così strumento di prevenzione del rischio clinico); o la “circostanziata informazione per l’acquisizione del consenso” rispetto ai sistemi e metodi di cura non convenzionali  (art. 15). Così la cattiva prassi attuale del consenso informato -che è già vissuta da molti cittadini invitati a mettere una firma sotto un modulo, praticamente in assenza di informazione e soprattutto di comprensione di ciò che viene loro proposto, come uno scarico di responsabilità da parte del medico - viene teorizzata come la funzione corretta di questa pratica.

Un’analisi comparativa attenta trasforma il sospetto in certezza: nel passaggio dal Codice del 2006 a quello del 2014 ha avuto luogo un cambiamento nella concezione di fondo e nella finalità attribuita alla deontologia professionale. Se il cittadino la percepirà come un raffinato strumento di autotutela, a servizio della medicina difensiva, avremo acceso una ulteriore miccia di possibile conflittualità. Alla medicina paternalistica dei tempi passati non si può più tornare. Se i medici rifiutano di cercare, con umile laboriosità, il profilo di una nuova medicina insieme ai cittadini, avremo perso una opportunità.
La regola potrebbe diventare: “à la guerre comme à la guerre”. E ci manca l’animo di immaginare lo scenario da incubo, per i professionisti della cura e per i cittadini malati, di  una pratica della medicina trasformata in una contrapposizione frontale.

Ci resta una domanda in sospeso:  ma i medici italiani, nel loro insieme, si sentono rappresentati dal nuovo Codice? Oppure è stato elaborato sopra le loro teste, e lontano dal loro cuore?

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