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La società democratica della conoscenza

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Comunicare tutto a tutti. Abbattere in concreto il paradigma della segretezza e ogni ostacolo che si oppone alla libera circolazione della conoscenza scientifica. Tutti i risultati della ricerca devono essere open access: accessibili a chiunque. Di più, tutte le informazioni scientifiche comunque raccolte devono essere condivise da tutti con tutti: open data. Sono queste le proposte avanzate da un numero crescente di ricercatori in tutto il mondo.
E sono queste le proposte che la Royal Society di Londra – una delle più antiche accademie scientifiche del mondo, quella che pubblicando le Philosophical Transactions ha inventato nel XVII secolo il moderno sistema di comunicazione della scienza – ha messo autorevolmente sul tavolo nel 2012, pubblicando il rapporto Science as an open enterprise. Open data for open science, redatto da un vasto gruppo di lavoro diretto da Geoffrey Boulton, professore emerito di Geologia dell’Università di Edimburgo.
Il rapporto fa implicito riferimento a un valore fondante dell’impresa scientifica. Il grande storico delle idee scientifiche, Paolo Rossi, sosteneva infatti che la scienza moderna è nata, nel Seicento, abbattendo un paradigma consolidato: il “paradigma della segretezza”. Comunicando, appunto, tutto a tutti. Un valore, quello di far conoscere tutto a tutti, che il sociologo Robert Merton ha definito “comunitarismo” e che ha almeno due grandi virtù.
La prima è quella di trascinarsi dietro un altro valore fondante della scienza, quello – per dirla ancora con Merton – dello “scetticismo sistematico” che, grazie alla totale trasparenza della comunicazione scientifica, consente a tutti di essere critici di tutti e di impedire a chiunque di ergersi ad autorità ermetica e assoluta.
La seconda virtù consiste nella condivisione della conoscenza che è in sé un fattore di sviluppo. Perché la conoscenza è un bene molto particolare – un bene “più che non rivale”, come rileva Andrea Cerroni – che aumenta tanto più velocemente quanto più è condiviso. Il mancato accesso alla conoscenza è invece un fattore di esclusione, sia nella comunità scientifica (il ricercatore che ha un accesso limitato alla conoscenza gioca con le mani legate) sia nella società nel suo complesso.
Ne deriva che l’open science, l’accesso libero e gratuito alla conoscenza scientifica, e l’open data, la condivisione di tutti i dati, sono un bene in sé. Perché liberando del tutto lo scambio di conoscenza, ne consentono l’aumento. Per questo, come rilevano Benedikt Fecher e Sascha Friesike, vi sono movimenti o, se si vuole, scuole di pensiero che propongono l’open science sia per motivi ideali (la democratizzazione della conoscenza), sia per motivi pratici (l’efficienza e l’efficacia della ricerca).
D’altra parte, il rapporto della Royal Society su questi punti è chiaro fin dal titolo: la scienza è e deve essere un’impresa aperta. L’indagine trasparente è il suo cuore pulsante. La comunicazione pubblica delle nuove conoscenze scientifiche consente a tutti di analizzarle, farle proprie, criticarle, rigettarle del tutto o utilizzarle per nuove indagini e per produrre nuova conoscenza. I successi della scienza dipendono dalla sua potente capacità di autocorrezione. E la potente capacità di autocorrezione della scienza dipende a sua volta dalla totale trasparenza del suo sistema.

Non c’è scienza senza comunicazione della scienza

L’open science teorizzata dalla Royal Society è, dunque, una scienza che crea più velocemente nuova conoscenza aumentando e non diminuendo il suo spirito laico e critico. Ma comporta anche una rivoluzione nel sistema di comunicazione e, quindi, nel modo di lavorare degli scienziati. John Ziman, un fisico teorico studioso proprio del “lavoro degli scienziati”, come recita il titolo di un suo libro, sosteneva che la scienza è un’attività sociale che tende a raggiungere un “consenso razionale d’opinione” sul più vasto campo possibile. Nella descrizione che ne fa Ziman, l’attività scientifica ha due dimensioni ineludibili e consequenziali: una privata (osservare la natura, elaborare spiegazioni teoriche), l’altra pubblica (comunicare i risultati dell’indagine, sperimentale o teorica che sia). La seconda dimensione del “fare scienza” è altrettanto importante della prima. Ne deriva che “non c’è scienza senza comunicazione della scienza” e infatti – sostiene Ziman – il sistema di comunicazione è l’istituzione sociale fondamentale della comunità scientifica. Questa istituzione sociale è caratterizzata fin dalla nascita della “nuova scienza”, nel XVII secolo, dalla totale trasparenza e accessibilità.
La proposta dell’open access fatta propria dalla Royal Society tende a rendere effettivi e a scala globale gli originari valori di trasparenza e accessibilità. Mentre la proposta degli open data – condividere tutti i dati, anche quelli non pubblicati, per sfruttare la proprietà di “bene più che non rivale” della conoscenza – chiede qualcosa di più: non solo trasparenza e disinteresse, ma una profonda complicità tra gli scienziati.
Un modo nuovo di lavorare, appunto. Per quanto dirompente, la proposta della Royal Society non è un fulmine a ciel sereno. È piuttosto l’espressione di un processo esteso e nato da tempo che coinvolge, sia sul piano teorico sia sul piano della pratica, una parte crescente della comunità scientifica internazionale tanto da diventare oggetto della politica della ricerca di governi, come quello inglese o statunitense, che tradizionalmente puntano sulla scienza come motore dello sviluppo civile ed economico della società.

David Willets, ministro della ricerca nel governo conservatore di David Cameron, ha fatto proprie sia le proposte della Royal Society sia quelle analoghe del Working Group on Expanding Access to Published Research Findings, il comitato diretto dalla sociologa Dame Janet Finch, creato apposta per fornire indicazioni all’esecutivo britannico sulla politica da seguire nella comunicazione della scienza.
Anche sull’altro lato dell’Atlantico, i motivi di fondo addotti per l’open science sia dal presidente Barack Obama sia dall’OSTP, l’Ufficio per la politica della scienza e della tecnologia diretto da John Holdren (uno scienziato), sono di tipo utilitaristico. Una maggiore circolazione dei risultati scientifici, dicono alla Casa Bianca, ha molte utilità: favorisce la creazione di nuova conoscenza, rende possibile un più rapido trasferimento del know how e, ultimo ma non ultimo, alimenta l’innovazione tecnologica, che è il motore dell’economia nell’era della conoscenza. Per lungo tempo l’istituzione sociale fondamentale della comunità scientifica – il sistema di comunicazione della scienza – si è basato sostanzialmente sull’uso di riviste peer review (con l’analisi critica ex ante da parte di colleghi esperti dell’autore) in abbonamento su supporto cartaceo.
Il primo esempio storico di questo sistema di comunicazione tra scienziati risale alle Philosophical Transactions, pubblicate a partire dal 1665 proprio dalla Royal Society. La rivista in abbonamento scarica sull’utente (l’abbonato) il costo del sistema di comunicazione. Il processo ha consentito di rispettare il valore del “comunitarismo” per almeno tre secoli: finché la comunità scientifica è stata relativamente piccola, il numero di riviste relativamente contenuto, i costi di abbonamento relativamente bassi, gli utenti relativamente ricchi.

Comunicare tutto a tutti

Oggi ci sono almeno quattro fattori nuovi che impongono di ridargli forma in modo da conservare la sostanza del valore e della prassi di “comunicare tutto a tutti”. Il primo fattore è l’enorme crescita della comunità scientifica: in poco più di un secolo il numero di ricercatori è aumentato di ben due ordini di grandezza, passando da circa 80.000 alla fine del XIX secolo agli oltre 7 milioni attuali.
La crescita è stata accompagnata da un processo accentuato di specializzazione: sono nate nuove discipline e, quindi, nuove comunità scientifiche. La crescita della comunità scientifica è stata accompagnata negli ultimi anni anche da una rapida internazionalizzazione. Sia nel senso che si fa scienza in maniera significativa in molti più Paesi, sia nel senso che a fare scienza e a portare avanti un comune progetto di ricerca sono sempre più gruppi di persone provenienti da Paesi diversi.
Tutto ciò ha portato a un incremento enorme della comunicazione: sia nel numero di articoli pubblicati, sia nel numero delle riviste che li pubblicano. Ma tutto ciò, combinato con lo sviluppo delle tecnologie, ha comportato un aumento ancora più esplosivo della quantità di dati prodotti e conservati. Il secondo fattore risiede proprio nel profondo cambiamento nelle tecnologie della comunicazione. Ora con i computer e le reti di computer è davvero possibile comunicare tutto a tutti in tempo reale. Questi due fatti rendono, nel medesimo tempo, necessario e possibile sia l’open access, l’accessibilità integrale alla conoscenza scientifica, sia gli open data, la condivisione integrale di tutti i dati e di tutte le informazioni.

Tuttavia a ostacolare la comunicazione di tutto a tutti ci sono gli altri due nuovi fattori. Il primo è l’enorme aumento sia del numero sia del costo medio delle riviste su carta, un incremento che pone reali problemi di accesso alla comunicazione. È impossibile – sia per problemi di spazio fisico, sia per problemi di costi di abbonamento spesso molto grandi – che una qualsiasi istituzione possa allestire biblioteche capaci di contenere tutta la comunicazione scientifica stampata su carta. Il secondo fattore che impedisce di continuare ad abbattere in maniera sistematica il “paradigma della segretezza” riguarda l’ingresso massivo delle imprese nel sistema della ricerca.
Se ancora negli anni Sessanta del secolo scorso vigeva negli Stati Uniti e in Europa il rapporto “two to one” (2:1) tra ricerca finanziata con fondi pubblici e ricerca finanziata con fondi privati, oggi il rapporto è specularmente ribaltato: oltre 1.000 dei circa 1.500 miliardi di dollari investiti nel 2013 in ricerca e sviluppo provengono dalle imprese. Il che significa che in media nel mondo, per ogni dollaro pubblico speso in ricerca, ce ne sono due privati.
Questa condizione non è neutrale. Le imprese portano con loro una diversa cultura scientifica e la comunità di ricerca che lavora nelle o per le imprese, è portatrice di una griglia di valori diversa – talvolta opposta – a quella classica mertoniana della comunità scientifica finanziata con fondi pubblici. In questa nuova griglia valoriale non è contemplato il valore del “comunitarismo”, ma al contrario viene esaltato il valore del “segreto”. Le imprese tendono a conservare per sé la conoscenza. Nella nuova griglia non c’è neppure un altro valore mertoniano, il “disinteresse”.
Al contrario le imprese fondano, legittimamente, la loro attività sull’interesse, con risultati possibilmente immediati.

La pressione delle imprese private che, ormai, finanziano larga parte della ricerca nel mondo – ma anche di molti Stati, per motivi di sicurezza – è a tenere segreti piuttosto che a comunicare i risultati della ricerca; è a finalizzare verso obiettivi immediati e interessati l’attività di ricerca invece che lasciarla curiosity-driven (guidata dalla curiosità) e disinteressata. In una parola la cultura scientifica delle imprese non va verso l’open science. Semmai propone una closed science, una scienza chiusa. Questi quattro fattori nuovi intervenuti nella vita della comunità scientifica sono in contraddizione tra loro ed è giunto il tempo di sciogliere i nodi. Come sostiene anche la Royal Society, i nodi possono essere sciolti in un unico modo: ripristinando la totale trasparenza della scienza. Comunicando tutto a tutti. Le tecnologie ce lo consentono: basta creare riviste in rete e open access. Occorre la volontà e un minimo di risorse.
La open science, con riviste in rete e open access, ma anche con gli open data, la condivisione dei dati, può e deve diventare un obiettivo sia dell’intera comunità scientifica sia delle istituzione politiche: dei governi europei o, magari, dell’Unione Europea. Secondo la Royal Society ci sono almeno otto diversi motivi che rendono necessaria l’open science. Sei riguardano la comunità scientifica: la sua vita interna, i suoi valori, le sue metodologie.
I sei motivi interni sono:
1) conservare la capacità di autocorrezione senza la quale non c’è scienza;
2) rendere accessibile le informazioni a tutti i ricercatori, perché questo è il motore per la produzione di nuova conoscenza;
3) creare un sistema che consenta di incrociare l’enorme quantità di dati disponibili (l’incrocio di una quantità enorme di dati potrebbe portare addirittura a un nuovo paradigma nella scienza, il quarto, dopo i classici due – l’elaborazione delle teorie e la ricerca sperimentale – e dopo il recente avvento della simulazione al computer);
4) pubblicare non solo gli articoli, ma tutti i dati che hanno consentito la loro elaborazione (fatto impossibile su supporto cartaceo);
5) sperimentare nuove forme di simulazione al computer;
6) sperimentare tecnologie che facilitano la creazione di nuove forme di collaborazione e la formazione di nuovi network di ricerca.

Gli altri due motivi che militano a favore dell’open science sono più generali e riguardano i rapporti tra scienza e società. La trasparenza assoluta è una condizione essenziale per aumentare la fiducia dei cittadini non esperti nella scienza. Inoltre la comunicazione in rete e open access consente un più fitto dialogo tra comunità scientifica e cittadini. In questo ultimo ambito il coinvolgimento dei cittadini non esperti potrebbe riguardare anche la raccolta e la condivisione di dati. La scienza, la capacità di innovazione tecnologica e la conoscenza diffusa hanno regalato per mezzo millennio al vecchio e piccolo continente un ruolo primario nel mondo. Se l’Europa vuole uscire dalla sua crisi economica e di identità è dalla scienza, dall’innovazione tecnologica, dalla conoscenza diffusa che deve ripartire.

Tratto da Scienza & società - Open Science Open Data

 


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