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La primavera della scienza ottomana

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Le scale sono di marmo e lungo i corridoi, ampi e luminosi, che portano all’ufficio del rettore si aprono le porte delle aule pulite e attrezzate, piene ma non affollate di studenti, maschi e femmine, di diversi paesi.
Benvenuti nella moderna università Doküz Eylul. Una delle cinque – due pubbliche, tre private – che vanta Izmir, terza città della Turchia più nota in occidente con l’antico nome di Smirne.

Mentre prendi atto del clima ordinato e cosmopolita dell’ateneo, la mente corre all’articolo che Ahmed Zewail, egiziano, premio Nobel per la Chimica, ha pubblicato il 21 marzo scorso su Nature per sostenere:
a) che molti di problemi dei paesi islamici del Medio Oriente e dell’Africa del Nord nascano dal mancato sviluppo scientifico;
b) che la regione ha tutte le potenzialità per “fare come l’Asia orientale” e intraprendere un cammino di rapido sviluppo, perché ha le risorse naturali e, soprattutto, umane per cogliere l’obiettivo con quel 70% della  popolazione che è in età giovanile (sotto i 30 anni) ed è vogliosa di istruirsi;
c) che per avviare il processo occorre che i paesi islamici del Medio Oriente e del Nord Africa seguano l’esempio della Cina o della Corea del Sud e diano luogo a una serie di “primavere scientifiche”;
d) che il progetto non è una pura utopia, visto che in qualche paese dell’area è stato avviato;
e) che uno di quei pochi paesi dove la “primavera scientifica” è iniziata è la Turchia.

Ahmed Zewail, che è l’unico premio Nobel di origine islamica vivente e secondo in assoluto nella storia, dopo il fisico pakistano Abdus Salam, indica, in particolare, nell’università di Biliket, la Città della Scienza di Ankara, una delle migliori di tutta l’Eurasia con un’alta densità di dipartimenti scientifici di valore assoluto e una straordinaria capacità di attrarre o migliori studenti e i migliori docenti della Turchia e non solo.
Aggiungete a questo che la scienza turca sta acquisendo rapida consapevolezza di un passato glorioso e mai del tutto tramontato, come dimostrano gli oggetti e le storie esposte nel nuovo Museo di storia della scienza islamica da poco aperto a Istanbul.
E infine prendete nota del vistoso aumento (+ 28% nel 2013 rispetto al 2012) nei finanziamenti pubblici alla ricerca promesso dal governo di Recep Tayyip Erdoğan, l’uomo forte della Turchia che lo scorso 28 agosto si è insediato alla Presidenza della Repubblica, e certificato dall’ufficio statistico turco lo scorso mese di giugno. In soli cinque anni la Turchia ha più che raddoppiato gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo, passando da 2,5 miliardi di lire turche del 2008 ai 5,5 miliardi del 2013.
Considerate ancora che in questo momento sono iscritti nelle 168 università della Turchia (103 statali, 65 private, circa 4,4 milioni di studenti (più del doppio dell’Italia) e avrete l’idea (e i numeri) di un paese in cui la scienza e l’alta formazione sono in rapida crescita.

Non che manchino i problemi. L’autoritarismo di Recep Tayyip Erdoğan si fa sentire anche nelle istituzioni scientifiche e rappresenta un’ipoteca pesante sul futuro della ricerca nel paese ottomano.
Mentre la qualità della scienza turca non ha ancora raggiunto quella dei principali paesi europei. Come riporta il Researcher’s Report 2013. Country Profile: Turkey di Deloitte, gli scienziati turchi hanno partecipato ai bandi del Settimo programma quadro europeo (FP7), conclusosi lo scorso anno. Le applicazioni sono state 5.982, ma hanno avuto successo solo in 879 casi: ovvero nel 14,7% dei casi, contro una media dei paesi europei del 22,0%. Ma, intanto, quegli 879 gruppi che hanno avuto successo sono protagonisti di un processo di internazionalizzazione sempre più rapido e che ha un riscontro anche nel numero crescente di docenti e di iscrizioni di giovani studenti stranieri presso le università della Turchia.
Tutti processi che rendono più credibile la prospettiva, più volte annunciata, di una rapida transizione dalla “primavera” all’”estate della scienza” in Turchia nel futuro prossimo venturo.

I dati Eurostat ci dicono che, per ora, la percentuale di laureati tra i giovani turchi è del 20%, contro il 22,6% dell’Italia (ultima tra i paesi dell’Unione). Ma le proiezioni e gli impegni ufficialmente assunti dai singoli paesi ci dicono che entro il 2020 la Turchia raggiungerà il tetto del 30% di laureati, mentre l’Italia si fermerà al 27%.
Questo grande disponibilità di giovani laureati costituirà la base per il progetto annunciato a inizio estate dal Ministro della Scienza, Industria e tecnologia Nihat Ergün: raggiungere un intensità di investimento in ricerca e sviluppo (R&S) pari al 3% del Pil entro il 2023 e dare lavoro a 300.000 ricercatori a tempo pieno.
Nel 2013 la Turchia, tra fondi pubblici e privati, ha investito poco più di 11 miliardi di dollari in R&S, pari all’1% del Pil, e ha dato lavoro a 65.000 ricercatori a tempo pieno. Ma nel 2023 la Turchia conta di produrre ricchezza per almeno 2.000 miliardi di dollari (dieci volte più che nel 2003). Cosicché, prevede Nihat Ergün, da qui a dieci anni il paese investirà in R&S almeno 60 miliardi di dollari. Quasi sei volte più di quanto spende oggi. E darà lavoro a un numero di ricercatori superiore a quanti ne ha oggi la Germania.
Forse si tratta di eccesso di ottimismo. Ma il messaggio è chiaro: la Turchia conta di entrare sempre più nell’economia della conoscenza e di fondare la sua crescita economica sulla ricerca scientifica e sullo sviluppo tecnologico. Il messaggio è indirizzato alla società turca. Ma ha un valore di esempio, come sostiene Ahmed Zewail, per tutto il mondo islamico. E, aggiungiamo noi, non solo per il mondo islamico.

Se Ankara procede lungo la strada in cui si è incamminata e Roma continua a non investire nella ricerca e nell’alta formazione, da qui a dieci anni la Turchia potrà contare su un numero di laureati più che doppio e su investimenti in R&S più che tripli rispetto all’Italia. E così alla nuova estate della scienza islamica nel Mediterraneo farà da riscontro l’autunno della scienza italiana.


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