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La salute ai tempi della crisi

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Tagliare la sanità, come ventilato alle Regioni dal governo italiano? Un bel rischio, soprattutto per i più poveri e socialmente fragili. A giudicare dai dati sulla salute ai tempi della crisi, il sistema sanitario pubblico italiano sembra davvero un argine importante, ancora in grado di garantire una tenutadegli italiani colpiti da disoccupazione e recessione. Ma un argine che comincia mostrare alcune crepe. Vediamo quali. E perché.
Alcune sgradevoli verità cominciano ad emergere dal rapporto recentemente pubblicato dallIstat, in cui si confrontano malattie e percezioni soggettive dello stato di salute degli italiani per sesso, età, e regione nel 2005 e nel 2013, cioè prima e durante la crisi economico-finanziaria che ha colpito lintero pianeta.
L
Italia, come il resto del mondo, non sfugge ai morsi di miseria e disoccupazione crescenti, anche se molto meno rispetto ad altri paesi (si vedano a tale proposito i nuovi dati sulla povertà in Italia rilasciati dall'Istat il 30 ottobre, con un tasso di rischio povertà ed esclusione sociale che riguarda il 28,4% degli italiani). E mentre gli epidemiologi guidati da Giuseppe Costa, dell'Università di Torino, escogitano nuove strategie per una sanità anti-crisi nel Libro Bianco sulle disuguaglianze di salute in Italia (in uscita per i primi di dicembre), lOrganizzazione mondiale della sanità dedica un intero rapporto a come sta lEuropa in un momento storico in cui le differenze di reddito, cultura e occupazione si stanno allargando anziché riducendo. 

Crisi e sistema sanitario  

Molti sono gli studi che cominciano a mostrare un peggioramento nelle condizioni di salute a partire dal 2007 a oggi, vuoi per la crescente disoccupazione e impoverimento, vuoi per la politica di austerità che ha infierito sui sistemi sanitari di alcuni paesi come la Grecia, dove hanno dovuto razionare anche medicinali salvavita.
Anziani, giovani, ma anche bambini - come mostra un ultimo studio della rivista The Lancet - hanno risentito in termini di malattie e vite perdute l
approfondirsi delle diseguaglianze durante la crisi che ha colpito di fatto lintero pianeta.
In questo quadro, la buona notizia è che secondo i dati Istat 2005-2013 in Italia questo peggioramento della salute da crisi non si è ancora manifestato, se non per la salute mentale. Difficile dare una spiegazione: se i segnali sono ancora troppo precoci per essere colti o, come ipotizza lo stesso Costa, perché il sistema-Italia mostra comunque una capacità di reazione alle avversità (resilienza) maggiore che altrove, forse per la presenza stessa di un servizio sanitario che copre gratuitamente lintera popolazione.
Per questo i tagli alla sanità che nelle settimane scorse sono stati prospettati dal governo sono tanto preoccupanti, e tanto mal accolti istintivamente dalla maggioranza degli italiani. La crisi ha infatti già operato sforbiciate nel servizio sanitario italiano più che altrove in Europa. Con un 7% del PIL allanno lItalia investe relativamente poco in salute; ma soprattutto investe proporzionalmente sempre meno rispetto agli altri. Se la media dei paesi OCSE infatti ha rallentato la crescita degli investimenti in sanità, litalia è andata sotto zero sia nel 2008 sia nel 2012 e nel 2013.
La spesa per la prevenzione, in realtà molto bassa in quasi tutti i paesi europei, in Italia non supera il tetto che pare irraggiungibile del 5%. Pur essendo secondo molti osservatori la prevenzione la prima leva per ridurre le disuguaglianze di salute nella popolazione e contrastare al meglio gli effetti della recessione. 


E alcuni scricchiolii cominciano a sentirsi. Le vaccinazioni, per esempio, coprono una fetta alta ma decrescente di popolazione.
Forse la crisi economica non è il primo motivo di questo calo, che ha origini nel diffondersi del movimento anti vaccino, e in chiari errori di comunicazione risalenti alla cosiddetta pandemia influenzale del 2009spiega Vittorio Demicheli, epidemiologo  responsabile del Sistema di monitoraggio delle malattie infettive e dei vaccini del Piemonte (SEREMI). Sta di fatto che in questi anni anche vaccini salvavita come lantipolio mostrano tassi di copertura sempre più bassi. Nellultimo anno forse la copertura antipolio è andata addirittura sotto la soglia storica del 95%. Brutto segno.


Vanno meglio gli screening - vale a dire il pap-test, il colon-retto e la mammografia. Tutti e tre in crescita negli ultimi dieci anni, grazie a un
eroicosistema di screening offerti gratuitamente alla popolazione. Anche qui però gli anni della crisi segnano un punto darresto - in alcuni casi proprio un non decollo - del sistema nelle regioni meridionali, dove la popolazione se fa gli screening li paga. Negli ultimi anni in alcune di queste regioni (come la Campania) gli inviti alle donne per fare pap-test e mammografia non partono proprio, probabilmente per la contrazione dei costi delle ASL e il blocco del turn-over del personale sanitario, che lascia questi e altri servizi sguarniti.


Per gli stessi motivi anche il numero dei medici
è in calo: ne escono dal sistema più di quanti ne entrino.

Meno visite a pagamento

Un effetto della recessione, oltre alla disoccupazione, è la considerevole riduzione di potere dacquisto dei più indigenti ma anche del ceto medio, che comincia a risparmiare anche sulla sanità. Lo mostrano i dati dellIstat sulle visite specialistiche, per esempio. Gli italiani si fanno visitare sempre più o meno con la stessa frequenza, ma sono meno disposti a spendere in visite private. Tuttavia dal 2005 al 2013 si rivela più difficile anche farsi visitare gratuitamente, mentre aumentano i pagamenti dei ticket.

 

Rivelatrice è la situazione a Roma dellambulatorio pubblico dellIstituto nazionale  salute migrazioni e povertà (INMP), situato nella struttura dell'ospedale San Gallicano in Trastevere. Ci si aspetta che visitino più immigrati. E in effetti ne visitano tanti, senza barriere e con un ottimo servizio. Tanto ottimo che dal 2008 al 2013 gli italiani di ogni classe sociale che si fanno visitare dagli ambulatori di Trastevere sono passati dal 6% al 40%, fra cui molti diplomati e laureati. Una tendenza interessante, aiutata probabilmente anche dal fatto che - come mostrano le ultime ricerche - i migranti  in Italia diminuiscono perché non trovano più lavoro, e così aumentano i rimpatri e i cambi di paese in cerca di miglior fortuna.
In anni magri si taglia il non necessario. La prima a risentirne è quindi la salute dei denti, prima vittima della crisi: dal 2005 a oggi le visite odontoiatriche sono scese di un terzo, e un calo costante mostrano anche le visite specialistiche più care, con parcella superiore ai 200 euro. 

Colpiti anche i bambini

Secondo i pediatri anche i bambini vengono visitati di meno, con una flessione delle visite con ticket del 20-40%. Ma ci sono anche altri motivi di preoccupazione. "Il primo fenomeno che stiamo osservandospiega il presidente della Società Italiana di Pediatria (SIP) Giovanni Corsello “è che sempre di più i bimbi vengono alimentati con prodotti non adatti a loro, e comunque non per l'infanzia, a partire dall'uso del latte vaccino sin dai primi mesi di vita proprio per il suo costo inferiore". In alcune regioni si registrano trend in crescita anche delle malattie infettive che colpiscono i bambini, e il rischio di un peggioramento nella gestione delle malattie croniche e delle malattie rare, a causa sia dei tagli allassistenza domiciliare in alcune regioni, sia del costo elevato di alcuni farmaci o aumenti speciali, come quelli per celiaci. 

I bambini che vivono in famiglie povere, rileva il pediatra Mario De Curtis dell'Università La Sapienza di Roma, "vanno anche incontro più frequentemente a disturbi comportamentali e psichiatrici. Oggi sono circa 1,8 milioni i ragazzi che vivono in condizioni di povertà relativa e 700 mila in povertà assoluta, soprattutto al Sud". Secondo una statistica fra i nati  allUmberto I di Roma, i figli di madri sole, spesso immigrate, hanno un rischio di doppio di avere disturbi respiratori o di finire in terapia intensiva subito dopo il parto. 

Crisi e male di vivere. Un segnale che le sonde dellistat colgono già con chiarezza è il disagio psichico, quello sì in forte aumento negli ultimi anni. Nella popolazione si stima che i depressi siano circa 2,6 milioni le persone (4,4%), con prevalenze doppie tra le donne rispetto agli uomini in tutte le fasce di età; nella popolazione anziana ne soffre almeno una persona su 10 e tra le donne ultraottantenni la quota supera il 15%spiega lIstat. 

Analogamente ad altri paesi europei, in Italia i suicidi complessivi sono diminuiti prima del 2008, per poi invertire rapidamente la loro tendenza allinsorgenza della crisi finanziaria, come ha mostrato lepidemiologo dellUniversity College di Londra Roberto de Vogli. Parliamo soprattutto dei suicidi per cause lavorative, fra i disoccupati, ma soprattutto nel Nord Est fra gli imprenditori portati dalla crisi sullorlo del fallimento (leggi qui). 
Fra i diversi indicatori presi in considerazione, interessante notare landamento  del benessere percepitodagli italiani e del suo variare a seconda del titolo di studio. Se il sondaggio Istat dice che in media l'8% degli italiani sopra i 25 anni dichiara di sentirsi molto male, tra i laureati questa percentuale scende al 3,3%, mentre tra chi ha un titolo di studio basso si sfiora addirittura il 20%, uno su cinque.
Il grafico mostra inoltre un altro aspetto: la differenza di genere, che va a sommarsi al divario culturale e geografico. Sono le donne a dire di stare peggio, in particolare le donne del Sud, dove la quota di sofferenti supera il 10%, con la differenza che rispetto agli uomini, per le donne il fattore disoccupazione gioca un ruolo molto meno importante. Una soglia, quella del 10%, mai superata dagli uomini, nemmeno al Sud, mentre a Nord si sta sotto al 5%. 

Classe sociale, geografia e malattia

Reddito, occupazione ed educazione risultano essere fattori decisivi per lo stato della salute delle persone, dentro e fuori la crisi. Al punto da poter stabilire una correlazione chiara fra questi determinanti socioeconomici e gli anni vissuti in salute, la frequenza di malattie croniche e più in generale la longevità. Fattori ben più pesanti di quelli ambientali e di quelli legati agli stili di vita individuali. La buona vecchia classe sociale, insomma, è un formidabile fattore prognostico della salute di una persona, e peraltro non è possibile disgiungerla né dallambiente né dalle buone e cattive abitudini (vedi BOX). Ma tutti gli studi mostrano come allo status viene a sovrapporsi la geografia. A parità di reddito ed educazione, in sostanza, vivere al Nord o al Sud fa la differenza, perché diverse sono le risorse di adattamento alle difficoltà crescenti offerte. 

Il Rapporto Istat fotografa qualche differenza socio-geografica per esempio nellesposizione ai fattori di rischio. A partire dallobesità, da cui dipende il 12% delle morti nei paesi europei. Se in epoca pre-crisi (2005) era obeso in media il 10% della popolazione italiana, oggi la percentuale è salita al 12% e si tocca addirittura il 15%, cioè un italiano su sei, se consideriamo la fetta di popolazione con un titolo di studio assente o con licenza elementare. Per contro, nel caso dei laureati le differenze si sentono meno: oggi il 6% di laureati è obeso, contro il 5% di sette anni fa. Anche se di poco, lobesità incide maggiormente al Sud, dove è fortemente sovrappeso il 13% della popolazione, contro il 10% in media delle regioni del nord.

Questi dati trovano una conferma in uno studio analogo condotto dal CNR, che ha confrontato diabete, obesità e ipercolesterolemeia in Italia prima e durante la crisi e per livello di istruzione. Tra le persone con minor scolarizzazione a soffrire di diabete nel primo periodo era il 16,3% degli uomini e l'11,6% delle donne, che nel periodo di crisi passano rispettivamente a 17,7% e 13,2%. L'obesità colpiva tra 1998 e 2002 il 21% degli uomini e il 28% delle donne, che nel secondo periodo sono diventati rispettivamente il 29,1% e il 35,5%spiega Gaetano Crepaldi dell'Istituto di Neuroscienze del Consiglio nazionale delle ricerche di Padova (IN-CNR) e uno dei due coordinatori dello studio. Lipercolesterolemia è cresciuta dal 21,3% dei maschi e 28% delle femmine, rispettivamente al 40% e al 45,6%.” 
In periodo di crisi le prime voci che le famiglie meno abbienti eliminano dalla loro wishlist sono il cibo sano e lattività fisica, entrambi costosi. Non è un caso che fra i costumi in diminuzione vi sia proprio la frutta e verdura, che nel 2013 è scesa per la prima volta sotto la soglia delle ottomila tonnellate.

Sempre secondo lIstat, in Italia un quarto delle persone provenienti da famiglie agiate pratica attività fisica, mentre nelle famiglie più povere la percentuale scende a un sesto. Andando nel dettaglio il divario fra Nord e Sud aumenta: al sud infatti solo un bambino su dieci nelle famiglie a basso reddito fa attività fisica, contro un bambino su sei della stessa classe sociale al Nord, E di nuovo, in tempi di crisi anche lattività sportiva diminuisce.

Per il fumo invece cambia in realtà poco. Dal 2005 (anno di entrata in vigore della legge Sirchia che vieta il fumo nei locali pubblici) i fumatori sono scesi dal 21,3% al 21,1%, cioè quasi nulla. Meglio invece con i forti fumatori (più di un pacchetto al giorno), scesi dal 38 al 31%. Tuttavia aumenta la percentuale di adolescenti e giovani donne che iniziano a fumare prima dei 14 anni, passando da 7,6% a 10,5%. Anche per il fumo valgono le differenze regionali, con un Nord che smette e un Sud meno pronto a spegnere la sigaretta. Qualche differenza anche la situazione delle malattie croniche - da asma a infarto, a tumori, che colpiscono percentualmente di più le fasce deboli della popolazione. Spiega lIstat: La relazione tra bassi livelli di status (misurati attraverso il grado di istruzione raggiunto) e le peggiori condizioni di salute (sintetizzate dai principali indicatori di percezione della salute e dalla presenza di malattie o limitazioni funzionali) si rafforza nel 2013. La quota di persone anziane che dichiarano almeno tre malattie croniche aumenta in misura maggiore tra chi valuta le risorse economiche della famiglia scarse o insufficienti, raggiungendo complessivamente nel 2013 il 48,6%, mentre  erano al 45,8% nel 2005)

Il grafico qui sotto mostra inoltre che ancora una volta nel sud e nelle isole, anche se di poco, le cose vanno peggio. Che sia una fatalità storica, o piuttosto la conseguenza di un sistema sanitario non omogeneo nel nostro paese, al sud si nota che addirittura il 47% degli over 65, cioè quasi uno su due manifesta oggi tre o più malattie croniche diagnosticate. 

Disuguaglianze da riequilibrare con la politica

Insomma, sia secondo la fotografia Istat, sia secondo l'OMS, soprattuto in tempi di crisi, ogni svantaggio sociale, geografico e occupazionale toglie vita e salute agli italiani, facendoli fumare di più, mangiare peggio, fare meno moto, incubare più stress e vivere in ambienti più degradati. Ma anche rapportandosi in modo diverso a un servizio sanitario che non è omogeneo sul territorio. Dicono gli epidemiologi: se con una bacchetta magica si potessero eliminare le differenze di reddito, occupazione e istruzione, in Italia si stima una riduzione della mortalità maschile del 30% e femminile del 15%. In altri paesi - in particolare quelli dellEst - le percentuali sarebbero ancora più alte. LItalia in questo risente positivamente di una maggiore capacità di adattamento alle diseguaglianze tipica dei paesi mediterranei, così come di una maggiore resilienzaalla crisi da parte delle donne. Non è un caso, per esempio, che l'abitudine al fumo stenti ancora a penetrare fra le donne meridionali. 

Ma le autorità sanitarie sono consapevoli di questi cenni di una possibile  status syndrome? Se confrontata con il resto dEuropa, lItalia si difende ma non eccelle. Secondo lEuro Global Burden of Disease, che ha fatto il punto sulle politiche di contrasto messe in campo dai Paesi dellUnione europea, noi ci troviamo a metà classifica, insieme ai francesi. Peggio di noi sono paesi considerati all'avanguardia come l'Austria o in forte crescita come la Polonia. Meglio di noi Belgio, Danimarca, Olanda, Germania e Spagna e meglio ancora i paesi nordici come Inghilterra, Svezia, Finlandia, Norvegia, ma anche lIrlanda.

Un punto molto interessante sulle politiche di contrasto alle disuguaglianze sociali e di promozione a tutto tondo della salute è stato fatto dall'Ufficio di Venezia dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, insieme alla Regione Toscana a fine ottobre a Firenze durante l'incontro annuale della Rete delle Regioni europee. Esempi positivi di strategie volte a mettere l'equità al centro delle politiche della salute arrivano in particolare dalla Norvegia con la Dichiarazione di Trondheim; dalla regione svedese di Vastra Goetaland (leggi qui). Nel Regno Unito, sono invece soprattutto il Galles e la Scozia a dare esempi concreti di attenzione alla dimensione sociale della salute pubblica. in particolare - come ha raccontato l'ispiratore di queste politiche scozzesi Sir Henry Burns - "passare dalla comprensione delle malattie come fatti medici, molecolari, ai loro determinanti sociali ed economici, è il primo passo per impostare azioni di riscatto". E se il "caos sociale" che è seguito per esempio alle grandi dismissioni industriali nella seconda metà del secolo scorso (dalla morte della siderurgia a Bagnoli al collasso della cantieristica navale a Glasgow) comincia a "produrre" malattia della prima infanzia, è soprattutto nella prima parte della vita che bisogna agire, rinsaldando per esempio reti comunitarie e famigliari ed efficaci paracaduti sociali che restituiscano senso di controllo e identità a società travolte dalla globalizzazione finanziaria. A dispetto di quanto diceva Mrs Thatcher, insomma, "Ther is such a thing as society".

In realtà anche in Italia qualcosa è stato fatto negli ultimi anni: dai nuovi programmi di prevenzione del Ministero della salute, alla creazione dellIstituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà (INMP). Segni importanti ma ancora deboli, visto che linvestimento in prevenzione del budget sanitario è molto modesto, e che solo ora lazione sanitaria si sta allargando dallassistenza dovuta ai poveri assoluti e ai migranti, a quella fetta consistente di popolazione che risente della crisi e della forbice socio-economicaspiega Francesco Zambon dellUfficio dellOMS di Venezia, focalizzato sui temi delle disuguaglianze di salute. Per arrivare un domani a delineare una nuova politica sanitaria fondata sull’“universalismo proporzionale, che dia di più a chi ha meno, cercando così di riequilibrare lattuale sbilanciamento fra il nord e il sud del paese. Ed evitando prima di tutto i tagli lineari  alla sanità prospettati dal governo.

Ma limitarsi alla sanità non basta. Come recita il programma Salute 2020 (Health 2020) promosso dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, unattenzione alla salute deve entrare in tutte le politiche. In particolare quelle del lavoro e del welfare, che più possono fare contro le disuguaglianze. Ma anche listruzione, abbassando per esempio le barriere economiche e sociali di entrata alluniversità (lItalia ha una percentuale di laureati che è la metà rispetto a tedeschi e francesi), o facendo educazione sanitaria a tappeto nelle scuole dell'obbligo, come in Toscana (leggi qui). E imponendo infine a ogni nuovo provvedimento di legge un equity auditper accertarsi che con le migliori intenzioni non si vada in realtà ad approfondire le differenze sociali e di salute. Tutto ciò per ragioni etiche, ma non senza un vantaggio economico: ogni aumento dell1% nella speranza di vita, infatti, si traduce secondo l'OCSE in una crescita del PIL del 6 per cento. Più uguali meglio si sta, insomma. E forse si potrebbe anche ricominciare a crescere.

Status syndrome 
Lo status socio-economico fa la differenza in salute. Longevità, vita sana, incidenza di malattie: tutto può essere ricondotto alle condizioni sociali in cui una persona nasce e cresce. Si badi che a incidere sulla salute non è tanto (e solo) il declino di queste condizioni, ma anche la forbice che si allarga e scava fossati sempre più profondi fra chi è soddisfatto del proprio status e chi no. Fra chi è in grado di darsi regole di vita sane e chi non se lo può permettere e indulge in alcol, fumo e cattiva alimentazione. Fra chi si muove e chi no. Fra chi sa come usare in modo razionale i servizi sanitari e chi li subisce, o proprio non li conosce. Fra chi, infine, può scegliere dove vivere e chi invece viene sospinto dalla mancanza di risorse in quartieri malsani, trafficati, quando non asfissiati da discariche e poli industriali.
C’è chi considera questo problema una nuova sindrome, come l’epidemiologo Sir Michael Marmot, che alcuni anni fa la battezzò “status syndrome”. Quasi una malattia sociale, uno svantaggio che si manifesta fra chi, subalterno di nascita o spinto in questa condizione anche dalla crisi, non ha i mezzi culturali e materiali per costruirsi un percorso di salute, ma solo per subirne uno di malattia. La differenza sociale nei nostri paesi può portare a uno scarto nelle aspettative di vita che oscilla fra i 4 (Italia) e i 7 (Inghilterra, Francia e Germania) anni.
Una differenza notevole all’interno di stati che si vantano di aver raggiunto un certo benessere per tutti e che diventa ancora più accentuata se si paragonano fra loro paesi diversi, come quelli occidentali e quelli dell’est europeo, dove il divario di speranza di vita alla nascita può addirittura raggiungere i sedici anni.

L’impatto biologico delle diseguaglianze della salute 
Che le differenze nello status socio-economico si traducano in diseguaglianze nella salute è noto da quasi cinquant’anni. Molti epidemiologi hanno studiato a lungo i diversi fattori di rischio chimici, fisici e comportamentali (come il fumo o l’obesità), giungendo alla conclusione che essi spiegano solo in parte l’impatto delle malattie croniche come tumori o disturbi cardiovascolari, che ogni anno uccidono più di 36 milioni di persone. Basti pensare che l’insorgenza di un’ampia porzione dei tumori alla mammella, al colon e alla prostata non è attribuibile a fattori di rischio noti, mentre le cause di diverse forme di handicap cognitivo sono in gran parte sconosciute. “Due sono le problematiche da affrontare”, spiega Silvia Stringhini, ricercatrice all’Istituto Universitario di Medicina Sociale e Preventiva di Losanna, nonché una delle coordinatrici di un progetto di ricerca internazionale su questi temi. “La prima è identificare i processi biologici che cambiano al variare delle condizioni socio-economiche. La seconda è capire se questi processi siano influenzati da elementi intermediari come il fumo o l’attività fisica oppure se ci sia anche un effetto diretto dello status socio-economico sulla biologia, e quindi sulla salute, delle persone”.
Una domanda significativa, se si considera che diversi interventi di sanità pubblica sviluppati negli ultimi decenni e mirati direttamente ai fattori di rischio, hanno sì ridotto certe cattive abitudini come il fumo o un’alimentazione ipercalorica ma, paradossalmente, hanno anche accentuato certe diseguaglianze. “Di solito, le persone con uno status socio-economico più elevato rispondono meglio a questo tipo di politiche sanitarie”, continua Stringhini. “Il risultato è che le persone con maggiori livelli di istruzione abbandonano più facilmente alcuni comportamenti rischiosi per la loro salute rispetto a quelle poco istruite. Ciò porta a un calo generale dei fattori di rischio ma anche a una crescita delle diseguaglianze di salute dovute alla condizione sociale”.
Le conseguenze biologiche delle differenze di status socio-economico diventano quindi un tassello fondamentale per lo sviluppo di nuovi approcci alla gestione della sanità pubblica. “Noi pensiamo che uno stato sociale ed economico basso debba essere considerato un vero e proprio fattore di rischio, che va a influire direttamente sulla salute di una persona”, conclude Stringhini. (Michele Bellone)

Insicurezza sul lavoro e asma 
Secondo un recente studio pubblicato sul Journal of Epidemiology & Community Health, c’è una relazione fra l'insicurezza sul lavoro propria di questo periodo di crisi e il rischio di incorrere in episodi asmatici. In particolare, le persone che sentono a rischio la propria posizione lavorativa avrebbero una probabilità del 60% maggiore di cominciare a soffrire di questo problema. La ricerca ha raccolto i dati completi di circa 7000 individui adulti tra il 2009 e il 2011, a cui erano state sottoposte domande circa la sicurezza sul posto di lavoro in relazione alla crisi, per esempio se credevano che avrebbero perso il lavoro nei due anni successivi.
Con l'avanzare della crisi, i ricercatori hanno monitorato la salute di questi pazienti e hanno notato che il rischio di episodi asmatici sembrava aumentare proprio con l'aumento della precarietà del lavoro. Inoltre, la metà degli individui colpiti sarebbero donne. Secondo i ricercatori questi risultati potrebbero anche fornire una possibile spiegazione dell'aumento dell'incidenza in generale dei problemi respiratori registrati nel Regno Unito durante la recente crisi economica.

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