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Da Perugia a Los Angeles (e ritorno) contro la leucemia

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“Avevo ottenuto in passato altri premi prestigiosi ma questa volta ricevere un riconoscimento direttamente dalle mani del Presidente della Repubblica è stata veramente un’esperienza speciale ed emozionante”
Con queste parole Brunangelo Falini dell’Università di Perugia ha commentato l’assegnazione del Premio “Guido Venosta” 2014. Il Premio che la Fondazione Italiana per la Ricerca sul Cancro (Airc) assegna ai ricercatori italiani che si sono particolarmente distinti nell'ambito della ricerca per lo sviluppo di nuovi approcci terapeutici alle neoplasie. Dopo un lunga esperienza negli Stati Uniti, Falini è tornato in Italia dove ha iniziato a occuparsi di anticorpi monoclonali per identificare molecole bersaglio su tessuti umani. Oggi è inserito nella lista dei 250 ricercatori più citati al mondo nell’ambito della “Clinical Medicine”.
Tra i riconoscimenti internazionali ottenuti: il “José Carreras Award”, il premio europeo più prestigioso in ambito ematologico e il premio “Karl Lennert”, il più alto riconoscimento nel campo della patologia dei tumori del sangue. E’  stato il primo italiano ad aver ricevuto questi premi.

Professor Falini partiamo dalle motivazioni del premio: “Per i suoi studi innovativi e creativi sul genoma delle leucemie acute mieloidi e della leucemia a cellule capellute che hanno portato risultati concreti per la diagnosi e la terapia anti-leucemica personalizzata”. Come siete arrivati a capire quale gene causa la leucemia a cellule cappellute?
E’ un particolate tipo di leucemia cronica la cui espressione genetica è stata sconosciuta per mezzo secolo.
I citogenetisti non erano riusciti a identificare alcuna alterazione specifica di questa malattia. Per risolvere il problema, abbiamo deciso di andare a sequenziare il DNA delle cellule leucemiche capellute nel tentativo di trovare una mutazione specifica di queste cellule rispetto alle cellule normali. Siamo riusciti a isolare 5 geni potenzialmente all’origine della malattia. Uno di questi, il Braf era già conosciuto come gene oncogeno in quanto presente nella metà dei melanomi. Questa mutazione determina un cattivo funzionamento nei pathway molecolari, in pratica il segnale che induce la proliferazione delle cellule è sempre attivo. Ecco la sorpresa stava nel fatto che la mutazione di Braf risultava presente in tutti i casi di leucemia a cellule capellute finora analizzate e sempre nella stessa posizione (V600E), indicando che essa rappresentava con alta probabilità la lesione genetica causale della malattia.
La conferma ci è arrivata analizzando il genoma di 48 pazienti affetti da tricoleucemia, in tutti i pazienti era presente la mutazione Braf-V600.

Dopo una scoperta scientifica di base, uno degli interrogativi più frequenti è se questa possa avere delle ricadute cliniche di rilievo e in quali tempo, nel vostro caso quali sono gli effetti pratici della ricerca?
Abbiamo sviluppato subito un test molecolare. Attraverso delle sonde molecolari sensibili che sono in grado di riconoscere specificamente il gene Braf mutato, ora è possibile diagnosticare la leucemia cellule capellute con una accuratezza maggiore di quanto non fosse prima possibile mediante la sola osservazione al microscopio.

Da qui la realizzazione di farmaci “intelligenti”
Abbiamo utilizzato il Vemurafenib un farmaco inibitore del gene BRAF in 28 pazienti con leucemia a cellule capellute. Il farmaco induce una risposta clinica in più del 90% dei soggetti, con circa il 30% di remissioni complete. Un risultato eccezionale.

Dal 2005, grazie ai suoi studi, anche la leucemia acuta mieloide è diventata meno misteriosa
E’ un altro esempio di ricerca traslazionale: trasformare ricerche scientifiche che arrivano dal laboratorio in applicazioni cliniche.
Abbiamo scoperto che la mutazione del gene Npm1 (nucleofosmina) è implicata nello sviluppo di circa un terzo dei casi della malattia. La proteina nelle cellule sane si trova nel nucleo ma nella leucemia mieloide acuta, invece, la nucleofosmina si localizza nel citoplasma. Questa “dislocazione” è alla base dell’insorgenza del tumore. Utilizzando un metodo immunoistochimico, abbiamo scoperto che la proteina alterata dipende da due mutazioni, ambedue poste sulla coda della proteina stessa: una le consente di slegarsi dal suo luogo di residenza normale nel nucleo, l'altra favorisce il legame con una proteina chiamata esportina, il cui compito è proprio quello di portare le altre proteine fuori dal nucleo.
Anche in questo caso abbiamo sviluppato un test diagnostico in grado di predire l'andamento della malattia e condizionare le scelte terapeutiche. Il test ci consente di valutare la malattia residua, cioè l’eventuale presenza di percentuali anche minime di cellule leucemiche resistenti alla terapia. Sulla base di questa informazione, è possibile prevedere in anticipo un'eventuale recidiva di malattia e anche individuare i pazienti che possano beneficiare di terapie più aggressive, come il trapianto di midollo.
Nei soggetti in cui è presente solo la mutazione Npm1 possiamo evitare il trapianto perché siamo davanti a una prognosi favorevole. In questo caso, infatti, interventi chemioterapici potranno dare ottimi risultati. L’identificazione di Npm1 ci apre così la strada per lo sviluppo di terapie personalizzate.

Sono passati quasi quarant’anni da quando, nel 1971, Richard Nixon dichiarò ufficialmente “guerra al cancro”, a che punto è questa battaglia?
Da allora sono stati fatti molti passi in avanti, e alcuni di notevole importanza ma ci vorrà ancora del tempo per vincere questa guerra. Abbiamo però molte frecce al nostro arco. Innanzitutto la mappatura del genoma tumorale, attraverso questi studi potremo disegnare nuovi farmaci. Certo la “sola” conoscenza dei geni mutati non è sufficienti perché bisogna poi capire i pathway a essi collegati e le varie interazione fra le proteine. C’è poi la strada immunologica: attraverso lo studio e la realizzazione di linfociti T ingegnerizzati si potranno colpire molecole specifiche presenti nelle cellule tumorali. Si parla spesso di vaccino anticancro ma qui, secondo me, la strada da percorrere è ancora molto lunga. 

I suoi studi sono stati possibili grazie a contributi arrivati da Airc e da Fondazioni locali, ecco molto spesso la ricerca italiana è possibile solo con l’aiuto di queste associazioni. Cosa dovrebbe fare di più un governo per far competere al meglio i nostri ricercatori a livello internazionale?
Investire, si dovrebbe puntare di più nella ricerca e nelle innovazione ma soprattutto nei giovani, perché sono proprio i giovani che intrinsecamente portano questo messaggio di innovazione. 

Da Perugia agli Stati Uniti e ritorno, ogni tanto non si domanda “chi me l'ha fatto fare” a tornare in Italia?
Sono felicissimo di lavorare in Italia. Un ricercatore dopo una doverosa esperienza all’estero deve tornare per poter costruire qui qualcosa di importante. I veri eroi non sono quelli che se vanno ma quelli che rimangono in Italia e affrontano e superano le difficoltà di ogni. Lavorare all’estero poi è fondamentale per istaurare e incominciare proficue collaborazioni con laboratori prestigiosi. 

In altre interviste ha parlato dei giovani che lavorano nel suo laboratorio, spesso si discute di “fuga di cervelli” e del poco spazio che i neo laureati trovato nella ricerca. Come possiamo evitare tutto questo? 
Dobbiamo dare ai nostri ragazzi l’opportunità di fare un esperienza all’estero. Questo è importante perché apre la mente, poi bisogna farli tornare offrendo però delle vere opportunità. E’ stato lo stesso Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al Quirinale, durante la consegna del Premio, a rimarcare il fatto che i nostri ricercatori hanno dei salari molto inferiori rispetto agli altri paesi. Ma i nostri giovani per potersi esprimere al meglio hanno bisogno delle strutture adeguate e un sistema che gli possa permettere scambi proficui con laboratori internazionali all’avanguardia. Ma bisogna avere molta tenacia e pazienza, ecco le chiavi per fare il ricercatore.

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