Ormai non solo la stampa quotidiana ma anche quella scientifica è alla ricerca del sensazionalismo. Nel tentativo di nuotare contro la corrente di notizie che costantemente ci vengono riversate addosso (poche delle quali realmente informative), una rivista prestigiosa come Science accetta di pubblicare un articolo che nel riassunto dice che il cancro è dovuto alla “sfortuna” (“bad luck”, termine ripreso nell’editoriale di accompagnamento). Ohibò: sarà vero? O è una trovata pubblicitaria? I quotidiani di tutto il mondo l’hanno presa come un’informazione, anzi una scoperta, e non hanno cercato di decostruirla. Tocca a noi farlo. Dove sta l’errore?
Cristian
Tomasetti e Bert Vogelstein (quest’ultimo notissimo
ricercatore senior di Baltimora) mostrano che c’è una forte correlazione tra la
frequenza dei tumori (dai più rari come quelli delle isole pancreatiche ai più frequenti
come quelli del polmone nei fumatori) e il tasso di proliferazione delle
cellule staminali dei tessuti in cui insorgono.
Fin qui tutto bene: l’associazione
è molto forte e l’informazione è altamente rilevante. In altre parole, più
spesso si riproducono le cellule staminali di un organo, e più è facile che vi
insorga un cancro (strano che nessuno ci avesse pensato prima …), per esempio
perché una frequente proliferazione facilita errori di replicazione del DNA e
l’insorgenza di mutazioni. Ma, si noti bene, questa osservazione spiega solo le
differenze di suscettibilità al cancro tra i diversi organi o tessuti, non dice
nulla sulla probabilità di un individuo di sviluppare il cancro. Quando gli
autori dicono che il 65% dei tumori è dovuto alla proliferazione delle cellule
staminali e dunque al caso, questa affermazione è semplicemente sbagliata per i
seguenti motivi.
Primo,
lo studio è basato su un numero relativamente piccolo di tipi tumorali (sui più
di 100 esistenti), e perlopiù rari. Sono esclusi “big killers” come i tumori
della mammella, della prostata, delle vescica e dell’endometrio. Secondo, vi
sono enormi differenze nella frequenza a livello mondiale per lo stesso tipo di
tumore. Per esempio, l’incidenza dei tumori del fegato in Islanda è di 2 per
100.000 per anno, in Mongolia di 100 per 100.000 (uomini), ma se consideriamo
piccole aree territoriali e sottogruppi della popolazione le differenze
ammontano ad alcuni ordini di grandezza (pensiamo al mesotelioma negli operai
della Eternit: “bad luck”?. Terzo, i tumori cambiano di frequenza nel corso del
tempo: nel ventesimo secolo il cancro del polmone negli USA è aumentato di 50
volte e quelli dello stomaco e della cervice uterina sono diminuiti di 10
volte. Dubito che le cellule staminali abbiano tassi di proliferazione che
cambiano nello spazio e nel tempo in modo così drammatico. Quarto, la loro
affermazione secondo cui le influenze stocastiche (casuali) costituiscono il
contributo più grande all’insorgenza del cancro non è sorretta dai loro stessi
dati.
Tutto quello che possono dire è che le differenze tra tessuti, a
parità di influenze ambientali e genetiche, sono spiegate dai tassi di
proliferazione delle cellule staminali. E’ un bene che questa affermazione sia
surrogata da nuove analisi, quali quelle presentate dagli autori, anche se è
un’affermazione abbastanza banale. Infine, ci sono nell’articolo alcune scelte
metodologiche discutibili. Per esempio, i tumori dell’esofago e del capo e
collo vengono interamente ascritti ai tumori “stocastici”, cioè spiegati dal
caso, ma in realtà per una larga proporzione di essi conosciamo i fattori di
rischio.
Insomma, l’articolo è giusto fino a un certo punto ma completamente sbagliato nella principale conclusione, vale a dire che la maggioranza dei tumori non siano prevenibili. “Bad luck” che il messaggio sia stato confezionato e trasmesso alla popolazione riducendo l’impatto delle politiche preventive.