Chandra e
XMM-Newton lavorano da 15 anni, così come il VLT dell’ESO; l’Hubble Space
Telescope (HST) da 25 anni; il radiotelescopio a parabole mobili Very Large
Array (VLA) da 35. Là dove è stato possibile, migliorie, e soprattutto il
rinnovo dei rivelatori, hanno permesso a questi grandi telescopi di continuare
ad acquisire dati di altissima qualità e di rimanere la strumentazione di
avanguardia e di riferimento per l’esplorazione del cosmo. Dalla banda radio a
quella X, essi hanno definito, e ancora lo fanno, lo stato dell’arte per quanto
riguarda l’astronomia osservativa. Tuttavia, non sarà così per sempre.
HST non ha più la possibilità di essere riparato o di aggiornare i suoi
strumenti; Chandra e XMMNewton questa possibilità non l’hanno mai avuta.
Speriamo quindi che possano continuare ad operare ancora a lungo con immutata
efficienza, ma non è garantito.
Il radiotelescopio VLA, in funzione a Socorro, nel New Mexico, ha ormai
raggiunto il limite delle sue capacità e, in un futuro non troppo remoto questo
succederà anche, nella finestra ottica, al VLT di Monte Paranal, che tuttavia
deve ancora beneficiare dell’installazione della strumentazione di terza
generazione. Dunque, perché sia possibile studiare in maggior dettaglio e
profondità l’universo e i suoi costituenti, sono necessari nuovi telescopi e
nuovi strumenti, più potenti, più sensibili, con prestazioni estreme.
Ci permetteranno di osservare ciò che ancora non si è riusciti a vedere – si
tratti della materia oscura o della superficie di qualche esopianeta – di
catturare dettagli che fino ad ora ci sono sfuggiti – siano questi il disco di
accrescimento intorno a un buco nero o i getti di materia accelerati quasi alla
velocità della luce – di studiare la formazione delle prime galassie e
l’accensione delle prime stelle. Ci permetteranno sia di approfondire quanto
già scoperto che di esplorare l’ignoto.
Alla scoperta dei telescopi del futuro
Quali saranno allora i telescopi che ci faranno sognare nei prossimi decenni? E
quando diventeranno disponibili? Uno è appena stato completato; si tratta dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter
Array (ALMA).
Frutto di una collaborazione
internazionale guidata da ESO (Europa), NRAO (Nord America) e NAOJ (Asia
Orientale) consiste di 66 antenne, situate sull’altipiano del Chajnantor in
Cile, che operano a frequenze comprese tra 350 micron e alcuni millimetri, tra l’infrarosso
e il radio.
Molti sono gli ambiti scientifici in cui ALMA ci ha già stupito, con immagini
dettagliate e profonde. Tra queste è particolarmente impressionante e
spettacolare la fotografia di un sistema protoplanetario, intorno alla stella
HL Tauri, in cui si possono riconoscere i solchi prodotti molto probabilmente
dai pianeti in formazione (nella configurazione e alla frequenza utilizzata,
ALMA raggiunge la risoluzione angolare di 35 millisecondi d’arco, meglio di
quanto riesca fare HST).
HL
Tauri dista 450 anni luce da noi e il suo disco protoplanetario ha un raggio di
circa 90 Unità Astronomiche (ben più grande del
nostro Sistema Solare, inteso sino a Plutone). Sensibilità, risoluzione angolare (e
spettrale) e una banda dello spettro elettromagnetico poco esplorata sono i
punti forti di ALMA.
Già pronto il successore di Hubble
Ancora in
costruzione, ma ormai prossimo a essere completato, è il James
Webb Space Telescope (JWST), successore di HST, che con il suo specchio primario
di 6,5 m di diametro opererà nell’infrarosso, tra 0,6 e 28 micron.
La data di lancio è fissata per il 2018. Il James Webb Space Telescope ha
avuto una storia travagliata ed è stato sul punto di essere cancellato, nel
2011, a causa dei ritardi nella sua realizzazione e soprattutto dei costi
lievitati in maniera spropositata.
Dai 500 milioni di
dollari del 1997 (quando il lancio era proposto per il 2007) si è passati a un
1,8 miliardi di dollari (nel 2000, con un lancio previsto per il 2009), poi a 3
miliardi nel 2005 (con lancio nel 2013) per arrivare agli 8,8 miliardi di dollari
attuali... La fase critica dovrebbe tuttavia essere stata superata e le
probabilità che il progetto
venga completato con successo sono molto alte, anche se sono possibili ulteriori
ritardi. I quattro temi scientifici principali che JWST affronterà sono: la fine
dell’età buia dell’universo, la prima luce e la re-ionizzazione; la formazione delle
galassie e la loro evoluzione sino ai tempi nostri; la nascita delle stelle e
dei sistemi protoplanetari; le proprietà fisiche e chimiche dei sistemi
planetari e la possibilità che supportino lo sviluppo di forme di vita. Il terzo telescopio
che ci farà sognare è l’European-Extremely Large Telescope dell’ESO
(E-ELT),
la cui costruzione è stata confermata di recente dai Paesi aderenti. Ma bisognerà attendere parecchio, almeno fino al 2024,
per vederlo in operazione.
Come tanti altri megaprogetti, è già
stato ridimensionato rispetto all’idea originale. Quando si passa da una “idea”
avveniristica, che esprime l’audacia e i desideri degli astronomi, a un’analisi
dettagliata degli aspetti pratici e delle criticità del progetto, studiando pesi,
dimensioni e soluzioni tecnologiche – e soprattutto confrontandosi con le
risorse disponibili – è quasi inevitabile una revisione al ribasso degli
obiettivi. E così OWL, l’Over Whelmingly Large
telescope (concepito con una apertura dello specchio primario
di 100 metri; costo stimato 1,5 miliardi di euro) è diventato prima un Extremely
Large Telescope di 42 metri, per poi assestarsi su un’apertura
di 39 metri di diametro (a un costo stimato di 1 miliardo di euro). Il fatto
che ESO abbia approvato l’intero programma, che abbia già iniziato a preparare
il sito ove verrà costruito (Cerro Armazones in Cile, non lontano da Cerro
Paranal), spianandone il picco a colpi di esplosivo, fa ben sperare per il mantenimento
della schedula. Anche E-ELT sarà in grado di stupirci in molti ambiti, dallo
studio dei pianeti extrasolari alla cosmologia, dalla fisica fondamentale a
quella degli oggetti più estremi, lavorando nella banda visibile, adiacente a
quella infrarossa di JWST.
Anche i radioastronomi
stanno lavorando a un progetto quanto mai ambizioso: lo Square
Kilometer Array (SKA),
un interferometro composto da molte migliaia di antenne, sparse su due
continenti, per una superficie complessiva di un chilometro quadrato che operano
a frequenze comprese tra 70 MHz e 10 GHz. Si tratta di una collaborazione internazionale
di 11 Paesi, aperta a nuove adesioni. Rispetto ai telescopi appena citati, lo
SKA è in una fase ben più preliminare e quindi è soggetto a maggiori incertezze
per quanto riguarda il suo sviluppo.
Basti dire che la sua costruzione, o meglio la costruzione di una prima parte dell’insieme
di antenne, dovrebbe iniziare solo nel 2018 (SKA è già stato diviso in due fasi
con l’intenzione di procedere – per ora – con la fase 1 che contempla un ridotto
numero di antenne e di frequenze operative). La seconda fase dovrebbe essere costruita successivamente all’entrata in
funzione (e alla verifica) della fase 1.
Anche lo SKA è un billion dollar
project con
un costo complessivo stimato in 1,7 miliardi di euro. Il
progetto è grandioso ed è una sfida
tecnologica soprattutto per quanto riguarda la
sua gestione.
Costruire le antenne non è particolarmente difficile e
neppure installarle nei deserti australiani e
sud-africani; alimentarle, connetterle con fibre ottiche a
banda larga, raccogliere, combinare e
processare i dati al ritmo con cui verranno
acquisiti sarà ben più impegnativo.
Lo SKA, una volta
completato, promette di avere una sensibilità 50 volte migliore del meglio
attualmente disponibile e una velocità di survey del
cielo mille volte migliore. Si tratterà di un radiotelescopio multi-purpose,
capace quindi, come JWST e E-ELT, di dare contributi risolutivi in molti campi
dell’astronomia, dell’astrofisica e della cosmologia, studiando i processi
fisici che danno origine alle onde radio. Immaginato nel 1991, SKA non sarà
completato prima della fine del prossimo decennio. Sempre che sopravviva a crisi economiche o politiche, a ridimensionamenti e a
ritardi. Lo vedremo mai all’opera nella sua pienezza? Non è di buon auspicio
che nel luglio 2014 la Germania, per voce del suo ministro della ricerca, abbia
anticipato l’intenzione di ritirarsi dal progetto, per mancanza di fondi.
E i successori di Chandra e XMM-Newton? Anche qui la storia si ripete con progetti grandiosi elaborati tanto negli Stati Uniti quanto in Europa già negli ultimi anni del secolo scorso e che poi sono stati riconsiderati. Inizialmente c’erano le proposte indipendenti di Constellation-X alla NASA (quattro specchi per un’area geometrica totale di 3 m2 a 1 keV, con calorimetro e grating per spettroscopia di alta risoluzione) e di XEUS all’ESA (5 m2 di area geometrica, risoluzione angolare migliore di 5”, lunghezza focale di 35 metri per una buona risposta alle alte energie, cosa che richiedeva che il modulo focalizzante – gli specchi – e il modulo dei rivelatori fossero separati e volassero “in formazione” per mantenere il secondo sempre nel piano focale del primo). I due progetti sono confluiti nel 2008 in uno unico, l’International X-ray Observatory (IXO: una collaborazione di NASA, ESA e JAXA) che è stato però abbandonato nel 2011.
Sulle ceneri di IXO,
in Europa il progetto è rinato con il nome di ATHENA missione approvata da ESA nel 2014 come seconda large
mission del programma Cosmic Vision,
con un’ipotesi di lancio nel 2028. Lancio che, in considerazione dei ritardi
che hanno sempre afflitto i programmi spaziali di questa portata e complessità,
molto probabilmente slitterà di alcuni anni.
Speriamo almeno che ATHENA arrivi a termine e che ci arrivi senza eccessivi
ridimensionamenti.
Gestazioni
estremamente lunghe, dunque, con le incertezze che ne conseguono. Sono i limiti della big
science, che permette sì di realizzare strumenti avveniristici dai costi talmente
elevati da essere sostenibili solamente con l’intervento congiunto dei governi
nazionali o di agenzie sovranazionali, ma che richiede decenni per preparare il
progetto, trovare le risorse finanziarie necessarie alla sua realizzazione, e
poi costruire e mettere in funzione lo strumento, realizzando così – finalmente
– l’idea, il sogno. XMM-Newton fu concepito nei primi anni ’80 del secolo
scorso; l’idea iniziale contemplava sette telescopi per raggi X di alta energia
e 20 di bassa energia. Nel 1988, quando la missione fu approvata, i sette telescopi erano diventati 3.
Fu messo in orbita alla fine
del 1999. I primi disegni per un telescopio spaziale (poi diventato l’Hubble
Space Telescope) risalgono addirittura alla seconda
metà degli anni ’60 del secolo scorso, a seguito di un’idea di Lyman Spitzer di vent’anni prima; il
diametro dello specchio primario era di 3 metri e il costo preventivato di
circa 500 milioni di dollari.
La costruzione tuttavia iniziò solo nel
1978, con una previsione di lancio per il 1983. Vari ritardi
portarono a riprogrammarlo per la fine del 1986. Quando HST fu messo in orbita
era il 1990; lo specchio era stato ridotto a 2,4 metri e il costo era lievitato
a più di 2,5 miliardi di dollari.
Tempo, perseveranza, e qualche compromesso. È quanto si deve pagare per trasformare i sogni in realtà. Sogni di una generazione, faticosamente realizzati (e nemmeno sempre) dalla successiva.
Tratto da Le Stelle n° 139