fbpx Un topo transgenico per studiare l’insonnia fatale familiare | Science in the net

Un topo transgenico per studiare l’insonnia fatale familiare

Primary tabs

Tempo di lettura: 4 mins

L’insonnia fatale familiare (FFI) è una rara malattia genetica dovuta alla mutazione del gene della proteina prionica (PrP) la cui forma alterata tende a formare aggregati che si accumulano all’interno dei neuroni portandoli alla morte. Dal punto di vista sintomatico i pazienti affetti da questa patologia, per la quale purtroppo non esiste ancora una cura, manifestano sudorazione continua, tremori, disturbi comportamentali, decadimento cognitivo e un rapido e inarrestabile dimagrimento, ma soprattutto l’impossibilità di prendere sonno proprio a causa della morte dei neuroni del talamo, una delle regioni del cervello deputate al controllo dei ritmi circadiani.

Ora c'è uno strumento in più per studiarla e comprenderne i meccanismi. Un gruppo di ricercatori italiani ha appena pubblicato sulla rivista PLOS Pathogens uno studio sullo sviluppo di un modello murino che ricapitola le caratteristiche fenotipiche e comportamentali della patologia. Il progetto, ideato e realizzato da Roberto Chiesa, del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano, è stato svolto grazie alla collaborazione con Fabrizio Tagliavini della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico “Carlo Besta”, esperto di malattie da prioni e con Luca Imeri del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano, esperto di sonno che ha eseguito i test elettroencefalografici sui topi transgenici per verificare se gli animali riproducevano correttamente le alterazioni del sonno caratteristiche della malattia umana.

I risultati degli esperimenti sui topi transgenici 

Inserendo nel topo transgenico il gene mutato i ricercatori hanno indotto la produzione della proteina PrP alterata dal punto di vista conformazionale. L’alterazione e la sua tendenza ad aggregare sono sufficienti a causare nel topo una malattia che ha le stesse caratteristiche della FFI umana tranne l’infettività.
Le malattie da prioni, di cui fa parte anche la malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD), l’analogo umano del morbo della mucca pazza, sono infatti considerate malattie infettive e la FFI non fa eccezione: benché sia una malattia genetica e quindi trasmissibile solo mediante ereditarietà, è stato sperimentalmente dimostrato che nel cervello dei pazienti si può formare un prione in grado di infettare animali da laboratorio sani. “I nostri risultati indicano che l’infettività e la patogenicità della proteina prionica mutata sono due aspetti dissociabili del prione” spiega Roberto Chiesa. “Nei nostri studi sulla proteina alterata prodotta dal topo transgenico FFI e dal modello murino CJD che abbiamo sviluppato in precedenza abbiamo scoperto che ciò che causa la degenerazione dei neuroni è una forma alterata dal punto di vista conformazionale della proteina che non necessariamente coincide con la forma infettiva. È come se della proteina prionica esistessero diverse forme: la forma normale che esiste nel cervello di tutti i mammiferi compreso l’uomo e di cui non è ancora ben chiara la funzione fisiologica – ma si ritiene possa essere coinvolta anche nella regolazione dei ritmi circadiani di sonno-veglia –, e le forme alterate che tendono ad aggregarsi. Alcuni degli aggregati sono tossici, altri sono anche infettivi, cioè sono in grado di propagarsi inducendo l’alterazione della proteina PrP normale.”
E aggiunge: “FFI e CJD condividono la stessa mutazione D178N ma presentano un diverso polimorfismo all’aminoacido 129. Questo polimorfismo influenza la tendenza ad aggregare delle PrP mutate e porta all’accumulo degli aggregati in compartimenti diversi all’interno della cellula. Abbiamo visto infatti che ciò che sembra causare la disfunzione neuronale e in ultima analisi la morte del neurone è l’accumulo delle proteine mutate nella via secretoria neuronale, per lo più nel reticolo endoplasmatico nel caso della malattia CJD, e principalmente nel Golgi per la FFI. Gli aggregati trattengono con sé le proteine con le quali interagiscono normalmente (ad esempio recettori e canali ionici) impedendo che possano raggiungere la loro corretta collocazione sulla membrana cellulare e creando così un grave danno al neurone.”

Nel modello murino di FFI l’espressione della proteina wild-type attenua il manifestarsi delle alterazioni del sonno. “Pensiamo che ci siano due componenti in questa malattia” spiega ancora il ricercatore “da un lato la proteina mutata perde la propria funzione fisiologica nella regolazione del sonno; dall’altro tende ad aggregarsi e misfoldare fino a diventare tossica e particolarmente dannosa per le regioni del cervello che controllano il sonno.”

E sottolinea: “Avere a disposizione un modello transgenico è fondamentale per capire i meccanismi patogenetici di queste malattie ma anche per testare potenziali terapie. Negli ultimi anni è infatti emerso che i prioni hanno la capacità di mutare e di eludere il trattamento farmacologico sviluppando una resistenza, perciò è importante testare l’efficacia delle nuove molecole nel più ampio spettro possibile di animali da laboratorio, che ancora oggi rappresentano l’unico modello che ci permetta di comprendere a fondo i meccanismi patogenetici dandoci la possibilità di analizzare gli effetti degli eventuali farmaci.”

 Lo studio è stato finanziato da Telethon, dal Ministero della Salute e da Fondazione Cariplo.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Discovered a New Carbon-Carbon Chemical Bond

A group of researchers from Hokkaido University has provided the first experimental evidence of the existence of a new type of chemical bond: the single-electron covalent bond, theorized by Linus Pauling in 1931 but never verified until now. Using derivatives of hexaarylethane (HPE), the scientists were able to stabilize this unusual bond between two carbon atoms and study it with spectroscopic techniques and X-ray diffraction. This discovery opens new perspectives in understanding bond chemistry and could lead to the development of new materials with innovative applications.

In the cover image: study of the sigma bond with X-ray diffraction. Credits: Yusuke Ishigaki

After nearly a year of review, on September 25, a study was published in Nature that has sparked a lot of discussion, especially among chemists. A group of researchers from Hokkaido University synthesized a molecule that experimentally demonstrated the existence of a new type of chemical bond, something that does not happen very often.