Quello dei giovani è il nodo
di gran lunga principale che l’università italiana deve sciogliere. E quello
dei giovani nell’università italiana è il nodo principale che il paese deve
sbrogliare.
Il nodo dei giovani
nell’università italiano è uno e trino. Riguarda infatti gli studenti, che
stanno rinunciando in massa a quella che viene chiamata “tertiary education”:
la formazione di terzo livello.
Secondo i dati dell’Anagrafe nazionale degli
studenti universitari elaborata dal MIUR, gli iscritti all’università dal 2010 a oggi
sono diminuiti di 163.544 unità. E se la frana al Centro e al Nord si è
arrestata, al Sud accelera. Con 45.000 iscritti in meno, il Mezzogiorno
d’Italia registra una vera e propria “fuga dall’università”.
Una seconda componente del
nodo riguarda i giovani che terminano gli studi universitari e si laureano.
Nel
2014 sono stati 258.052, 37.616 meno dell’anno precedente: un calo brusco del
12,7%. Brusco perché è la prima volta in anni recenti che i laureati
diminuiscono. Dovrebbe suonare un deciso campanello d’allarme, perché con il 22%
di laureati nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni, secondo il
rapporto Education at a Glance 2014
redatto dagli esperti dell’OECD, nel 2012 l’Italia figurava ultima tra i 27
paesi dell’Unione Europa e penultima tra i 40 paesi che fanno parte
dell’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico.
La distanza rispetto alla
media europea (37%) e OECD (40%) è enorme. Ma diventa addirittura abissale
rispetto ai paesi al top della
classifica. In Russia e Canada sono laureati, infatti, il 57% dei giovani; in
Giappone il 59% e in Corea del Sud, addirittura il 66%. C’è un gap cognitivo
tra i giovani italiani e i loro coetanei di altri paesi davvero allarmante.
Ma
la fuga dell’università e la diminuzione dei laureati ci dice che questo gap
invece di ridursi si va allargando. Così l’Italia si candida a restare fuori
dalla società e dall’economia della conoscenza.
La terza componente del primo
nodo è quella messa bene in luce dell’Associazione dei dottorandi italiani
(ADI). I giovani fanno fatica a entrare come docenti nell’università, mentre
gli anziani che lascino non vengono per la gran parte rimpiazzati. Il che
produce una riduzione netta del corpo docente. Il rischio, per molti versi
paradossale, è che, se vorremo rilanciare l’università, nel prossimo futuro
saremo costretti a importare docenti dall’estero. Il quadro che abbiamo è,
dunque, quello di un’università senza giovani: meno studenti, meno laureati,
meno giovani docenti.
Questa condizione non produce
solo un danno culturale: e non sarebbe davvero poco. Ma produce anche un danno
economico netto. Tangibile.
Oggi una parte importante
dell’economia mondiale – almeno la metà, forse i due terzi della ricchezza
prodotta ogni anno nel mondo è costituta da beni o servizi ad alto tasso di
conoscenza aggiunto. Insomma quella che Adam Smith chiamava “la ricchezza delle
nazioni” oggi è costituita soprattutto da “nuovo sapere”, in primo luogo (ma
non solo) scientifico.
Per produrre questo “nuovo
sapere” occorre un numero di ricercatori sempre più grande. E, infatti, Nel XX
secolo i ricercatori al mondo sono passati da meno di 100.000 a oltre 5
milioni. Nei primi anni del XXI secolo, secondo le analisi dell’UNESCO, il
numero è ulteriormente aumentato: oggi sono circa 7,5 milioni. Ci sono più
scienziati oggi della somma di tutti gli scienziati vissuti in epoche
precedenti.
Fare ricerca – come sosteneva
Vannevar Bush nel rapporto Science, the
Endless Frontier, considerato il manifesto della moderna politica della
scienza ma anche della moderna knowledge
economy, presentato nell’estate 1945 al suo nuovo presidente, Harry Truman
– è condizione essenziale per cambiare la specializzazione produttiva di un
sistema paese ed entrare nell’economia della conoscenza. L’Italia ha necessità
di cambiare la propria specializzazione produttiva, se vuole uscire dalla
spirale di declino in cui si è avvolta da almeno trent’anni. Dunque deve
investire di più in ricerca. Recuperando il ritardo rispetto ai paesi più
avanzati e passando progressivamente, ma rapidamente da una spesa sell’1,1% del
Prodotto interno lordo (PIL) ad almeno il 3%.
Tuttavia non basta aumentare
il budget. Per spendere in maniera produttiva quei soldi – ricordava Vannevar
Bush – occorrono anche cervelli in grado di farli fruttare. E i cervelli in
grado di farli fruttare si formano nelle università. Per averne in numero
sufficiente – per avere il meglio dei cervelli italiani – occorre estendere
l’universo dove li si ricerca. Occorre che all’università si iscriva, si laurei
e insegni il maggior numero di giovani possibile, tutti selezionati su un’unica
base: il merito. Che prescinde dalle classi e dalle regioni di provenienza.
Senza questo netto aumento del “numero di cervelli” al lavoro e senza questa selezione sulla base esclusiva del merito della giovane classe di ricercatori (e più in generale, di classe dirigente) di domani, l’Italia non uscirà dalla sua condizione di declino. Sembra una frase scontata: un luogo comune. Ma, con le premesse di cui sopra, non lo è affatto: senza i giovani l’Italia non ha futuro.
Servono giovani più allenati per vincere i bandi europei
Jean Pierre Bourguignon, presidente dell’European Research Council (ERC) in visita in Italia lo scorso marzo, ci aveva avvisato: “Voi italiani scrivete un sacco di progetti per l’ERC, ma pochi ce la fanno ad aggiudicarsi i grant”. Scorrendo le statistiche del più importante ente europeo di finanziamento della ricerca di eccellenza, le cose purtroppo stanno proprio così. La percentuale di domande dei nostri ricercatori, sul numero dei ricercatori, sono la più alte d’Europa, superando il 5% (Figura 1).
Ma il tasso di grant ottenuti (sempre sul numero di ricercatori) è fra i più bassi d’Europa, situandosi fra lo 0,1 e lo 0,2%, superiore solo al Portogallo e alla coda balcanica (Figura 2). Altro particolare, i non moltissimi ricercatori con passaporto italiano che vincono un grant, molto spesso lo realizzano all’estero, in università e centri di ricerca più attrezzati dei nostri. I centri italiani che ospitano grant ERC sono infatti stabilmente sotto quelli britannici, israeliani, olandesi, spagnoli e tedeschi.
Per questo non possono che essere accolte con favore le misure di potenziamento della capacità dei giovani ricercatori italiani di affrontare la sfida di un grant ERC, il cui tasso di successo si aggira intorno al 10%.
Figura 1
Figura 2
L’iniziativa più significativa in questo senso è costituita da una serie di bandi della Fondazione Cariplo, come il Bando Giovani. Mentre la seconda edizione del bando si è chiusa lo scorso aprile e le selezioni sono in corso, della prima edizione abbiamo già un panorama completo. Con complessivi 5 milioni di euro in palio, il bando ha selezionato progetti di ambito biomedico (sui meccanismi patogenetici) della durata di 2-3 anni con un importo massimo di 250.000 euro. Il bando copre il 100% dei costi della ricerca, dagli stipendi alle attrezzature ai collaboratori. E’ rivolto ai candidati agli starting grant (quindi ricercatori con un'esperienza dai 2 ai 7 anni dal dottorato) e ai consolidator grant (dai 7 ai 12 anni).
Come per i bandi ERC, i grant sono “portabili”, nel senso che teoricamente il ricercatore che se li aggiudica può “portare” il progetto” in un centro di ricerca diverso da quello in cui si è originata la domanda, se vengono meno i presupposti di sostegno al progetto di ricerca. L’ambito, come tutti i bandi Cariplo, riguarda la Lombardia e le provincie di Novara e di Verbania.
Ma ciò che più importa è lo spirito del bando, teso a rendere autonomo il (relativamente) giovane ricercatore dal suo supervisor. “Il legame con il supervisor può essere difficile da spezzare” spiega la vice responsabile dell’Area ricerca Fondazione Cariplo Diana Pozzoli, “e questo può avere conseguenza negative sulla carriera. Con questo bando chiediamo espressamente che il ricercatore si renda autonomo e finisca il progetto con una serie di lavori scientifici firmati da lui come responsabile, in fondo alla lista degli autori”.
Una volta rescisso il condone ombelicale con il “maestro”, la carriera progredisce più rapidamente, limiti della ricerca italiana permettendo. "Diciamo che è un modo per dare speranza ai giovani che si impegnano con tanto entusiasmo nella ricerca in Italia” commenta Pozzoli.
Che l’idea fosse indovinata lo dimostra il numero di ricercatori delle università e dei centri lombardi che hanno partecipato: 339, di cui 100 sono passati alla prima selezione dei peer reviewers ingaggiati da Fondazione Cariplo, e 20 si sono aggiudicati il grant.
I ricercatori (dai 32 ai 45 anni) fanno capo all’Università di Milano (5), Università Bicocca (2), Istituto Mario Negri (2), Humanitas (2), Istituto Nazionale di Genetica Molecolare (2), CNR (2), Università del Piemonte orientale (2), Università di Pavia (1), FIRC (1), e Fondazione Centro europeo di nanomedicina (1).
Obbligo dei vincitori dei grant - soprattutto a partire dal nuovo bando 2015 di cui si dovrebbero sapere i risultati a fine anno - è destinare parte dei fondi ricevuti anche per instaurare un dialogo con la società, disseminare la loro ricerca a un ambito più vasto della comunità dei ricercatori, come prevede la filosofia dell ricerca responsabile (RRI) abbracciata in pieno dalla Fondazione Cariplo.
Anche la capacità di raccontare al pubblico la propria ricerca verrà valutato (pari al 5% sulla valutazione complessiva).
Per vincere più ERC serve anche allenare meglio quei candidati che hanno mancato per un soffio la meta: cioè tutti coloro che pur non essendo riusciti ad aggiudicarsi il grant hanno ricevuto una buona valutazione (A o B) dai revisori ERC.
In molti paesi, come la Germania, i centri di ricerca di riferimento dei candidati finanziano comunque i loro progetti. Sarebbe infatti uno spreco lasciarli nel cassetto. In Italia, in linea generale, questo non avviene.
Ma dal 2012 la Regione Lombardia, insieme a Cariplo, ha concepito un bando (rafforzamento) che finanzia questi ricercatori migliorando le loro capacità di riaffrontare più avanti le nuove call di ERC. Un’altra misura del bando regionale (attrattività eccellenze) prevedono l’erogazione di fondi a quelle università lombarde che reclutano ricercatori - sia italiani sia stranieri - che abbiano vinto grant ERC altrove e che intendano portarli in Italia, a patto che abbiamo consumato meno della metà del budget previsto.
Infine un’ultima misura (nuove opportunità), letteralmente presa d’assalto, ha destinato 2,5 milioni di euro per formare i giovani ricercatori per affrontare il primo starting grant, attraverso il potenziamento dei grant office delle università e dei centri di ricerca.
In questo ultimo bando si è particolarmente distinta l’Università di Pavia, che ha attentamente selezionato i proprio ricercatori più promettenti, per prepararli alla sfida più difficile. Solo infatti con una sezione seria e con grant office efficienti è possibile rintuzzare l'osservazione del presidente dell’ERC. “L’italia? Tanti progetti, pochi risultati...”.