Il
sistema alimentare mondiale (World Food System nella letteratura
anglosassone) è da qualche anno al centro dell’attenzione da parte di
scienziati, economisti, giuristi e esperti di politica e relazioni
internazionali; restano tuttavia incerte le caratteristiche, i contenuti e il
significato stesso dell’espressione. In particolare, oggetto di studio e di
dibattito, oltre che la stessa definizione del sistema alimentare mondiale, è la sua capacità di soddisfare in futuro la domanda di cibo: così, in poco più di un decennio
sono stati formulate diecine di modelli matematici, di scenari e di simulazioni
per prevedere l’evoluzione della domanda e dell’offerta di cibo nel corso di
questo secolo[1].
Nel solo anno in corso sono stati organizzati due importanti convegni
internazionali sull’argomento: a Zurigo il convegno organizzato dal World Food System Center di Zurigo[2] e in questo mese di ottobre il Summit organizzato dalla Cornell University[3].
Con questo articolo, dopo alcune
osservazioni sulle attuali caratteristiche del sistema alimentare mondiale,
intendo soffermarmi sulle previsioni in merito alla sua capacità di soddisfare
la futura domanda di cibo, toccando due temi tra i più controversi,
l’agricoltura biologica e gli OGM; infine tratterò brevemente la triplice,
complessa relazione intercorrente tra sistema alimentare globale, ambiente e
cambiamento climatico.
Il sistema alimentare mondiale: un tentativo di ricostruzione
Il
sistema alimentare mondiale attuale è il risultato della globalizzazione[4]
e riguarda tutte le attività di produzione, trasformazione, trasporto,
distribuzione e consumo di prodotti alimentari.
È costituito dall’interconnessione di sistemi nazionali e
sovranazionali (l’Unione europea, il Nafta), di sistemi regionali e talvolta
anche locali.
Nell’ambito di questi sistemi operano società multinazionali,
imprese nazionali soggetti pubblici e soggetti privati – tra cui gli
agricoltori che costituiscono circa la metà della popolazione mondiale – e poi la
massa dei consumatori (anche se non tutti sono d’accordo nell’includere questa
categoria).
Tutti questi sistemi sono in continuo
cambiamento per adattarsi a eventi naturali, meteorologici e ambientali, a
eventi politici e bellici, e poi per tener conto delle previsioni demografici, per
adeguarsi alle politiche economiche e doganali, ai meccanismi fiscali,
istituzionali, normativi, per coordinarsi con le innovazioni tecnologiche e
infine per rispettare o indirizzare le preferenze dei consumatori.
Tutti questi sistemi risentono infine dell’andamento
di mercati collaterali dai quali la produzione e il trasporto di prodotti
alimentari dipende; primo fra tutti il mercato delle fonti energetiche: una
rilevante quota del costo di molti prodotti dipende dal petrolio; questo spiega
perché i prezzi delle principali coltivazioni, dopo anni di aumenti, stanno
diminuendo rapidamente[5].
Nonostante
ciò e nonostante la diversità e spesso la conflittualità degli interessi tra le
varie aree territoriali e tra i diversi attori pubblici e privati, il sistema alimentare mondiale si
è sinora mantenuto in uno stato di equilibrio fragile ma tutto sommato stabile[6]: così, non hanno provocato gravi
crisi né la crescita della
domanda di cibo determinata dall’aumento della popolazione negli ultimi 50 anni,
né la crescita dell’offerta di cibo per effetto della rivoluzione verde, né la
straordinaria espansione della rete di distribuzione di prodotti alimentari come
conseguenza della globalizzazione[7], né le
politiche di protezionismo e contenimento delle esportazione adottate in questi
ultimi anni da taluni paesi con pesanti conseguenze sui paesi importatori[8]; non ha
provocato gravi crisi neppure il formarsi in taluni settori (soprattutto
quelli della trasformazione agroindustriale) di forti concentrazioni
oligopolistiche in capo a operatori privati.
Il
sistema alimentare mondiale può apparire
così una sorprendente applicazione della smithiana teoria della mano
invisibile secondo la quale un mercato è in grado di autoregolarsi sulla base
delle iniziative dei singoli soggetti che vi operano: così eventi che si
producono, casualmente o per scelte istituzionali o di politica economica, in
uno dei sistemi nazionali vengono assorbiti dal sistema globale senza durature ripercussioni
negative negli altri.
In
realtà, a un esame appena più approfondito (cui peraltro possiamo solo
accennare in questa sede), ci si accorge che l’insieme delle relazioni e delle
interconnessioni del sistema alimentare è governato da una fitta rete di
disposizioni di varia natura.
A
un primo livello, più appariscenti, più noti e più studiati, ci sono i trattati
internazionali con norme vincolanti che provengono da organizzazioni
internazionali formalmente riconosciute (ONU, WTO, ILO, FAO, UNICEF, WIPO)[9].
Ci sono poi, in una progressione discendente dal pubblico e dalla trasparenza
al privato e all’opacità, organismi e agenzie creati dalle organizzazioni
internazionali (per esempio, l’IFAD Fondo Internazionale per lo Sviluppo
Agricolo, una istituzione finanziaria internazionale delle Nazioni Unite,
fondata nel 1977 e il PAM, Programma
Alimentare Mondiale, braccio operativo per gli aiuti alimentari delle Nazioni
Unite), poi organismi c.d. trans-statuali (transgovernmental)
che assemblano componenti di pubbliche amministrazioni statali, poi organismi a metà tra il pubblico e il privato
con compiti di cooperazione e sviluppo (per esempio l’Africa Biodiversity
Network), poi centinaia di Organizzazioni non governative (NGO) che operano nei
vari settori del sistema alimentare spesso con incarichi o finanziamenti degli
organismi internazionali, infine organismi privati che svolgono funzioni
pubbliche (per esempio Ashoka, un network di imprese che opera in diecine di
paesi allo scopo di introdurre pratiche innovative nell’agricoltura), tutti
costituiti talvolta in modo permanente, altre volte per affrontare specifici
problemi[10].
Non
è finita qui. Abbiamo poi accordi bilaterali o multilaterali riguardanti
specifici settori del sistema alimentare[11],
progetti finanziati da organizzazioni internazionali (che spesso impongono agli
stati nazionali destinatari di adeguare le proprie normative o le proprie
istituzioni), e poi raccomandazioni, indicazioni e
meccanismi di finanziamento (spesso accompagnati da clausole e impegni non
divulgati) provenienti non solo da grandi organizzazioni internazionali istituzionali ma
da un grande numero di istituzioni e organizzazioni non governative. Infine,
c’è una moltitudine di cartelli, accordi multilaterali e bilaterali, con
clausole e impegni non sempre noti ai non addetti ai lavori (e tantomeno alle
opinioni pubbliche dei paesi interessati)[12].
In
conclusione, il sistema alimentare mondiale, a prima vista governato dalle
regole di mercato (sostenuto da poche regole provenienti da trattati
internazionali) è, in realtà, immerso in una fitta e intricata rete di norme,
disposizioni, indicazioni, vincoli, clausole che si collocano in uno spazio
intermedio tra il pubblico e il privato.
È
una situazione che ha indubbiamente aspetti negativi: a un sistema di regole basato su fonti normative
(vincolanti o di soft law), trasparente e conoscibile da chiunque, si è andato
progressivamente sostituendo un sistema informe e opaco, tra la
trasparenza e la segretezza, tra gestione democratica e autoritaria degli
interessi generali e specifici dei vari settori che rientrano nel sistema
alimentare: l’aumento
del numero di protagonisti e di nuove tipologie di accordi e di norme ha
comportato l’ampliarsi, il diversificarsi e l’estendersi delle relazioni, delle
trattative, degli accordi sopranazionali che assumono forme e riguardano
contenuti nuovi e diversi da quelli tradizionali della comunità internazionale.
Ci sono però anche aspetti
positivi: infatti è proprio questa aggrovigliata rete che, pur con tutti
i suoi punti oscuri, ha offerto la linea di galleggiamento che finora ha
garantito la stabilità e l’efficienza del sistema.
A
proposito di efficienza, non vanno dimenticati i progressi nella lotta contro
la fame che questo sistema ha permesso di conseguire.
Ci
sono, certo, in questo anno 2015 ancora 700 milioni di individui in situazione
di povertà estrema (meno di 1,90 dollari al giorno) secondo le stime diffuse qualche giorno fa dalla Banca
Mondiale[13] e
molti di più vivono in condizioni di insicurezza alimentare.
Ma gli individui
in condizione di povertà estrema erano 800 milioni poco più di un anno fa, poco
più di 900 milioni nel 2012 e ben 1,9 miliardi nel 1990 (allorché il limite era
di 1 dollaro al giorno): tenendo conto dell’aumento della popolazione la
percentuale di persone sottonutriti è scesa in poco più di venti anni dal 18.7% al 9,6% su scala globale e dal 23.4% a poco più
del 12% nei paesi in via di sviluppo.
L’obiettivo del Millennium Development Goal – dimezzare la proporzione di individui sottonutriti nei paesi in via di sviluppo entro il 2015 – è quindi ormai a portata di mano e entro il 2030 potrà essere raggiunto il primo degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, denominato “Povertà Zero”[14].
Il Sistema alimentare mondiale sarà in grado di soddisfare la domanda di cibo in futuro?
Nel dibattito su questo argomento si
confrontano orientamenti diversi, determinati sia dalla difficoltà di formulare
previsioni in materia sociale e economica nel lungo periodo sia dalle differenti
impostazioni ideologiche dei partecipanti.
L’aumento della popolazione e il diffuso accrescimento
del benessere sono i due principali elementi dei quali si deve tenere conto.
La
popolazione mondiale passerà dagli attuali 7 miliardi a 8-10 miliardi nel 2050
(l’approssimazione dipende dalla difficoltà di prevedere fertilità e mortalità
nei decenni futuri, essendo entrambi fortemente influenzati da cause socio
economiche). È comunque certo che alla metà del secolo ci sarà almeno un
miliardo in più di persone e che l’aumento sarà quasi totalmente concentrato
nei paesi più poveri[15].
Per
nutrire la popolazione mondiale sarà necessario produrre molto più cibo. È
stato stimato che nei prossimi 40 anni, si dovrà produrre più cibo che in tutti
i passati 10.000 anni[16].
L’accrescersi
del benessere provoca lo
spostamento della domanda verso prodotti alimentari che richiedono un maggiore
consumo di territorio e di risorse idriche, e, in particolare, verso la carne. Il grafico elaborato dalla FAO illustra
l’aumento del consumo di carne in rapporto all’aumento della popolazione negli
ultimi cinquanta anni[17].
Secondo
dati del 2012, l’ammontare di carne prodotta nel mondo è passata da 70
milioni di
tonnellate nel 1961 a 278 milioni di tonnellate nel 2009: un aumento del 300% in 50 anni. La previsione
della FAO è di 460 milioni di tonnellate 2050, un ulteriore aumento del 40% in
40 anni.
Sulla base di questi due elementi, ci sono previsioni improntate a pessimismo:
secondo l’apocalittica previsione dei principali teorici del
neomalthusianesimo, il Club di Roma, l'incremento della popolazione e
il conseguente aumento di uso del suolo lanceranno "l'umanità verso un
mondo sconosciuto, in gran parte al di fuori di ogni controllo"[18].
Possiamo poi ricordare anche Frank
Rijsberman, direttore del Consultative
Group on International Agricultural Research (CGIAR), una prestigiosa organizzazione
internazionale che si dedica alla ricerca in materia di risorse alimentari,
secondo il quale “Con circa 80 milioni di
persone che si aggiungono alla popolazione mondiale ogni anno, l'agricoltura
non sarà in grado di sostenere la crescente domanda di cibo".
Fortunatamente, maggiore è il numero degli
ottimisti. Timothy Wise, direttore del centro sullo sviluppo sostenibile presso
la Tufts University e specialista nello sviluppo agricolo, secondo il quale sarà
sufficiente aumentare la produzione di cibo del 60% entro il 2050, obiettivo
ragionevolmente raggiungibile con adeguati investimenti, limitando l’espansione
dei biofuels, riducendo gli sprechi e
contenendo il cambiamento climatico, sicché “non
c’è nessun bisogno del produttivismo allarmistico che è oggetto di molte
proiezioni”[19].
Amartya
Sen, che già abbiamo ricordato, ha recentemente osservato (all’Expo di Milano)
che “la questione della produzione
alimentare è ampiamente esagerata. Nei decenni, la produzione è cresciuta molto
più della popolazione. E può crescere ancora. Ma il meccanismo attraverso cui
ciò può avvenire è economico: devono aumentare i redditi delle popolazioni, per
metterle in grado di comprare; ciò farebbe crescere i prezzi agricoli, darebbe
reddito ai coltivatori e si andrebbe verso una produzione maggiore e più ricca.
Non siamo di fronte a una crisi della produzione alimentare o all’impossibilità
di avere cibo”[20].
Tra gli ottimisti si è schierata, sia
pure con qualche cautela, anche la FAO che ha ripetutamente modificato le stime
che inizialmente richiedevano un raddoppio della produzione di cibo entro il
2050: dapprima ha ridotto l’aumento necessario al 70%[21],
poi, nel 2012 al 60% (l’aumento indicato anche da Wise)[22].
Queste indicazioni sono condivise anche dagli ultimi studi della Banca
Mondiale, che indicano la necessità di un aumento di almeno il 50% della
produzione di cibo nei prossimi 50 anni[23].
L’incremento della produzione necessario
entro il 2050 è quindi – secondo le previsioni più aggiornate - quasi dimezzato
rispetto alle previsioni di qualche anno fa.
In conclusione, è certamente vero che “The world food system faces unprecedented
challenges in its ability to feed a growing global population” come si
afferma nell’introduzione alla Conferenza di Zurigo cui abbiamo accennato.
Tuttavia, altrettanto
indubitabile è che "se vengono
approntati gli appropriati incentivi socio-economici, vi sono ancora degli ampi
gap produttivi ‘colmabili' (per esempio, le differenze tra la produzione
agro-ecologica ottenibile e quella effettiva) che possono essere sfruttati. Il
timore che la produzione agricola stia raggiungendo il suo tetto massimo non
sembra essere giustificato, se non in rarissimi casi particolari"[24].
Un sistema alimentare più sostenibile
Aumentare la produzione
agroalimentare per soddisfare la domanda futura è quindi un obiettivo raggiungibile.
In realtà, sarebbe un
obiettivo più facile da raggiungere se non vi fosse un limite che deve essere
necessariamente rispettato e cioè la sostenibilità
ambientale. L’aumento della produzione deve infatti essere realizzato con criteri di sostenibilità, quindi senza ridurre le foreste, le aree protette e
la residua biodiversità, che già saranno sottoposte a una forte pressione
dell’espansione urbana (destinata a aumentare in futuro)[25]. L’obiettivo in altri termini deve essere raggiunto preservando l’ambiente.
A
questo proposito il sistema alimentare mondiale può essere assimilato alle mani
dell’uomo nel noto aforisma
di Engels: le mani hanno creato gli strumenti di lavoro, ma gli strumenti
di lavoro hanno plasmato le mani dell’uomo[26]. Così, se l’ambiente in cui viviamo ha creato
nel corso dei millenni il nostro cibo e continua a crearlo e a modellarne la
produzione, per converso il cibo di cui ci nutriamo e il sistema alimentare costruito
per produrlo hanno creato e continuano a creare e a modificare il nostro
ambiente. Questo significa che le modifiche indotte nell’ambiente dalle
modalità prescelte per produrre i nostri alimenti incidono poi sul nostro
sistema alimentare e, se attuate senza rispettare criteri di sostenibilità,
rischiano di creare danni potenzialmente irreversibili.
Questo
rapporto di reciproca continua interattività tra sistema alimentare e
ambiente comporta che in futuro le
esigenze di preservazione dell’ambiente imporranno modifiche al sistema
alimentare e, nel contempo, l’ambiente potrà a sua volta essere modificato e
alterato dalle scelte che vengono oggi compiute per soddisfare la domanda
futura di cibo.
Se
si vogliono evitare pericolose alterazioni in questo processo di interazione è
quindi necessario soddisfare la crescente domanda di cibo preservando
l’ambiente e quindi, in particolare, le aree non ancora trasformate
dall’utilizzazione urbana, industriale o agricola.
L’obiettivo di aumentare
la quantità di prodotti alimentari che giungono ai consumatori finali deve
quindi essere realizzato combinando due diverse strategie: da un lato aumentare la produttività delle
aree che già hanno queste destinazioni, d’altro lato ridurre la quantità di prodotti alimentari che sono quotidianamente
sprecati.
agricoltura biologica e OGM
Non mi soffermo
sull’argomento del contenimento degli sprechi, limitandomi a osservare che uno degli aspetti che spesso
sono trascurati è la differenza delle cause
dello spreco tra paesi sviluppati e paesi poveri. Nei primi, dove i dati sono
più attendibili, esso avviene per la maggior parte ad opera dei consumatori e
quindi a valle della catena del sistema alimentare (nell’Unione europea sono
sprecati annualmente oltre 100 milioni di tonnellate di prodotti alimentari[27]); nei secondi, invece, si
verifica nella fase del raccolto o immediatamente successiva per la mancanza di
mezzi e strumenti per la conservazione e il trasporto: anche per questo i dati
sono maggiormente approssimativi[28]. Mi soffermo brevemente
invece sull’altro aspetto, quello dell’aumento della produttività.
Per raggiungere questo
obiettivo è opinione diffusa tra tutti gli esperti che sarà necessario un
deciso aumento degli investimenti nel sistema alimentare e specificatamente
nell’agricoltura e nelle tecnologie collegate (tra il 1980 e il 2005 gli
investimenti in questi settori si sono progressivamente ridotti. Da allora, la
tendenza si è invertita, anche se restano assai bassi nei paesi in via di
sviluppo)[29].
In quanto nel dibattito sul futuro dell’agricoltura
e sulla capacità del sistema alimentare globale di nutrire la popolazione nel
XXI secolo occupano uno spazio di rilievo due temi: l’agricoltura biologica e
gli OGM.
A. La maggior parte degli esperti del
sistema alimentare globale esclude che l’aumento della produttività necessario
rispettando l’ambiente possa realizzarsi utilizzando coltivazioni biologiche:
rinunciando ai benefici e alle innovazioni introdotte dalla Rivoluzione verde e
in continuo sviluppo si otterrebbe non un aumento ma una diminuzione della
produttività. Secondo l’opinione più diffusa, l’agricoltura biologica resta un
prodotto di nicchia, destinato quindi a soddisfare un piccolo segmento di
consumatori.
Negli ultimi anni queste conclusioni sono
state contestate: molte organizzazioni di produttori di cibo biologico e molte associazioni
ambientaliste hanno infatti affermato che l’agricoltura biologica potrebbe
soddisfare la futura domanda di cibo, provocando meno danni all’ambiente
dell’agricoltura tradizionale[30].
A sostegno di questa affermazioni viene spesso
citato un recente studio, le cui conclusioni sono però riportate in modo
parziale. Lo studio, pubblicato negli atti della Royal Society, dopo aver
premesso che attualmente la differenza di produttività dell’agricoltura
biologica rispetto all’agricoltura convenzionale è mediamente quasi del 20%,
conclude che il gap potrebbe
ulteriormente ridursi nei prossimi anni o addirittura annullarsi; precisa
tuttavia che ciò potrebbe avvenire per
talune coltivazioni e in alcune regioni e sempreché vi
siano adeguati investimenti nella ricerca[31].
Quindi, questa ricerca pone in realtà in
evidenza che l’ipotesi di affidarsi all’agricoltura biologica come strumento
per soddisfare la futura domanda di cibo resta difficilmente realizzabile: è
stato calcolato che per ottenere i medesimi risultati attualmente ottenuti con
l’agricoltura convenzionale sarebbe attualmente necessario destinare
all’agricoltura biologica negli Stati Uniti un area aggiuntiva di oltre 7
milioni di ettari (più della metà dell’intero territorio coltivato in Italia):
soluzione non immaginabile per gli Stati Uniti e ancora meno su scala mondiale[32].
B. Deve invece essere invece oggetto di maggiore
valutazione, tenuto conto del perdurante conflitto in corso, se sia necessario utilizzare le coltivazioni
GM per ottenere l’aumento della produttività necessario, oppure se questi
obiettivi potranno essere raggiunti senza che le coltivazioni GM assumano un
ruolo determinante. In realtà, il fabbisogno di cibo nel
mondo è già oggi soddisfatto anche mediante coltivazioni GM.
Nel
2014 gli ettari coltivati a GM nel mondo sono stati 181 milioni: un incremento di oltre cento
volte rispetto a venti anni prima[33]. Oggi le coltivazioni
biotech riguardano 18 milioni di coltivatori in 28 paesi. Nel 70% degli
alimenti in commercio nel mondo sono presenti uno o più ingredienti che
contengono GM. Tra l’altro, è ormai affidata a coltivazioni GM la
maggior parte della produzione di mangimi e cibo per animali (in proposito, in
Europa è importato il 95% della soia utilizzata per mangimi, e quasi l’80%
della soia extraeuropea è GM). Quindi, per sostenere la crescente domanda di
carne (un punto su cui torneremo tra breve), sarà certamente necessario un
ulteriore incremento delle coltivazioni GM nel mondo. Una ipotetica messa al bando delle coltivazioni GM nel mondo non solo
non consentirebbe di raggiungere l’obiettivo di soddisfare la domanda di cibo
nel futuro, ma non consentirebbe neppure il soddisfacimento della domanda
attuale.
Molti affermano che le coltivazioni GM avrebbero
esaurito la loro capacità di espansione, sicché sarebbe altamente rischioso
confidare in questa tecnologia in futuro.
Non è così. Oltre alle numerose varietà già presenti
sul mercato (alcune delle quali, come la papaya GM, hanno consentito al frutto
di sopravvivere all’estinzione in talune regioni[34]), molte sono in fase di
avanzata sperimentazione o in attesa di superare tutte le verifiche stabilite
dai vari organismi. Tuttavia, la forte opposizione all’utilizzazione di
prodotti agricoli GM ha provocato un enorme aumento dei costi e dei tempi
necessari per poterli immettere sul mercato. È un’opposizione che, contrariamente
a quanto si pensa, non è sgradita alle poche multinazionali in grado di
affrontare gli ingenti investimenti e i tempi necessari per portare un singolo
prodotto sul mercato. Infatti, in questo modo
l’accesso al mercato è precluso a diecine di piccole imprese che pure
avrebbero capacità e preparazione tecnologica necessaria ad alto contenuto tecnologico nel
settore ed è paradossalmente garantito proprio
dagli oppositori l’oligopolio oggi esistente.
La troisième roue o il terzo incomodo: il cambiamento climatico
Si
è detto che il sistema alimentare globale dovrà quindi in futuro mantenersi in
equilibrio perseguendo i due obiettivi dell’aumento della produttività e della
riduzione degli sprechi: in questo modo potrà soddisfare la domanda futura preservando
l’ambiente.
Tuttavia,
in questo ingranaggio di fragile equilibrio interattivo si è da alcuni anni
inserito un terzo incomodo, o usando
l’espressione francese più adatta a questo caso, une troisième roue, una
terza ruota: il cambiamento climatico, un fenomeno che, come l’evoluzione del
sistema alimentare, è oggetto, ormai da più di venti anni, di stime e
sofisticati modelli per prevederne gli effetti sull’ambiente e sulle attività
umane. Ma passare in un ingranaggio da
due a tre ruote crea dei problemi.
Il
cambiamento climatico infatti intreccia a sua volta con l’ambiente e con il
sistema alimentare rapporti riconducibili all’aforisma di Engels: l’ambiente,
come trasformato dall’attività umana, modifica il clima e crea il cambiamento
climatico; a sua volta, il cambiamento climatico modifica l’ambiente. E, allo
stesso modo, nell’altro rapporto di questo triangolo, il sistema alimentare modifica
il clima ma, nello stesso tempo, il cambiamento climatico impone modifiche nel
sistema alimentare. Soffermiamoci
brevemente su questi ultimi aspetti.
Secondo
l’IPCC, nel 2010 tra il 20% e il 25% delle emissioni a livello globale sono
attribuibili all’agricoltura, alle attività forestali e ai mutamenti delle
destinazioni del suolo connessi[35].
Secondo un
precedente importante studio della FAO, l’allevamento genera il 18% delle
emissioni globali di GHG, ma altri studi indicano cifre assai più alte[36]. Sono percentuali che, aggregate,
superano quelle dei combustibili fossili.
Il
sistema alimentare è quindi una delle cause più importanti del cambiamento
climatico e, senza adeguati correttivi, lo sarà in misura sempre più massiccia
per effetto non solo dell’accrescersi della popolazione, ma anche del
diffondersi di situazioni di relativamente maggior benessere in paesi
precedentemente poveri e del mutare delle abitudini e delle propensioni
alimentari che ciò produce (su cui ci siamo soffermati sopra).
D’altro
canto, l’aspetto positivo di queste elevate emissioni del settore
agrozootecnico è che offrono ampie possibilità di interventi per ridurre e
mitigare l’impatto.
L’esempio
dell’Unione europea è in proposito illuminante: nel periodo 1990–2005 le emissioni agricole totali
dell’UE sono diminuite del 20 % grazie a cambiamenti nelle tecniche di
coltivazione, alla diminuzione dell’uso di fertilizzanti nitrogeni (e anche
alla minor quantità di bestiame complessivamente allevato).
Importanti
effetti di mitigazione ha ottenuto anche a livello globale il diffondersi di
coltivazioni OGM che hanno permesso di ottenere
una rilevante riduzione dell’uso di pesticidi, antiparassitari e altri prodotti
chimici che contribuiscono in modo rilevante al cambiamento climatico.
Ma,
come abbiamo visto, il rapporto tra sistema alimentare è cambiamento climatico
è bilaterale: così il cambiamento climatico e non solo il prodotto (anche) del
sistema alimentare, ma è anche la causa di
importanti modifiche nella produzione di cibo.
Molti sono gli studi che si sono
dedicati a formulare previsioni sugli effetti del cambiamento climatico
sull’agricoltura, per lo più giungendo ad una conclusione condivisa[37].
L’aumento
della temperatura produrrà un impatto negativo sulla produzione agricola nelle regioni
equatoriali e tropicali; avrà invece effetti positivi in aree lontane dall’Equatore, sia perché potranno
essere coltivate specie oggi diffuse nelle regioni più meridionali, sia perché
potrà aumentare la produttività delle coltivazioni esistenti. Alcuni studi
ipotizzano che potranno ridursi mediamente del 10% le coltivazioni più diffuse
a basse latitudini, mentre potranno aumentare della stessa percentuale le
coltivazioni diffuse a latitudini medie e medio-alte
C’è
un bellissimo libro di una giornalista scientifica americana, Elisabeth
Kolbert, The Sixth Extinction, che
mostra gli effetti del cambiamento climatico che già si stanno verificando nel
mondo; per esempio, nelle regioni montuose del Peru, a causa del cambiamento
climatico molte specie di alberi si spostano di anno in anno verso l’alto,
abbandonando zone non più climaticamente adatte. Lo stesso accade al sistema
alimentare, su scala planetaria, per effetto del cambiamento climatico: il
movimento non è verso l’alto ma verso latitudini più alte.
A
prima vista, può sembrare che, su scala globale, il sistema alimentare potrà
mantenere il suo fragile equilibrio: ciò che si ridurrà nelle aree divenute
troppo calde si recupererà nelle aree che diverranno meno fredde. I danni
provocati dal cambiamento climatico in alcune aree saranno compensate dai
benefici che ne trarranno altre aree.
Ma
questa rassicurante conclusione che alcuni studi propongono non tiene conto del
fatto che l’aumento della produttività agricola si verificherà in aree non
densamente popolate e in parte già sviluppate (Nord Europa), mentre la
riduzione della produzione alimentare si verificherà nelle aree più povere del
pianeta, proprio dove si verificherà l’aumento della popolazione nei prossimi
decenni, con conseguenze di carattere geopolitico, economico e umanitario di
vasta portata: in particolare, ci sarà un forte aumento dei rifugiati
ambientali (categoria peraltro ancora non riconosciuta a livello
internazionale) che, secondo stime delle Nazioni Unite e del rapporto Stern,
potrebbero superare i 200 milioni di persone entro il 2050[38].
C’è
solo da aggiungere che l’ondata migratoria oggi in atto, sia pur provocata da
eventi estemporanei (quali la guerra in Siria e le drammatiche condizioni
dell’Eritrea) è stata preannunciata nel 2005 da un centro studi delle Nazioni
Unite (UN University’s Institute for
Environmental and Human Security) allorché ha avvertito che la comunità
internazionale avrebbe dovuto prepararsi a ricevere almeno 50 milioni di
rifugiati ambientali nel 2010 (il solo processo di desertificazione in Africa
produce, secondo questo studio, diecine di milioni di rifugiati ogni anno)[39].
Conclusioni
Il
complicato rapporto di reciproca interattività del sistema alimentare globale
con l’ambiente non solo è rimasto stabile negli anni della globalizzazione, ma
ha anche permesso di ridurre l’enorme numero delle persone affamate nel mondo.
La prospettiva di continuare a garantire
la domanda globale di cibo e di ridurre ulteriormente la quantità di persone
sottonutrite in futuro è, come abbiamo visto, ragionevole secondo molti
studiosi del settore e secondo la stessa FAO.
Tuttavia,
Il cambiamento climatico può alterare in profondità l’attuale equilibrio. Anche
le stime cui abbiamo accennato, che ipotizzano riduzioni nelle aree tropicale e
equatoriali compensate da aumenti della produzione nelle aree più vicine ai
poli si basano pur sempre su un aumento
della temperatura non superiore a 2° C entro la fine del secolo, cioè sull’aumento
massimo della temperatura terrestre che IPCC ha indicato come obiettivo della
comunità internazionale per evitare alterazioni imprevedibili e potenzialmente
catastrofiche all’ambiente, e quindi al sistema alimentare mondiale.
È
questo l’obiettivo che dovrebbe essere stabilito a Parigi
dalla COP21 delle parti della Convenzione quadro sul cambiamento
climatico ottenendo l’adesione di tutti
i maggiori produttori di gas serra. Gli
impegni che proprio in queste ultime settimane stanno assumendo la Cina (alla
quale è attribuibile la metà della crescita globale delle emissioni di anidride
carbonica in atmosfera dal 2002 al 2012)[40]
e l’India (terzo produttore di gas serra nel mondo, ma con un sistema
alimentare assai vulnerabile da aumenti della temperatura)[41]
e l’esito delle recentissime elezioni in Canada (dove ha vinto il partito che
sostiene la necessità di introdurre regole vincolanti per la riduzione del
cambiamento climatico) inducono a essere cautamente ottimisti, anche se gli
impegni assunti sono ancora lontani dal garantire il rispetto, a livello
globale, del limite dell’aumento di 2°C.
Se
la COP21 dovesse concludersi senza seri impegni vincolanti e se quindi
risultasse chiaro che l’obiettivo indicato dal IPCC non potrà essere
rispettato, la terza ruota, il cambiamento climatico, potrà produrre effetti
imprevedibili sull’equilibrio di sistema alimentare e ambiente nel prossimo
futuro. È importante quindi assumere sin d’ora iniziative che impongano ai
Governi, anche senza un accordo internazionale, di operare per rispettare le
indicazioni dell’IPCC.
A
questo proposito va sostenuta la
proposta di formulata al Vertice ONU sul Clima sul Alleanza
Mondiale per l'Agricoltura Intelligente, consistente in una coalizione
di stakeholder tra cui governi, agricoltori, produttori, trasformatori e rivenditori
di cibo; organizzazioni scientifiche ed accademiche; attori della società
civile; agenzie multilaterali e internazionali e settore privato, con il
compito di promuovere iniziative per il contenimento del cambiamento climatico.
n.d.r Il testo pubblicato è parte dell'intervento di Stefano Nespor nel corso del convegno "Nutrire il pianeta? Il ruolo dell’Europa nello sviluppo economico e alimentare mondiale", Ferrara 23 ottobre 2015
[1] A.F. McCalla – C.L.Revoredo, Prospects for global food security: a critical appraisal of past projections and predictions, in Food, agriculture, and the environment discussion paper 35, International Food Policy Research Institute, Washington, DC 2001.
[2] La conferenza è stata introdotta dalla seguente presentazione: “The world food system faces unprecedented challenges in its ability to feed a growing global population. There is an urgent need for viable solutions and the scope of the challenges requires collaborative efforts more than ever”: http://wfsconference2015.org/
[3] Il tema del Summit: Implications of Taking a Systems Approach. Where Industry, Technology, and Academia merge to focus on dynamic and innovative approaches to global food systems. Si veda https://ipp.cifs.cornell.edu/news-events/cornell-food-systems-global-summit
[4] Kym Anderson, Globalization's effects on world agricultural trade, 1960–2050 in Charles H.Godfray e altri, Food security: feeding the world in 2050, Philosophical Transactions B, Royal Society n.365 vol.365 2010. Questo volume pubblicato dalla Royal Society contiene numerosi saggi sui temi qui trattati e a essi farò spesso riferimento. Il saggio di Anderson è reperibile in http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/3007
[5] Vedi Oily Food, in The Economist 10\10\2015
[6] È stata denunciata la fragilità del sistema alimentare globale allorché si verificò nel 2008 un aumento dei prezzi del grano e del riso creando panico e disordini in varie città africane: vedi Michael J Puma ed altri, Assessing the evolving fragility of the global food system, in Environmental Research Letters, 2015. Tuttavia, proprio le interconnessioni del sistema alimentare globale permisero di risolvere rapidamente la crisi, allorché il Giappone acconsentì a porre sul mercato ingenti quantità di riso tratte dalle proprie riserve. Si veda anche Oxfam International, Growing a better future, https://www.oxfam.org/en/growing-better-future.
[7] Uno degli effetti della globalizzazione è stato l’enorme incremento della circolazione e del trasporto di cibo (semi, piante, animali) e di materie prime connesse (fertilizzanti, pesticidi, prodotti chimici, farmaceutici e sanitari e strumenti per la conservazione e il confezionamento dei prodotti). Una ricerca dell’Università del Minnesota ha ricostruito la composizione e l’origine di un normale cheeseburger: ci sono oltre 50 diversi ingredienti che provengono da paesi dislocati su ogni continente, escluso l’Artico: vedi Will Hueston- Anni McLeod, Overview Of The Global Food System: Changes Over Time/Space And Lessons For Future Food Safety in Improving Food Safety Through a One Health Approach, Institute of Medicine, Washington 2012. Un altro effetto della globalizzazione è l’enorme espansione della distribuzione di prodotti freschi provenienti da mercati in precedenza marginali: il fenomeno è stato già segnalato nel 1994 da Philip McMichael, Agro-Food System Restructuring: Unity in the Diversity, pag.12, in Philip McMichael (a cura di), The Global Restructuring of Agro-food Systems, Cornell University Press, N.Y. 1994.
[8] Nel 2007, allorché i prezzi dei prodotti agricoli hanno cominciato a salire, l’India ha ristretto le esportazioni di riso per contenere i prezzi e agevolare la popolazione. Questo ha provocato problemi nei paesi importatori di riso indiano, in particolare il Bangladesh. Analoghe restrizioni all’esportazione di riso sono state adottate da Cina e Vietnam e queste politiche, secondo la World Bank, hanno pesantemente inciso sulla quotazione internazionale del riso: vedi Oly Food in The Economist, cit.
[9] Basti ricordare gli Accordi in materia presso il WTO: l’Agreement on Agriculture, l’Agreement on Sanitary and Phytosanitary Measures - SPS e l’Agreement on Technical Barriers to Trade -TBT
[10] Per una approfondita analisi e una rassegna di tutti questi organi internazionali si veda Sabino Cassese e altri (a cura di), Global Administrative Casebook, 3° ediz., Institute for International Law, N.Y. 2012
[11]È il caso del cartello dell’International Coffe Agreement - ICO stipulato nel 1962 tra paesi produttori e paesi consumatori e, salvo un breve intervallo, periodicamente rinnovato Vedi la pagina ufficiale: www.ico.org/. per esempio, per il riso l’accordo tra Unione europea e paesi dell’America centrale (regolamento Ue n. 924/2013 prevede un contingente tariffario annuo di 20.000 tonnellate di riso in esenzione del dazio a favore dei paesi dell'America Centrale); per le banane c’è un accordo tra Unione europea e alcuni paesi africani e caraibici che ha stabilito un regime preferenziale per l’importazione di banane (duramente contestato dagli Stati Uniti che hanno portato la questione al WTO).
[12] Molte cessioni in uso di vasti territori a scopo di coltivazione ad altri Stati (sono i casi del c.d. land-grabbing) sono spesso disposte con contratti tra il Governo dello stato cedente e quello dello Stato cessionario (o sue ramificazioni) con clausole e modalità di pagamento che restano ignote.
[13] Vedi la notizia sul Corriere della sera del 6 ottobre2015
[14]www.agenda-2030.com/; https://sustainabledevelopment.un.org/post2015/transformingourworld. Non va dimenticato inoltre che la fame non viene dalla mancanza di cibo ma dalla povertà, come ha insegnato l’economista indiano premio Nobel Amartya Sen: a decidere se una persona mangerà o meno non è la quantità di pane che c’è sullo scaffale del negozio, ma quella di denaro in fondo alle sue tasche. E la povertà dipende da molti fattori: le guerre, la disuguaglianza e la mancanza di meccanismi di inclusione, le discriminazioni sociali, le discriminazioni contro le donne, l’accesso all’istruzione.
[15] Wolfgang Lutz, KC Samir, Dimensions of global population projections: what do we know about future population trends and structures? con richiami e riferimenti in Godfray e altri, cit., http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/2779
[16] Barbarians at the gate, in The Economist, 3\1\2015.
[17] Sulla c.d. transizione nutrizionale verso cibi a base di carne si veda J. Kearney, Food consumption trends and drivers in Godfray e altri, cit. http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/2793.
[18] Limits to Growth, 2012.
[19] Timothy A. Wise, Can We Feed the World in 2050? A Scoping Paper to Assess the Evidence, in www.ase.tufts.edu/gdae/policy_research/FeedWorld2050.html
[21] World Food Summit, Declaration of the World Summit on Food Security 1, n.1 in www.fao.org/fileadmin/temp lates/wsfs/Summit/Docs/Final Declaration/WSFS09 Declaration.pdf.
[22] nello stesso senso anche Nikos Alexandratos and Jelle Bruinsma, World Agriculture Towards 2030/2050 The 2012 Revision ESA Working Paper No. 12-03, Roma.
[24] N. Alexandratos e J. Bruinsma, World agriculture towards 2030/2050: the 2012 revision, ESA Working paper No. 12-03. FAO, Roma 2012. È stato calcolato che l’obiettivo sarebbe raggiunto con un aumento della produttività globale complessiva di circa 1,5% all’anno dei cereali più diffusi. È un obiettivo raggiungibile, se si tiene conto che attualmente gli aumenti sono: 0.9% per il frumento, 1% per il riso e 1,6% per il mais.
[25]secondo la World Bank, nelle aree urbane o urbanizzate vive attualmente il 53% della popolazione mondiale, con una punta del 80% nei paesi OECD: http://data.worldbank.org/topic/urban-development
[26]La frase è tratta da un articolo scritto probabilmente nel maggio-giugno del 1876, pubblicato per la prima volta solo vent’anni dopo, nel 1896, sulla rivista Die Neue Zeit.
[27] Si vedano i dati in http://ec.europa.eu/food/safety/food_waste/index_en.htm
[28] Julian Parfitt, Mark Barthel, Sarah Macnaughton, Food waste within food supply chains: quantification and potential for change to 2050 in Charles H.Godfray, cit., http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/3065
[29] How to feed the world, in The Economist 19\11\2009
[30] La tesi è esposta in numerosi siti rintracciabili con Google. Si veda, per esempio, Worldwatch Institute, Can Organic Farming Feed Us All?, 22\9\2015, www.worldwatch.org/node/4060
[31] Lauren Ponisio e altri, Diversification practices reduce organic to conventional yield gap, 10\12\2014, in The Royal Society, Proceedings B gennaio 2015 http://rspb.royalsocietypublishing.org/content/282/1799/20141396. Gli autori concludono che “appropriate investment in agroecological research to improve organic management systems could greatly reduce or eliminate the yield gap for some crops or regions”. Lo studio è stato ampiamente citato anche dalla stampa non specializzata. Tra i molti si veda Tom Bawden, Organic farming can feed the world if done right, scientists claim, The Independent 14\12\2014 http://www.independent.co.uk/environment/organic-farming-can-feed-the-world-if-done-right-scientists-claim-9913651.html; Can Organic Food Feed the World? In Wall Street Journal 12\7\2015 http://www.wsj.com/articles/can-organic-food-feed-the-world-1436757046
[32]Il dato è stato fornito dal National Agricultural Statistics Service nel 2011: si veda Steve Savage in Can Organic Food Feed the World? In Wall Street Journal 12\7\2015 http://www.wsj.com/articles/can-organic-food-feed-the-world-1436757046
[33] Si tratta di un record nell’introduzione di nuove tecnologie nell’agricoltura: Gurdev S. Khush, Genetically Modified Crops: The Fastest Adopted Crop Technology in the History of Modern Agriculture, in Agriculture & Food Security 1, 2, 2012). L’aumento più consistente nel periodo più recente si è verificato in India: si è passati da 50.000 ettari coltivati a cotone GMO nel 2002 a 7,7 milioni di ettari nel 2014 coltivati da 11.6 milioni di piccoli coltivatori: un aumento di oltre 230 volte. Nel 2014, il Bangladesh si è aggiunto al numero dei paesi che ammettono le coltivazioni biotech, avendo approvato la coltivazione di una melanzana adattata alla coltivazione in zone particolarmente umide (BT brinjaul eggplant) I dati sono tratti da ISAAA, Brief 49-2014: Executive Summary. L’International Service for the Acquisition of Agribiotech Applications (ISAA) è un network con tre sedi in Nairobi, Kenya, Cornell University, NY, e Los Banos Filippine (si vedano i programmi e gli obiettivi in www.isaaa.org/programs/default.asp). Si veda anche MARGARET ROSSO GROSSMAN, Genetic Technology and Food Security, in The American Journal of Comparative Law, 62, 2013.
[34] Sulla vicenda della papaya hawaiiana si veda per esempioTom Callis, Papaya: A GMO success story in Hawaii Tribune Herald 10\6\2013 http://hawaiitribune-herald.com/sections/news/local-news/papaya-gmo-succ...
[35] G. Blanco e altri, Section 5.3.5.4: Agriculture, Forestry, Other Land Use, in: Chapter 5: Drivers, Trends and Mitigation (archived 30 December 2014), in: IPCC AR5 WG3 2014, p. 383.
[36] Henning Steinfeld ed altri, Livestock long Shadow. Environmental Issues and Options, FAO, 2006, http://www.fao.org/docrep/010/a0701e/a0701e00.HTM. L’allevamento di bestiame contribuisce oggi al cambiamento climatico in una percentuale che varia tra il 6% e il 32%, a seconda degli elementi e delle variabili che vengono presi in considerazione: solo le emissioni direttamente prodotte dal bestiame o il totale delle emissioni provocate dall’intero ciclo produttivo a partire dalle coltivazioni agricole necessarie e quindi la produzione di pesticidi e fertilizzanti, e le opere agricole connesse.
[37] Si veda l’articolo riassuntivo di Jemma Gornall e altri, Implications of climate change for agricultural productivity in the early twenty-first century, in Godfray e altri, cit. http://rstb.royalsocietypublishing.org/content/365/1554/2973; molti dati interessanti sono in Ewert F. e altri, Future scenarios of European agricultural land use: Estimating changes in crop productivity in Agric. Ecosyst. Environment. pag. 107, 2005 http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0167880904003627
[38] Sono stime contenute nella Stern Review on the Economics of Climate Change, www.wwf.se/source.php/1169157/Stern%20Report_Exec%20Summary.pdf
[39]Bisogna ricordare che nell’ottobre 2012 la Svizzera e la Norvegia hanno promosso l’iniziativa Nansen, per sviluppare un programma di protezione dei profughi nei casi legati al cambiamento climatico.
[40] Vedi sintetici riassunti e valutazioni in www.rinnovabili.it/ambiente/cambiamento-climatico-impegno-cina-333/; www.greenreport.it/news/clima/lotta-al-cambiamento-climatico-il-piano-na...