Dichiarare un’emergenza è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve pur fare. Davanti a una possibile grave minaccia alla salute pubblica internazionale, seppure con poche certezze scientifiche tra le mani, qualcuno deve prendersi la responsabilità di schiacciare tempestivamente il pulsante che attiva una catena di risposte coordinate (dalla cooperazione tra i governi alla produzione di farmaci e vaccini), e accettare così il rischio di dare un falso allarme. Oppure può decidere di aspettare di saperne di più, con la consapevolezza che in questo modo però si potrebbe arrivare troppo tardi. Davanti alla diffusione del virus zika in America Latina, per la terza volta almeno, negli ultimi anni, il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità, Margaret Chan, si è trovata davanti a quel pulsante, senza che gli esperti potessero fornirle risposte certe alle domande più importanti.
L’emergenza non è per l’infezione
L’incertezza è comune, al manifestarsi di una nuova minaccia infettiva, di cui per definizione si conosce poco. Zika però non è un nuovo virus emergente, come quello H1N1 responsabile della suina, l’H5N1 dell’aviaria, quello della SARS o della MERS. È noto agli esperti da almeno 50 anni, anche se nessuno si è mai preoccupato di studiarlo (figuriamoci investire su un vaccino!) per il fatto che è sempre apparso sostanzialmente innocuo: l’infezione si risolve con una settimana di febbre non troppo alta, dolori articolari, macchie sulla pelle. Ben altri erano i problemi da affrontare con i magri finanziamenti messi a disposizione per lo studio delle malattie tropicali neglette.
A convincere i 18 membri del Comitato di emergenza che occorre alzare il livello di allarme non è quindi la diffusione, per quanto definita “esplosiva”, del virus, quanto la concomitante segnalazione, da parte delle autorità brasiliane, di un numero sospetto di malformazioni e complicazioni neurologiche, ancora tutto da chiarire. È contro questa possibile implicazione che gli esperti mettono in guardia, non contro l’infezione in sé che, dopo aver colpito sicuramente più di un milione di persone in oltre 23 paesi, solo nell’ultimo anno, non ha provocato nemmeno una vittima, né casi gravi degni di rilievo.
«After a review of the evidence, the Committee advised that the recent cluster of microcephaly cases and other neurological disorders reported in Brazil, following a similar cluster in French Polynesia in 2014, constitutes an “extraordinary event” and a public health threat to other parts of the world» ha dichiarato Margaret Chan il primo febbraio, precisando quindi che l’emergenza di sanità pubblica di interesse internazionale (Public Health Emergency of International Concern, in sigla PHEIC) riguarda la rapida crescita nel numero di casi di microcefalia e di disturbi neurologici, in particolare la sindrome di Guillain Barrè, non l’infezione da zika. Secondo gli esperti convocati da Chan, l’associazione nello spazio e nel tempo tra il fenomeno e l’epidemia è fortemente sospetto, ma nessuno è ancora in grado di confermare che davvero un aumento significativo dei casi di microcefalia si sia verificato in Brasile, né che sia stato provocato dal virus.
I dubbi di chi getta acqua sul fuoco
Le ragioni di chi avanza dei dubbi sono ben motivate. Prima di tutto la microcefalia non è una malformazione specifica, ma il segno di uno scarso sviluppo del cervello e del cranio che può avere diverse cause. L’unico modo per definirla è tautologico: si parla di microcefalia quando la circonferenza del cranio è inferiore al terzo percentile. In altre parole, su una popolazione di riferimento di cento bambini, solo 3 hanno un valore uguale o inferiore a questo, da cui si deduce che in ogni Paese ci si dovrebbe aspettare che circa il 3 per cento dei neonati presenti questa anomalia.
Su circa 3 milioni di bambini che nascono ogni anno in Brasile, quindi, il numero di coloro che presentano microcefalia al momento del parto dovrebbe aggirarsi sui 90.000: molti più dei 3.500 circa di cui si parla come possibili conseguenze dell’infezione. La microcefalia inoltre spesso non provoca gravi conseguenze, neppure sullo sviluppo neurologico, per cui difficilmente viene segnalata nei registri delle malformazioni, perfino in paesi più avanzati del Brasile da questo punto di vista. Il dato di partenza, su cui si calcola l’aumento di venti volte di cui si parla in questi giorni, è perciò molto poco affidabile. Lo sarebbe probabilmente anche negli Stati Uniti o in Europa. Da quando è stato ipotizzato un legame con l’infezione, al contrario, la sorveglianza si è fatta più attenta, e tutti i casi sono segnalati con cura. Gli esperti lo chiamano “bias di conferma”.
Infine, il fatto che durante la gravidanza la mamma abbia contratto zika è davvero poco significativo, vista la diffusione della malattia in questi mesi. Sarebbe come associare un’anomalia al fatto che una donna ha avuto il raffreddore in gravidanza: probabilmente è capitato quasi a tutte, ma questo di per sé significa poco.
La precauzione è d’obbligo
Più preoccupante è stato il riscontro del virus nel liquido amniotico di sei donne e nel tessuto cerebrale di due bambini deceduti per una forma grave di microcefalia e sottoposti ad autopsia: un dato di cui tenere conto, perché dimostra la capacità del virus di passare la barriera placentare, ma che è ancora poco per parlare di un rapporto di causa ed effetto.
Nella famiglia a cui appartiene zika non ci sono virus che tipicamente provocano malformazioni nel feto, come fa per esempio quello della rosolia, ma alcuni che provocano encefalite sì. Sebbene ancora manchi la prova della pistola fumante, la precauzione è quindi d’obbligo. La posta in gioco potrebbe essere la salute di centinaia di migliaia di bambini che nasceranno nei prossimi mesi in America Latina, ma anche in altre zone temperate, se l’infezione continuerà la sua corsa.
Uno sforzo globale per fermarla è quindi più che giustificato, soprattutto sostenendo i Paesi colpiti nelle campagne di disinfestazione contro le zanzare, invitando le persone a proteggersi il più possibile dalle punture, consigliando prudenza alle donne che intendono iniziare una gravidanza, rimandandola o astenendosi, se possibile, dal viaggiare in quelle zone.
Giustamente invece l’Organizzazione mondiale della sanità non sconsiglia i viaggi in generale, provvedimento che metterebbe in ulteriore difficoltà i Paesi colpiti, soprattutto in vista delle Olimpiadi di Brasile 2016. Il rischio in questione, al di fuori di una gravidanza possibile o in corso, è inferiore a quello di molte altre malattie, non ultima l’influenza H1N1 che, al contrario di zika, sta provocando vittime in tutto il mondo, Brasile compreso.
Il rischio è diverso da come lo sentiamo
La percezione del rischio legato a zika però, è molto più elevata. Colpa solo dei media, che si sono buttati sull’argomento? No. La scienza della comunicazione del rischio insegna che ognuno di noi percepisce un pericolo in maniera maggiore o minore in relazione a fattori che hanno poco a che fare con le probabilità statistiche di una conseguenza negativa. In questo caso la percezione del rischio è amplificata dal fatto che la minaccia è esotica, ed è rivolta soprattutto ai più deboli, i nascituri. L’incertezza di cui è circondata la vera entità della minaccia, infine, invece di rappresentare un correttivo all’ansia, ce la fa sentire come più insidiosa di un’influenza che, per quanto molto più aggressiva, consideriamo familiare e di cui pensiamo di sapere tutto.
Comunicare questa incertezza all’inizio di un’epidemia è sempre difficile. Non perché le autorità non ci provino: in tutti i comunicati si ribadisce che mancano ancora prove scientifiche del legame tra zika e microcefalia, e che tutti i provvedimenti si basano su un principio di precauzione. Ma questo non basta. Se, come c’è da sperare, l’associazione sarà smentita, l’OMS rischia di essere nuovamente sospettata, come nel caso della pandemia del 2009, di aver gettato benzina sul fuoco, a vantaggio dell’industria farmaceutica che si appresta a cercare un vaccino. Già alcuni blogger complottisti stanno avanzando teorie alternative a sostegno di questa tesi.
D’altra parte, se l’Agenzia avesse temporeggiato in attesa di conferme scientifiche, sarebbe stata accusata di non aver imparato la lezione dell’epidemia di ebola in Africa occidentale, dove il ritardo dell’intervento internazionale costò la vita a migliaia di persone ed ebbe un impatto terribile sull’economia e la società dei Paesi colpiti. Sia la scelta di intervenire, in un caso, sia quella di attendere, nell’altro, furono considerate gravi errori che minarono la reputazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e la fiducia del pubblico nelle istituzioni sanitarie.
Strette tra queste due opposte critiche, l’Agenzia internazionale ha deciso questa volta di rischiare per eccesso di precauzione, piuttosto che essere accusata di una trascuratezza che potrebbe provocare un impatto enorme, se zika si diffondesse con la stessa facilità anche ad altre aree estese del pianeta, segnando una generazione, in una sorta di caso talidomide elevato all’ennesima potenza.
Anche il fatto che il rischio di zika sia sopravvalutato tuttavia potrebbe avere gravi conseguenze, e non solo quelle economiche su Paesi, come quelli caraibici, che fondano buona parte del loro PIL sul turismo. Come ha messo in luce il progetto TELL ME sulla comunicazione in caso di epidemie, quando queste sono “esotiche” il rischio di stigma e discriminazione per chi ha origine dalle aree colpite o ne è in qualche modo legato è sempre in agguato; come sottolinea il progetto ASSET, che mira a sensibilizzare tutte le parti in causa sulle implicazioni sociali delle epidemie stesse, l’epidemia di zika colpisce in particolare il genere femminile, e la gravidanza, aspetti, questi, troppo spesso trascurati nella ricerca infettivologica.
Infine, ogni epidemia porta con sé questioni etiche, che spesso riguardano la limitazione della libertà personale, per esempio per quanto riguarda la quarantena. In questo caso le implicazioni di un eventuale falso allarme potrebbero anche essere più gravi: la paura di dare alla luce bambini con malformazioni, in Paesi in cui la contraccezione è poco diffusa, potrebbe indurre una corsa alle interruzioni di gravidanza. Sebbene Paesi come la Colombia abbiano già esplicitamente incluso l’infezione da zika tra le condizioni che autorizzano a praticare l’intervento legalmente, le possibilità di accedervi sono limitate ed è lecito temere quindi che un’impennata di aborti clandestini, in condizioni poco sicure, potrebbero provocare più vittime del tanto temuto virus zika.