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L’Università del Sud alla deriva

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I giornali lo presentano come l’anno della svolta. Dopo dieci anni di flessione costante (- 20%), le iscrizioni all’università dei giovani italiani tornano ad aumentare (+3,2%). Il dato è parziale. Intanto perché non sono ufficiali e vidimati, ma riguardano solo 70 atenei, tra pubblici e privati, che hanno risposto alla domanda del quotidiano La Repubblica. Ma anche a prenderlo per buono, più che di una svolta saremmo di fronte a una timida ripresina. E poi perché, anche così, nasconde molte ombre. Prima tra tutte il fatto che – pur con le significative eccezioni del Politecnico di Bari (+19,2%) e dell’università di Catania (+11,4%) –  tutte le università che continuano a perdere iscritti sono nel Mezzogiorno d’Italia. 

La forbice dell’istruzione superiore tra il Nord e il Sud del paese si va, dunque, ulteriormente allargando. Ed è una forbice enorme in un paese che pure è ultimo assoluto tra i 40 paesi dell’OECD. 

Il calo certificato degli iscritti nell’anno accademico 2014/15 rispetto al 2003/04, anche se generale è infatti molto differenziato: se immatricolazioni al Nord sono diminuite dell’11,0% e al Centro del 23,7%, nel Sud continentale hanno subito una perdita del 25,5% e nelle Isole addirittura del 30,2%. 

Giovani meridionali in fuga

Se in questi dozzina di anni i giovani del Nord hanno disertato le università, al Sud si sono messi in fuga. Anzi, a ben vedere, quella dei giovani meridionali è una doppia fuga: dagli studi, ma anche dagli atenei del Sud. Tra i giovani meridionali che nel 2014 comunque si sono iscritti all’università, infatti, uno su quattro – il 25,4% del Mezzogiorno continentale e il 25,0% delle Isole – ha scelto un ateneo fuori dalla propria regione (Dati SVIMEZ). Contro il 9,0% dei giovani del Centro, l’8,8% dei giovani del Nord-Est e l’8,0% dei giovani del Nord-Ovest. La gran parte della massiccia migrazione studentesca meridionale è stata verso le università del Centro e del Nord.

Ma a migrare sono anche i giovani che una laurea l’hanno già. Se, infatti, tra il 2001 al 2013, il saldo netto delle migrazioni complessive dal Mezzogiorno è stato fortemente negativo (-708.100), ben 494.000 (il 69,8%) sono state di età compresa tra i 15 e i 34 anni. A lasciare il Sud vede sono stati soprattutto i giovani. E tra loro quelli con la laurea sono stati ben 188.000: il 38,1% dei giovani e il 26,5% del totale dei migranti meridionali avevano la laurea.

Riassumendo. I giovani del Sud si iscrivono sempre meno all’università. Tra coloro che si iscrivono, moltissimi lo fanno in università del Centro e del Nord. E tra quelli che si laureano moltissimi emigrano. È evidente, il Mezzogiorno si sta giocando la sua futura classe dirigente e il suo sviluppo economico.

Meccanismi premiali con quattro soldi

Di recente la Fondazione RES ha pubblicato un rapporto, Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud, in cui il problema è analizzato in dettaglio. Proviamo a riassumerlo. Da molti anni l’università italiana è in crisi. Si tratta di una crisi strutturale. Economia. Lo stato investe in istruzione di terzo livello 7 miliardi di euro l’anno, con il cosiddetto Fondo di Finanziamento Ordinario (FFO). La Germania di miliardi nell’università ne investe  26. Una differenza umiliante.

Che diventa ancora più marcata se ci riferiamo al Mezzogiorno. Si infatti la spesa media per abitante in Germania è di 332 euro l’anno, in Francia di 305, in Spagna di 157, nel Centro-Nord è di 117 mentre nel Sud è di appena 99 euro.

A partire dal 2009 la spesa pubblica italiana nell’università è divisa in una “quota base”e in una “quota premiale”. La prima quota, quella base, è passata dai 6,7 miliardi del 2008 ai 4,9 del 2015. Mentre in quest’ultimo anno la quota “premiale”è salita al 20% (quasi 1,4 miliardi di euro in termini assoluti). Una percentuale che non ha pari nell’Europa continentale.  

Nello stesso tempo la spesa complessiva per l’università in Italia è diminuita. I combinato disposto dei tagli e delle due quote ha fatto sì che gli atenei del Nord perdessero, tra il 2008 e il 2015, il 4,3% del loro finanziamento pubblico, ma quelle del Sud il 12,0% e ancor più quelli delle Isole.

Analogo andamento si registra per i docenti. Tra il 2008 e il 2015 le università italiano hanno perso il 17,2% del proprio corpo docente (contro il 4% circa fatta registrare dal personale della Pubblica Amministrazione). Ma le differenze tra le diverse aree del paese sono state marcate: a fronte di una perdita dell’11,3% al Nord, se ne registra una del 18,3% al Sud e del 21,8% al Centro. A questo punto, sostiene il rapporto RES, il numero di studenti per docente si è alterato: se nel Nord c’è un professore ogni 28,6 studenti, al Sud ce n’è uno ogni 32,4. Analoga forbice per gli amministrativi. Nel 2013 ogni docente al Nord poteva contare su 1,5 collaboratori, ma solo 1,1 al Centro e 1,05 al Sud.

Ma torniamo agli studenti. I giovani di età compresa tra 19 e 34 anni che si laureano nel Mezzogiorno d’Italia non arrivano al 18%, quasi dieci punti in Meno che nel Centro-Nord; la metà della media europea; meno di un terzo della media della Corea del Sud. Il Mezzogiorno ha uno dei tassi di laureati tra i giovani più bassi d’Europa. 

Uno dei motivi è certo quello economico. Benché il Sud sia meno ricco del Nord e del Centro, i suoi giovani sono meno aiutati dallo stato negli studi universitari. Anche quando ne avrebbero diritto. Nel 2013/14 solo il 60% degli idonei nel Sud continentale ha beneficiato di una borsa di studio e appena il 40% nelle Isole. La percentuale è risultata prossima al 90% nel Nord. In media uno studente meridionale può ambire a una borsa di studio e/o a un alloggio in una casa per lo studente che è la metà di quella cui può ambire un collega del Centro-Nord. 

Non meraviglia, in queste condizioni, né che il tempo medio per conseguire la laurea triennale sia di 4,5 anni al Settentrione e di 5,5 al Meridione; né che li studenti che abbandonano l’università dopo l’iscrizione siano il 12,6% al Nord; il 15,1% al Centro e il 17,5% al Sud (con punte fino al 25%). 

In serie B

Potremmo continuare. Ma è già possibile sentire le obiezioni. Di cosa si lamentano al Sud: le loro università sono, in media, peggiori che nel resto del paese. Vero, lo dimostrano molti indicatori. Fatta, per esempio, la media degli abilitati per ateneo nel recente concorso, l’80% delle università del Nord risulta sopra questa media, contro il 37% di quelle del Centro e solo il 23% di quelle del Sud. Ma è anche vero che tra gli abilitati del Nord il 57% ha preso servizio, contro il 44% del Centro e il 49% del Mezzogiorno.

Sia come sia, sostengono gli estensori del rapporto RES, non solo si sta creando una differenziazione “verticale” tra le università italiane: un fenomeno da molti giudicato positivo. Ma il guaio è che l’eccellenza (la “serie A”) è tutta concentrata nel triangolo Milano, Bologna, Venezia, con estensioni fino a Torino, Trento e Udine; mentre tutto il resto del paese sta precipitando in “serie B”.

La questione, a questo punto, diventa squisitamente politica. Può il paese permettersi di avere un terzo, la metà e finanche i due terzi che gioca nella “serie B” della società della conoscenza? A risentirne non è l’economia e la vita civile dell’intera nazione? Può, in particolare, il Mezzogiorno rinunciare a qualificare i suoi giovani e mettere una valigia nelle mani dei pochi che qualifica? 

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