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La Cina si avvicina: i grandi passi in avanti del nuovo gigante della ricerca

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Lo scorso 17 dicembre la Cina ha lanciato nello spazio il satellite Wukong (il Re delle Scimmie, dal nome del guerriero protagonista di un’antica fiaba). Il suo nome, per così dire, scientifico è Dark Matter Particle Explorer (DAMPE) e la sua missione è dare la caccia a quella materia oscura di cui non conosciamo la natura ma che (pare) costituisce l’85% di tutta la materia cosmica.  

Alla conquista dello spazio

Wukong non è che il pioniere di una serie di satelliti che l’Accademia Cinese delle Scienze intende lanciare per portare a termine quel Progetto Prioritario Strategico di Scienza dello Spazio varato, con il beneplacito del governo, nel 2011. Un programma importante che manifesta l’intenzione della Cina: diventare protagonista della ricerca scientifica nel cosmo. Potremmo citare altri casi, per dimostrare che la Cina vuole diventare (sta diventando) un gigante in grado di competere con USA ed Europa anche nel campo della scienza di base. Per esempio il progetto JUNO, che prevede la creazione entro il 2020 in un nuovo e gigantesco laboratorio sotterraneo per la ricerca dei neutrini nel sud della Cina, nella provincia di Guangdong, a 43 Km dalla città di Kaiping.

I numeri del gigante 

Ma nulla meglio dei numeri ci fornisce una chiara indicazione di quello che sta succedendo in Cina e, di conseguenza, nella geografia globale della ricerca. Per esempio i numeri resi pubblici dall’americana National Science Foundation (NSF) con il recente rapporto Science and Engineering Indicators 2016. Proviamo a riassumerli. Con 340 miliardi di dollari (calcolati a parità di potere di acquisto della moneta), la Cina ha raggiunto gli investimenti in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S) dell’intera Europa e ora è seconda solo agli Stati Uniti. Anche in termini relativi, col 2,1% rispetto al PIL (Prodotto interno Lordo), la Cina ha raggiunto e superato l’Europa e non è molto lontana dagli Stati Uniti (2,7%).

Ma è il ritmo di crescita a destare impressione. Come documenta la NSF, gli investimenti cinesi in R&S nel periodo 2003-2013 sono cresciuti al ritmo del 19,5% annuo. Più del doppio del ritmo di crescita del PIL. La velocità di crescita dell’intensità degli investimenti è rimasta sostanzialmente costante sia nel periodo della grande crisi economica mondiale (che ha solo sfiorato la Cina) sia negli ultimi anni, nel corso dei quali la crescita del PIL ha rallentato passando da oltre il 10% a poco meno del 7% annuo. Il che indica, come vedremo, una chiara intenzione: diventare leader al mondo nell’economia della conoscenza. Il medesimo obiettivo (per ora fallito) che l’Unione Europea si era dato nell’anno 2000. 

Leader dell'export di prodotti hi-tech

In ambito industriale (produzione di beni ad alto valore di conoscenza aggiunto) la Cina è già sulla buona strada. Le sue industrie hi-tech sono responsabili, ormai, del 29% del PIL cinese. E generano il 27% della produzione mondiale di beni hi-tech, preceduti ancora di poco solo dalle industrie USA, che rappresentano il 29% della manifattura hi-tech del pianeta. Ma poiché la gran parte della produzione americana è per il grosso mercato interno, già oggi la Cina è il massimo esportatore al mondo di beni ad alta intensità di conoscenza.

Nei servizi hi-tech le performance cinesi sono meno brillanti, ma in ogni caso anche in questo settore la Cina è terza, dopo Stati Uniti e Unione Europea, avendo superato il Giappone.

Leader nella formazione scientifica

Che non si tratti di una situazione contingente, lo dimostrano i numeri relativi a un settore collegato alla produzione ad alta intensità di conoscenza: la formazione. Tra il 2000 e il 2012 il numero di laureati in scienza o ingegneria in Cina è aumentato del 300%. E addirittura del 1000% nelle materia non scientifiche o tecniche. Segno che si tratta di un’espansione che riguarda tutto l’universo culturale. Così oggi nel paese del Dragone il 49% di tutti i laureati (laurea di primo livello) è specializzato in materia scientifiche o in ingegneria (contro il 33% dei laureati negli Stati Uniti). Ciò fa sì che oggi la Cina, con meno del 20% della popolazione mondiale, vanti il 23% dei 6 milioni di giovani al mondo laureati in materia scientifiche o tecniche, contro il 12% degli Europei e il 9% degli Stati Uniti.

Su questi giovani la Cina intende costruire il suo futuro di paese leader al mondo nell’economia della conoscenza. Il 13° Piano quinquennale approvato di recente dal Congresso del Partito Comunista ha definito l’obiettivo per il 2020: aumentare l’intensità degli investimenti in R&S fino al 2,5%. E ha anche individuato le principali piste di ricerca da percorrere: la già citata esplorazione dello spazio profondo; la comunicazione e la computazione quantistiche; il cervello; la sicurezza nazionale nel cyberspazio; l’uso efficiente e pulito del carbone; la robotica industriale, medica e militare; le applicazioni delle scienze genetiche; le applicazioni nel settore dei big data; l’esplorazione sottomarina più profonda; la creazione di una stazione antartica e di un osservatorio artico.

I gap da recupearare: ricerca di base e qualità della ricerca

Molti sottolineano il fatto che gli investimenti cinesi in R&S riguardano più le scienze applicate e lo sviluppo tecnologico che non la scienza di base o curiosity-driven, che è il vero motore dell’innovazione. Tuttavia la Cina ha iniziato a investire anche in ricerca di base – come dimostrano i progetti DAMPE e JUNO – e potrebbe recuperare, almeno in parte, il terreno che ancora la separa da Europa e Stati Uniti. La difficoltà maggiore sta nel tasso di internazionalizzazione. La scienza curiosity-driven, specie la “big science”, richiede grande collaborazione a scala globale. Una collaborazione che, per quanto cercata da Pechino, non è ancora fluida come in Occidente.

Inoltre c’è il tema della qualità della ricerca. Anche da questo punto di vista la Cina ha molto terreno da recuperare. La ricerca scientifica cinese impegna 1,5 milioni di ricercatori (la più grande comunità scientifica nazionale al mondo) e si svolge in 211 università (di cui 100 scelte e 39 chiave) e in 333 Key State National Laboratories. La produzione scientifica è, per quantità, notevole: nel 2014 gli scienziati cinesi hanno pubblicato 438.601 articoli in riviste censite da SCImago, non molto meno dei loro colleghi americani (494.790), ma molto più dei terzi classificati, gli inglesi (141.425). Ma la quantità non è ancora qualità. Se il numero di citazioni per articolo è un indice affidabile di qualità, per esempio, allora il cammino dei cinesi è ancora lungo. Nel 2014 gli articoli di ricercatori inglesi, infatti, hanno avuto un numero medio di citazioni di 0,69; quelli dei ricercatori Usa 0,64, quelli degli italiani 0,65, mentre quelli dei cinesi si sono fermato a 0,34.  Ma anche in termini qualitativi la Cina è in forte recupero. Se nel 2014 il rapporto era 1:2 (una citazione cinese ogni due europee/nordamericane per articolo); nel decennio 2004-2014 era di 1:3 e nel ventennio 1996-2014 era di 1:4 se non addirittura 1:5. Anche in termini di qualità, la scienza cinese è in rapido e forte recupero.  

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