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Le leggi e i vaccini

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Negli ultimi due mesi una serie di eventi hanno riacceso il dibattito tra leggi e vaccini, ovvero le decisioni dei tribunali circa la loro sicurezza e quelle riguardanti possibili azioni disciplinari verso i medici contrari alle vaccinazioni, temi che ho affrontato nel mio recente libro Chi ha paura dei vaccini? (Codice Edizioni 2016), che qui riporto per sommi capi.

Le sentenze contra scientiam

Tribunale di Rimini 2012, Trani 2014, Milano 2014 e tre settimane fa il TAR della Sicilia: quattro sentenze in sei anni (in media una ogni anno e mezzo) che stabiliscono una relazione tra vaccini e autismo in contrasto con ogni evidenza scientifica. A ciò si aggiunga che nel caso di Rimini la Corte d'Appello di Bologna ha ribaltato la sentenza nel 2015, che la procura di Trani l’ha archiviata più di un mese fa, ma anche che nel caso di Milano il Ministero della Salute - seppur guidato da un ministro che si è meritevolmente distinto nel sostegno ai vaccini - pur avendo presentato ricorso, non lo ha fatto nei termini prestabiliti e dovrà quindi versare un vitalizio bimestrale alla famiglia che ha sporto denuncia. Purtroppo, questi fatti ricordano drammaticamente le decisioni contraddittorie che i giudici prendevano durante il caso Stamina, negando o permettendo la somministrazione in ospedali pubblici di un cosiddetto “trattamento terapeutico” che l’Agenzia Regolatoria AIFA, i Carabinieri del NAS e gli scienziati italiani e stranieri (compreso un premio Nobel) avevano dimostrato, prove alla mano, essere fasullo. Evidentemente, il nostro Paese ha qualche problema nei rapporti tra scienza, politica e magistratura. Soprattutto, viene da chiedersi: perché queste cose accadono in Italia e non all’estero? La risposta è che negli altri Paesi si dà maggior rilevanza alle procedure basate sui fatti, alle competenze, e, non ultimo, i politici si mostrano più reattivi verso le questioni scientifiche. Negli USA, ad esempio, i tribunali valutano le testimonianze di esperti in tribunale (i nostri CTU) non in base all’autorevolezza del perito, né in base a liste di consulenti tecnici spesso stilate senza un principio di competenza come avviene in Italia, bensì in base a una procedura, nota come “standard Daubert” che ritiene validi come prove legali solo ipotesi ed esperimenti che siano controllabili e falsificabili (testabili empiricamente), che siano basati su una solida letteratura di settore (peer review), nei quali sia noto il tasso di errore, che siano disegnati con procedure di controllo di riferimento, nonché su teorie e tecniche accettate da una comunità scientifica internazionale. Con queste regole, ad esempio, un giudice italiano non potrebbe accettare la relazione autismo-vaccini. Un altro caso è quello di Inghilterra e Germania che, pur non disponendo di simili procedure, fanno ampio uso di consulenti scientifici (science advisors), specifiche figure competenti e senza conflitto di interessi, sia a livello legislativo sia nelle questioni scientifiche di rilevanza pubblica. Quando la politica si dota delle alte competenze le frodi scientifiche e le “terapie di piazza” vengono arginate, a tutela non solo della salute dei pazienti ma anche delle casse dell’erario pubblico, che non può certo foraggiare un sottobosco pseudoscientifico alimentato da ciarlatani o azzeccagarbugli. In Germania, anche grazie all’aiuto degli science advisors, nel 2011 il Parlamento ebbe il coraggio di cambiare le leggi quando vi fu un caso simile a Stamina dove una clinica privata, la Xcell-Center di Dusseldorf, nel pieno rispetto delle leggi riuscì a vendere a pazienti finte speranze con staminali fasulle. I politici tedeschi cambiarono leggi. Tra un anno e mezzo, vi sarà probabilmente un’altra sentenza sulla relazione autismo-vaccini, perché prima di allora i politici italiani non intervengono con leggi simili a quelle usate nel resto d’Europa?

Libertà e responsabilità

Inoltre, le sentenze contraddittorie, come tutte le decisione controverse da parte delle istituzioni, turbano la capacità di scelta dei cittadini. Cosa deve pensare una madre esitante che dopo aver sentito numerosi esperti rassicurare sulla sicurezza dei vaccini, legge sui giornali della decisione (infondata) di un tribunale che accusa i vaccini di creare autismo? Similmente, cosa deve pensare una madre che viene a conoscenza dell’esistenza di un gruppo minoritario di pediatri che sconsigliano le vaccinazioni? Nelle democrazie avanzate è possibile concedere ai cittadini, siano essi genitori o pediatri, un grado di libertà tale da permettere perfino di non vaccinare i propri figli o i pazienti. Ma come in ogni sana democrazia, ad ogni diritto corrisponde un dovere, e ad ogni libertà una responsabilità. Per i genitori contrari si potrebbe quindi prevedere una procedura burocratica articolata (che avrebbe, tra l'altro, la funzione di selezionare le convinzioni radicali da quelle superficiali e passeggere) in cui essi: leggano i dati, i racconti e le immagini relativi ai rischi delle malattie infettive prevenibili; dichiarino di aver letto e capito le ricerche, e di essere quindi coscienti di sottoporre il proprio figlio a tali rischi; si impegnino nei periodi delle epidemie stagionali a ritirare i figli da scuola; dichiarino di non opporsi alla convocazione del loro figlio da parte dei servizi sanitari per comunicargli, una volta raggiunta la maggiore età, i rischi di una mancata vaccinazione; e infine sottoscrivano un'assicurazione sanitaria atta a compensare i possibili danni causati da un eventuale scoppio epidemico in cui sia coinvolto il proprio figlio privo di copertura vaccinale. Accanto a tali restrizioni si possono prevedere, come fa l’Australia, incentivi alle vaccinazioni che, per esempio, offrano ai genitori in regola con il calendario vaccinale sgravi fiscali o agevolazioni sanitarie.

Radiazioni e dissenso informato

Simili procedure sono riportate in un documento di supporto alle vaccinazioni appena approvato della FNOMCeO (Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri), che si è detta, nelle parole del Segretario Luigi Conte, disposta ad avanzare “procedimenti disciplinari per medici che sconsigliano i vaccini [1]” arrivando “anche alla radiazione”. Le lodevoli intenzioni della FNOMCeO, peraltro supportate anche dall’Ordine dei Medici, erano state precedute da un interessante dato di fatto riportato qualche giorno fa da Le Monde e rilanciato dall’account Facebook del prof. Roberto Burioni: il prof. Henry Joyeux, un medico francese di Montpeiller molto attivo nel campo antivaccinista, è stato radiato dall'ordine dei medici francese "per avere sostenuto delle posizioni che non hanno basi scientifiche e per avere fatto dichiarazioni che possono mettere in pericolo la popolazione discreditando il meccanismo delle vaccinazioni preventive". Accanto ai casi limite che prevedono la radiazione, si può proporre quello che molti altri Paesi propongono in casi simili: il dissenso informato. Un medico che non vaccina o consiglia di non vaccinare non fa obiezione di coscienza, ma elimina il patto fra medicina e società che si basa sulla conoscenza scientifica e sulla deontologia. Un operatore sanitario che si oppone a una terapia scientifica validata dovrebbe farlo producendo controprove altrettanto validate e, se non lo fa, deve essere obbligato a procedere in trasparenza e a proprio rischio e pericolo, certo evitando che le proprie irresponsabilità ricadano sulle spalle (spesso fragili) dei pazienti. Un dissenso informato metterebbe il medico di fronte alla sue responsabilità etiche e legali. Inoltre, sarebbe un modo per poter articolare un dissenso scritto nel quale i medici contrari esprimano nel modo più dettagliato possibile le loro critiche o dubbi verso le vaccinazioni, in modo da poter mostrare, pubblicamente, come la letteratura scientifica dimostri l’infondatezza delle loro posizioni, basata perlopiù su sentito dire, esperienze personali (scientificamente irrilevanti) e talvolta su interessi di nicchia.

Ma questo rapporto tra vaccini, sentenze e regolamenti disciplinari suggerisce forse qualcosa che va al di là della questione legata ai vaccini. L'atteso dialogo tra cittadinanza attiva e istituzioni, previsto dai meccanismi di democrazia partecipativa caratteristico della società della conoscenza, rimarrà un miraggio populista se non sapremo formare le nuove generazioni, e la classe politica stessa, a prendere decisioni distinguendo tra fatti accertati, scelte irrazionali e controinformazione diffusa dal web. Una distinzione che pare ancora marginale visto il più recente orientamento politico.

[1] E’ bene precisare che, secondo la normativa attuale, “gli iscritti all’Albo dei Medici e a quello degli Odontoiatri sono assoggettati alla potestà disciplinare delle rispettive Commissioni PROVINCIALI dell’albo di appartenenza indipendentemente dal luogo dove è stato commesso il comportamento oggetto di azione disciplinare. Unica eccezione alle regole della competenza per territorio è quella che concerne gli iscritti agli Albi che siano anche componenti delle Commissioni degli Albi dei Medici e di quelle degli Odontoiatri degli Ordini provinciali, i quali sono, ovviamente, sottratti alla competenza disciplinare degli organi di cui fanno parte. Per questa ragione la competenza disciplinare viene attribuita in questi casi alle Commissioni per gli iscritti all’Albo dei Medici Chirurghi e/o degli Odontoiatri istituite presso la FNOMCeO.” In altri termini, l’organo centrale FNOMCeO, residente a Roma, istruisce procedimenti disciplinari solo se il presunto colpevole è il Presidente di un singolo Ordine o membro dei Consigli Provinciali degli Ordini, in tutti gli altri casi i presunti colpevoli saranno valutati dai singoli Ordini Provinciali di appartenenza e non possono essere sottoposti al giudizio disciplinare FNOMCeO. Ciò che però gli altri Ordini Provinciali non interessati nel procedimento e la stessa FNOMCeO possono fare è fornire materiale idoneo per la valutazione, come ad esempio raccogliere testimonianze e prove che attestino comportamenti di medici atti a dissuadere la vaccinazione nei pazienti, e inviarli al Consiglio Provinciale dell’Ordine ove si svolge il provvedimento —I principali riferimenti di legge sono: Art. 3, lett. f) e Art. 15, lett. g) D.Lgs.C.P.S. 13 settembre 1946, n. 233; art. 6 della Legge 24 luglio 1985, n. 409. (nota aggiunta alcune ore dopo la pubblicazione dell’articolo).

Qui di seguito, per gentile concessione dell'Autore e dell'Editore, un capitolo tratto da Andrea Grignolio, Chi ha paura dei vaccini?  Codice edizioni, 2016 Torino. 

Una ragione evolutiva: fecondità tardiva, rischio, prole

Dall’alba dell’umanità, quando i nostri progenitori scesero dagli alberi guadagnando la stazione eretta, fino al 1830, l’aspettativa di vita dell’essere umano ha oscillato in media tra i 25 e i 35 anni – a parte qualche rara eccezione che riguarda figure di rilievo, vissute quindi in contesti sociali privilegiati, che in genere compaiono nei libri di storia. Il fatto che nei vagheggiati “tempi andati” in cui “l’uomo viveva più a contatto con la natura” in media non si arrivasse ai 40 anni, è un dato che va sempre tenuto a mente e che andrebbe ricordato ai non pochi avversari della modernità o dello sviluppo tecnologico. Dal 1830 l’attesa di vita si è gradualmente innalzata grazie alla diffusione delle pratiche igienico-sanitarie – in cui, come illustrato nel Capitolo 5, le vaccinazioni hanno giocato un ruolo centrale (Rappuoli, 2014) –, assieme all’alfabetizzazione e al benessere socio-economico. Oggi, nei paesi più avanzati siamo arrivati a superare gli 80 anni, con l’Italia ai vertici della classifica mondiale, potendo vantare nel 2015 quasi 86 anni di aspettativa di vita per le donne e 84 per gli uomini.

 In quasi due secoli abbiamo dunque triplicato la lunghezza media della nostra vita, che ancora oggi guadagna tre mesi ogni anno. Nonostante ciò, fino al 1970 le famiglie italiane non hanno cambiato la loro età media fecondativa, continuando a mettere al mondo figli in giovane età. L’età media della madre alla nascita del primo figlio, che è stata per molto tempo abbastanza stabile intorno ai 25 anni, è andata progressivamente aumentando solo a partire dalle generazioni di donne nate dalla seconda metà degli anni cinquanta in poi. Oggi abbiamo raggiunto la soglia dei 31,5 anni in Italia, piazzandoci terzi in Europa dietro Spagna e Irlanda, dove le mamme sono ancora più attempate.

Nel biennio 2013/14 nella fascia d’età compresa tra i 25 e 34 anni solo il 36 per cento delle donne è risultata essere madre, una percentuale più bassa, dunque, rispetto a coloro che partoriscono nella fascia d’età più anziana, compresa tra i 35 e i 44 anni. Abbiamo anche un altro primato, quello del paese europeo tra i meno prolifici: 1,4 figli per donna in media nel 2012 (Istat: Come cambia la vita delle donne 2004-2014,  Avere figli in Italia negli anni 2000. Approfondimenti dalle indagini campionarie). In sostanza, i genitori italiani hanno sempre meno figli e sempre più in là negli anni, quello che gli studi statistici definiscono regime di fecondità bassa e tardiva. È un netto cambiamento della nostra specie, assieme evolutivo e demografico, che complica non poco le cose quando un genitore deve sottoporre il proprio figlio a un eventuale rischio medico-sanitario.

Negli ultimi anni alla genitorialità posticipata sono stati dedicati alcuni studi che possono offrire qualche spunto per inquadrare meglio le cause evolutive che soggiacciono al rifiuto vaccinale. Il primo dato che emerge è che con l’aumento dell’età genitoriale aumenta il rischio di avere figli con una serie di patologie, tra cui autismo, schizofrenia, sindrome di Down, deficienze neurocognitive varie, alcuni tipi di cancro, fertilità e longevità ridotte (Sandin et al., 2015; Bray e Gunnell, 2006; Zhu et al., 2008; Tearne, 2015; Heidinger et al., 2016).

Questi dati hanno aperto la strada ad altre ricerche, le quali dimostrano come questo tipo di conoscenze abbia un impatto molto significativo sulla percezione del rischio e, più in generale, sulla condizione psicologica dei genitori durante l’attesa e nei primi anni di cura della prole. Durante la gestazione, in particolare, la gestione di sentimenti legati all’incertezza e la negoziazione del rischio circa possibili malattie del nascituro si manifestano, specie nella madre, attraverso un rapporto ambivalente nei confronti della comunicazione sanitaria, della motivazione e dell’adesione alle raccomandazioni mediche. I diversi modelli socio-cognitivi utilizzati per predire, spiegare e influire sui comportamenti di promozione della salute – la teoria della motivazione a proteggersi (Health Belief Model), la teoria dell’autoefficacia (Self-Efficacy Theory), la teoria dell’azione ragionata (Theory of Reasoned Action), la teoria del comportamento pianificato (Theory of Planned Behavior), la teoria del prospetto (Prospect Theory), il modello transteorico (Transtheoretical Model) – confermano che l’elaborazione di modalità volte all’attenuazione della percezione del rischio è una delle strategie più comuni adottate dai pazienti (Armitage e Conner, 2000; Munro e Lewin, 2007; Sutton, 2008).

Esposti al rischio di malattie del nascituro e all’incertezza dell’esito del parto, nonché di ridotta probabilità di avere altre chance riproduttive, i genitori tardivi tendono a ridurre le situazioni ansiogene nelle comunicazioni con gli operatori sanitari, evitando le informazioni negative sui rischi correlati all’età, e puntando piuttosto su uno stile di vita sano legato alla dieta, all’attività fisica e al benessere psico-fisico (Bayrampour et al., 2012). Un’altra rilevante conseguenza di questa delicata condizione ansiogena è quella di dedicarsi, specie da parte materna, all’informazione sanitaria autodidatta – attraverso internet, articoli di giornale e materiale informativo vario –, un approccio che sul medio termine risulta però spesso inutile e angosciante, sia per la quantità di dati disponibili sia per la loro contraddittorietà.

Una difficoltà che medici e operatori sanitari riescono a gestire con molta difficoltà perché, a differenza dei genitori, che tendono a basare le proprie informazioni su una valutazione soggettiva del rischio basata su esperienze personali o singole storie reali, spesso provenienti da ambiti familiari o amicali – un bias che, come vedremo nelle conclusioni, verrà utilizzato per convincere i genitori contrari alle vaccinazioni –, essi invece possiedono una conoscenza fondata su dati epidemiologici che li orienta verso una valutazione oggettiva del rischio (Carolan e Nelson, 2007; Carolan, 2009; Lampinen, 2009).

Tale condizione di fragilità emotiva aumenta con l’età avanzata (34-38 anni) e molto avanzata (39 e oltre) in cui si diventa genitori del primo figlio, in relazione agli stress della fase post-parto, e nei primi tre anni di vita del bambino. Rispetto ai genitori più giovani, infatti, queste due fasce di genitori maturi mostrano maggiori problemi mentali come sintomi depressivi, ansia legata all’incertezza, problemi del sonno, stress prolungato e affaticamento (Nilsen et al., 2012, 2013; Aasheim et al., 2012, 2013). Questi dati vengono confermati anche dalle analisi che testano il grado di soddisfazione esistenziale in assenza di maternità e durante la stessa, in età crescente: risulta evidente che il disagio esistenziale dei genitori aumenta gradualmente dai 28 fino ai 40-42 anni (Blanchflower e Oswald, 2008) e raggiunge il massimo attorno ai 3 anni del bambino, con la fascia genitoriale compresa tra i 36-40 anni maggiormente insoddsfatta; un dato che tra l’altro contraddice la tesi secondo cui vi sarebbe una compensazione tra la maggiore solidità socio-economica dei genitori adulti e i rischi sanitari e psicologici a cui sono esposti (Aasheim et al., 2014). 

Queste ricerche suggeriscono diverse cose. Innanzitutto che l’autismo e altre inabilità neurocognitive che i movimenti antivaccinali correlano in modo errato all’uso del trivalente MPR, in realtà, aumentano con il graduale avanzamento dell’età media genitoriale, nella quale, si badi, rientra buona parte dei genitori che si oppongono alle vaccinazioni per timori legati proprio agli effetti neurotossici. In secondo luogo, questi dati suggeriscono che quando tali genitori si presentano dal pediatra per le somministrazioni vaccinali nei primi tre anni di vita del bambino, si trovano in una condizione psicologica di disagio, dovuta sia all’incertezza per le possibili malattie congenite del figlio (accentuata da informazioni online inattendibili e contraddittorie) sia allo stress genitoriale ed esistenziale dovuto all’età avanzata. Quest’ultima spesso coincide con il raggiungimento di uno status sociale e con la formazione di un’identità più strutturata da parte dei genitori, caratteristiche che probabilmente favoriscono comportamenti, inimmaginabili fino a qualche decennio fa, in contrasto con l’autorevolezza e i consigli del medico o del pediatra: un genitore quarantenne, infatti, è di certo più disposto rispetto a un genitore ventenne a disattendere l’invito del pediatra a compiere le vaccinazioni.

Tale contesto socio-cognitivo, a cui si somma l’assenza di fratelli e la scarsa possibilità di lasciare ulteriore discendenza, crea un combinato disposto che rende massima la percezione del rischio verso la prole, e dunque massima la capacità di valutare in maniera sbagliata eventuali scelte sanitarie. Disporre quindi di molte informazioni sul rischio non porta gli individui a prendere decisioni sanitarie corrette (Gigerenzer, 2015, 2013), dato che è la dotazione evolutiva del nostro cervello a compiere, in contesti di incertezza, scelte sub-ottimali e irrazionali, come dimostra il modello della “razionalità limitata” di Kahneman (2012). Nella teoria del prospetto, forse la teoria delle scelte decisionali più predittiva degli ultimi anni, Kahneman dimostra che le scelte umane sono caratterizzate da un’avversione al rischio – a parità di cifre in gioco, la percezione di una possibile perdita economica sovrasta sempre quella di una possibile vincita –, nonché da una sopravvalutazione dell’importanza di eventi improbabili. In altre parole, nella mente dei genitori scattano comportamenti ancestrali di difesa della prole, che però si rivelano irrazionali e controproducenti. In una situazione generalizzata di stress, anche la minima probabilità di mettere a rischio la vita dell’unico discendente crea nei genitori una sopravvalutazione della probabilità remota di eventi avversi, e una fuga dal rischio. Ma è una valutazione sub-ottimale, o meglio, pessima.

Se si vogliono proteggere i propri figli, nulla è più sicuro di un’assicurazione a vita come le vaccinazioni che li immunizzano contro infezioni potenzialmente letali. Non farlo è come mandare il proprio figlio in motorino senza casco, anzi un rischio ben peggiore visto che nel 2014 in Italia si sono verificati 55,6 casi di decesso (e più di 4000 di ferimento) in incidenti stradali ogni milione di abitanti, contro una persona su un milione che manifesta verso il vaccino una seria reazione avversa. 


Cfr. anche su vaccini documento Federazione nazionale degli ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Fnomceo)


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