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Prevenire la paranoia: terrorismo, disordini mentali e comunicazione

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In questi giorni la notizia di una nuova strage è esperienza quasi quotidiana, una situazione che è il riflesso non solo della jihad ma anche di altri fenomeni come il dark web (che consente il facile acquisto di armi) e la diffusione di disordini mentali e di disturbi della personalità. Il fatto che la malattia mentale sia in gioco è talmente evidente da far sì che l’attribuzione alla jihad non sia necessariamente l’unica preoccupazione, ma che si richieda una seria riflessione su quanto sappiamo della distribuzione delle malattie mentali, dei disturbi di personalità e delle loro cause. Da un’indagine svolta dall’Health and Social Care Information Center, in Inghilterra la proporzione di persone che dichiarano di avere avuto una diagnosi di “disordine mentale” nel corso della vita è del 26% (ventisei per cento)(1). La diagnosi più frequente era quella di depressione, una categoria spesso mal definita. E’ verosimile che la proporzione di persone mentalmente malate sia cresciuta nel tempo: secondo la stessa fonte la proporzione era del 15% nel 1993 e del 18% nel 2007. Nonostante le possibili distorsioni diagnostiche e di campionamento, si tratta di proporzioni molto alte, che danno conto del motivo per cui così tanti individui possono essere a rischio di gravi deragliamenti psichici nella società. Qualche altra semplice constatazione descrittiva: tutti gli attentatori sono maschi giovani, e così gli autori di stragi a vario titolo, con rarissime eccezioni. La maggioranza degli autori e delle vittime di omicidi con armi da fuoco negli Stati Uniti sono maschi giovani, come anche i militanti dell’ISIS. Tuttavia, secondo lo stesso rapporto dell’Health and Social Care Information Center, la depressione è più frequente nelle donne, osservazione ripetuta in tutti gli studi disponibili. La depressione si manifesta in forme diverse nei due sessi, con una tendenza all’aggressività negli uomini e alla autodenigrazione nelle donne. L’epidemiologia della violenza deve ancora essere scritta, ma è evidente che vi sono alcune regolarità insieme a molte domande non soddisfatte.

Una svolta nella comprensione e nella prevenzione dei tumori si è avuta quando si è adottata una prospettiva di popolazione, prima di tutto con la dimostrazione degli effetti del fumo di tabacco e alcune esposizioni professionali. Molti tumori la cui origine sembrava misteriosa sono stati ricondotti a cause ambientali prevenibili. Non si vede lo stesso sforzo per la malattia mentale, o perlomeno non c’è quella tradizione di ricerca che fa sì che per il cancro ci siano da decenni linee guida preventive (come il Codice Europeo contro il Cancro).

Il cancro potrebbe essere un esempio non solo per le energie profuse nella ricerca ma anche per i modelli causali che sono stati elaborati, che - con le ovvie differenze – potrebbero essere utili nelle loro linee generali anche per la malattia mentale.  Che si tratti di un problema con alta priorità deriva anche dalla constatazione che il cancro è una preoccupazione principalmente degli anziani, mentre la malattia mentale colpisce molti giovani (si pensi al caso degli hikikomori in Giappone). La sensazione è che mentre siamo consapevoli che la società industriale si è evoluta aumentando esponenzialmente le esposizioni chimiche - e questo ha portato alle conseguenze che sappiamo per l’ambiente e la salute -, si è invece sottovalutato l’impatto sulla psiche del carico relazionale ed emotivo associato con lo stile di vita che caratterizza ormai tutto il mondo.

Un modello causale

Mi permetto di suggerire un’analogia con l’interpretazione causale dell’insorgenza del cancro come modello potenzialmente valido anche per la malattia mentale. Il cancro è una malattia “multifattoriale”, insorge cioè per l’attivazione di diversi ”stadi” secondo il modello definito “multistadio”. Le prove di queste modalità di insorgenza sono di varia natura. Le prime osservazioni vennero dallo studio della distribuzione dei tumori con l’età: la relazione esponenziale con l’età suggerì infatti a Armitage e Doll negli anni ’50 che fossero necessari 5-6 stadi (allora interpretati come mutazioni) per l’insorgenza di un tumore epiteliale. In seguito lo studio dei fumatori, degli esposti a sostanze chimiche sui luoghi di lavoro e a radiazioni rafforzarono l’ipotesi multistadio, che venne confermata da indagini di anatomia patologica. Un tumore in un singolo individuo viene pertanto interpretato come l’esito di una molteplicità di mutamenti molecolari a loro volta dovuti in larga parte ad esposizioni ambientali. Quali sono le implicazioni di questo modello? In termini descrittivi il modello significa che in una data popolazione vi sarà un numero probabilmente molto basso di persone che non hanno ancora alcuna delle alterazioni (mutazioni o altri eventi genetici ed epigenetici) che costituiscono gli stadi della cancerogenesi. Un’altra proporzione di individui avrà già un numero di stadi attivati pari a (n-1) dove “n” è il numero di stadi necessario per dare origine a una cellula maligna: basterà in loro un ulteriore danno a indurre il cancro. Altri ancora avranno n-2, n-3 ecc. stadi. In pratica nella popolazione vi è una distribuzione dei gradi di suscettibilità congenita e acquisita, dove la prima fa riferimento a mutazioni o varianti geniche ereditate e la seconda ad alterazioni genetiche o epigenetiche acquisite a causa della esposizione ad agenti ambientali. Questo significa che un numero (relativamente limitato) di persone sono molto prossime a sviluppare un tumore, poiché manca loro solamente l’attivazione dell’ultimo stadio. Ma queste persone attualmente non sono distinguibili dalle altre, anche perché non c’è una sequenza univoca degli stadi.

Purtroppo questo modello, molto plausibile sul piano scientifico, è tutt’altro che compreso dalla popolazione e dai media. Siamo spesso ancora attestati al livello delle intossicazioni acute, cioè di relazioni semplici, monocausali e dotate di una soglia (come l’intossicazione acuta da arsenico ad alte dosi). Si pensi alle polemiche intorno alla cancerogenicità della carne rossa: anche commentatori prestigiosi sono caduti nell’errore di riferirsi alla causalità propria delle intossicazioni acute.

Ma narrazioni ipersemplificate divengono pericolose e colpevoli quando si tratta di fenomeni tragici come quelli di questi giorni. Sulle stragi di massa ci si sbilancia in giudizi causali impliciti e inconsapevoli (perché non sappiamo che modello interpretativo stiamo usando e quale dovrebbe essere usato) sui rapporti con la jihad da un lato e la malattia mentale dall’altro. Mi sento di escludere che tali relazioni causali rispondano al modello monocausale, e penso che il modello interpretativo suggerito per il cancro sia molto più plausibile. E’ verosimile che si tratti di percorsi “multifattoriali” e “multistadio”, per cui per esempio esisterebbero nella popolazione individui con diversi gradi di suscettibilità a commettere atti di terrorismo, con una continuità tra motivazioni ideal-politiche (o religiose) e deragliamenti psichici. L’ipersemplificazione causale corrisponde a narrazioni politiche molto “trincerate” (entrenched) che conducono il mondo verso esiti che potrebbero diventare deterministici (la guerra).

Nuove forme di comunicazione e paranoia

Le narrazioni ipersemplificate sono proprie della paranoia, che come ha mostrato Luigi Zoja nel saggio omonimo è un fenomeno molto comune nella politica. Oggi rischiamo di trovarci stretti tra due narrazioni paranoiche, quella dei jihadisti e quella dei populisti e dei fascisti che invocano muri e il ricorso alla forza. Per restare alla medicina, se non esiste un modello causale condiviso possono diffondersi pericolosissimi pregiudizi come quello sul nesso tra vaccini e autismo: i confini tra ignoranza delle procedure per stabilire la causalità, il diffondersi di credenze perniciose e la vera e propria paranoia divengono cioè molto labili. La società liquida, con la sua circolazione rapidissima di “notizie” (spesso neppure qualificabili come informazioni) che non hanno passato un vaglio critico, facilita purtroppo il superamento del confine tra interpretazione causale plausibile e credenza infondata.

Secondo alcuni analisti (2) la nuova rivoluzione delle comunicazioni sta degradando la qualità delle relazioni umane, inclusa l’incapacità delle persone più giovani di sviluppare pienamente il proprio sé in modo indipendente a causa della perenne connessione in rete e di meccanismi continuamente all’opera di “reward”. Secondo la stessa fonte nei college americani si è registrato un declino del 40% dell’empatia (con tutte le riserve che si possono avere sull’attendibilità della rilevazione). Si tratta di prime deboli intuizioni su quella che può essere l’epidemiologia dell’empatia, ma c’è ancora un grande divario tra le brillanti elaborazioni della scienza di base (le straordinarie ricerche di Rizzolatti e altri sui neuroni specchio) e lo studio degli effetti delle nuove tecnologie sulle popolazioni. Tra le tante manifestazioni della connettività elettronica c’è la sicurezza generata dall’anonimato, che deresponsabilizza e impedisce al sé di svilupparsi in modo armonico. E’ nota la rapidità con cui le discussioni degenerano: secondo la legge di Godwin, “più la discussione in rete si sviluppa, più è probabile che qualcuno faccia un confronto con Hitler”, legge verificata empiricamente. Un altro fenomeno comune è il “FOMO”, “fear of missing out”, cioè la paura di perdere qualche segmento della conversazione in rete, o qualche opportunità, derivante da un circolo chiuso di creazione di ansietà e suo alleviamento. Che cosa staranno facendo gli altri? Che cosa staranno pensando? Che cosa pensano di me? E così via.

Mi pare evidente che abbiamo dedicato (giustamente) tanti sforzi a capire l’impatto delle esposizioni chimiche sul nostro soma, e molto pochi a capire l’impatto delle relazioni sociali e delle diverse forme di comunicazione sulle nostre menti.

Vorrei terminare con una bellissima analogia coniata da Stefano Levi della Torre: “Davanti alla stazione Termini volteggiano gli stormi degli storni in grandi nuvole veloci continuamente variabili. Immagino che la loro mutevole coesione sia comandata da rapidissimi impulsi reciproci, da tweet visivi e sonori, a formare rapide decisioni collettive, simili all’attrazione tra molecole che determinano le volute dei fumi densi, o delle polveri vulcaniche. Formazioni complesse, diverse da quelle razionali e strategiche, a triangoli ramificati con i vertici volti al sud, delle anatre migranti, che, avvertito dal loro strepito, scorgevo nel cielo di Muenster (Westfalia) ai primi freddi d’autunno. Pensavo a queste diverse formazioni come metafore di modalità diverse del pensiero e della comunicazione. La geometria delle anatre come un criterio che sa da dove partire, dove arrivare e perché, e quale sintassi e assetto duraturo convenga per attraversare il grande spazio e il lungo tempo del viaggio; le nuvole degli storni, invece, come un criterio dell’immediato, senza gerarchia, senza partenza e senza meta, mosso dalla necessità della caccia agli insetti nell’aria, istante per istante. Da un lato, un pensiero lungo, strutturato, che si sviluppa nel tempo, orientato verso un obiettivo non imminente, ma ancora invisibile e futuro; dall’altro un pensiero spinto da impulsi, da suggestioni sociali e obiettivi immediati, tutto al presente“ (S. Levi della Torre, comunicazione personale).

(1) http://www.hscic.gov.uk/catalogue/PUB19295
(2) Si veda la rassegna “We Are Hopelessly Hooked”, Jacob Weisberg, New York Review of Books, FEBRUARY 25, 2016 


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