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I trent’anni di Futuro Remoto

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Con una conferenza di Piero Angela e un intervento del Presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana, Roberto Battiston, si apre questa sera a Napoli Futuro Remoto, un viaggio tra scienza e fantascienza che si svolgerà nel cuore della città partenopea, Piazza Plebiscito, dove è stato allestito un vero e proprio villaggio della scienza..  È la trentesima edizione di questo che può essere considerato il primo festival della scienza d’Europa ideato dal fisico Vittorio Silvestrini insieme a tanti altri compagni di avventura. Trent’anni e non li dimostra, se in Piazza Plebiscito da domani e fino a domenica si daranno appuntamento oltre 500 tra università, enti pubblici di ricerca, aziende e associazioni varie per affrontare un tema che attraverso gli occhi della scienza e dell’innovazione tecnologica guarda, appunto, al futuro, non necessariamente remoto: costruire. 

Sono otto le isole tematiche più una dove questo verbo ottimista (potremmo dire ottimista per necessità) verrà declinato: Terra madre:  clima, energia e ambiente; Corpo e Mente: Salute, benessere e stili di vita; Il futuro del cibo: il cibo di ieri di oggi e domani, tra scienza e società, storia e tradizioni; Smart cities: ricerca, sviluppo sostenibile, diffusione di beni e servizi etici; Orizzonti mediterranei: ricerca, comunità, flussi migratori e inclusione sociale; Comunico ergo sum: istruzione, comunicazione, new community e digital divide; Mare nostrum: storia, ricerca, innovazione e Blue economy; Odissea nello Spazio: dalla frontiere della ricerca aerospaziale, all’infinitamente piccolo e infinitamente grande dell’Universo; Quarta Rivoluzione industriale: makers, fablab, open lab e fabbriche del futuro.

Di notevole interesse, non solo culturale, è l’incontro Conoscere attraverso la scienza: l’Islam e l’occidente che, sempre nell’ambito di Futuro Remoto, si terrà domani alla Biblioteca Nazionale di Napoli tra le 9.00 e le 16.30 (leggi qui). 

L’intero programma di Futuro Remoto  è consultabile sul sito di Città della Scienza (http://www.cittadellascienza.it/futuroremoto/2016/). A in omaggio al suo trentesimo anniversario qui ne ripercorriamo la storia. 

Trent’anni fa, un’idea

La storia di Futuro Remoto inizia il 17 ottobre 1987, con un articolo, C’è un’alternativa al modello settentrionale, che il fisico sperimentale, Vittorio Silvestrini, pubblica su una rivista politica, Rinascita, il settimanale teorico del Partito Comunista Italiano. 

Si tratta di un articolo – quasi un manifesto – affatto originale. Perché, con quell’articolo che è anche un manifesto, Vittorio Silvestrini non propone solo una nuova strategia (un nuovo modello) di sviluppo economico, sociale e civile per il Mezzogiorno d’Italia che, ancora oggi, a trent’anni di distanza, conserva intatta la sua attualità. Ma anche – e, forse, soprattutto – perché il fisico allora in forze al Politecnico di Napoli propone un’idea di comunicazione pubblica della scienza affatto nuova. Diversa e, a ben vedere, molto più avanzata dell’idea di public understanding of science che va maturando e si va concretizzando nei paesi anglosassoni, considerati all’avanguardia. 

L’idea affidata alla pagine di Rinascita costituisce il fondamento della Città della Scienza che lo stesso Silvestrini, con un gruppo di giovani collaboratori, realizzeranno nel cuore grande, ma ormai prossimo a fermarsi, della Napoli industriale, Bagnoli. 

La proposta di Vittorio Silvestrini è molto semplice. Se Napoli, se il Mezzogiorno, vogliono sopravvivere a quella che lo scrittore Ermanno Rea chiamerà «la dismissione», ovvero alla crisi del loro sistema industriale, devono progettare e realizzare un nuovo modello di sviluppo.  Alternativo a quello che negli anni ’80 del XX secolo, va progettando e realizzando il Settentrione d’Italia. 

Il «modello settentrionale» consiste, nota Silvestrini, in un nuovo processo di innovazione tecnologica e, quindi, in un nuovo rapporto tra mondo della ricerca e mondo dell’industria – soprattutto della grande industria – che fa leva sulla rivoluzione informatica e telematica in atto e si dipana lungo tre grandi direttrici: l’automazione sempre più spinta dei processi produttivi; la progressiva trasformazione del mercato, legata alla rivoluzione informatica, da mercato di prodotti materiali a mercato di funzioni immateriali; le scelte politiche di carattere generale – come la priorità data al trasporto su gomma – che tendono a privilegiare, quasi a blindare, l’egemonia tendenzialmente monopolistica dei grandi gruppi industriali. 

Questo modello, sostiene Silvestrini, sta accelerando la divergenza tra il Nord e il Sud del paese. E, in ogni caso, non è il modello cui il Mezzogiorno può riferirsi per rilanciare il suo sviluppo, perché lontano dalla sua vocazione culturale e imprenditoriale. Il Sud d’Italia ha bisogno di un suo modello di sviluppo originale, che deve fondarsi sulle grandi risorse che possiede. Queste risorse, continua Silvestrini, sono tre: il territorio e l’ambiente naturale; la cultura; la capacità di lavoro (soprattutto quando è legata alla cultura). 

Il «modello meridionale» di sviluppo deve, quindi, da un lato valorizzare il territorio (ambiente naturale, ambiente culturale) e riqualificarlo lì dove esso è stato attaccato; e dall’altro fare leva sulla cultura (in particolare sulla cultura scientifica), non per innescare anche al Sud un processo di trasferimento del know-how e dell’innovazione dai centri di ricerca verso la grande industria, ma al contrario per trasferire il «conoscere come» dai centri di ricerca verso tutte le forze produttive locali, costituite dagli artigiani, dai piccoli imprenditori e, ultimi ma non ultimi, dagli operai «dismessi». In realtà, Vittorio Silvestrini pensa anche – e soprattutto – ai giovani. A quei giovani con elevato livello di qualifica che escono dalle università e non trovano di meglio che dar luogo a una nuova stagione di migrazione verso il Nord, a causa sia della nuova configurazione che va assumendo il mercato del lavoro, ma anche della debolezza della risposta delle classi dirigenti del Mezzogiorno. 

La proposta di Silvestrini nasce dalla consapevolezza, ormai matura nella metà degli anni ’80, che quella informatica è un’autentica rivoluzione, capace di trasformare nel profondo sia il sistema di produzione che i rapporti sociali tra e nelle nazioni. «In mezzo a noi – scrive in un articolo su La Stampa – è all’opera un imponente esercito di schiavi artificiali: la forza lavoro sviluppata da tutte le macchine in funzione nei Paesi industrializzati – come è facile calcolare a partire dai consumi energetici mondiali – a quella delle braccia di cento miliardi di operai. Fino a pochi anni fa, questi schiavi artificiali erano in grado di compiere solo lavoro strettamente meccanico e rigorosamente ripetitivo. Oggi, con lo sviluppo dei computer, il loro comportamento è assai più vario e autonomo, e il ventaglio delle funzioni in cui possono sostituirci o assisterci si è allargato all’improvviso». 

La robotica non è che uno degli aspetti del cambiamento accelerato dalla rivoluzione informatica. La verità è che già in quegli anni inizia a essere chiaro che sta nascendo la «società della conoscenza» e che il controllo del sapere è diventato il cuore della dinamica sociale. Il fattore principale dell’inclusione o dell’esclusione sociale. Se il sapere è controllato da pochi, se nascono i monopoli della conoscenza, la democrazia farà un enorme passo indietro, anche se la tecnologia modellerà un mondo in apparenza più moderno e addirittura avveniristico. Se il sapere sarà diffuso e apparterrà a tutti, la democrazia si rafforzerà e lo sviluppo potrà diventare socialmente e anche ecologicamente più sostenibile. 

Insomma, comincia a essere chiaro che intorno al possesso della conoscenza scientifica si sta aprendo una partita epocale. E la questione italiana non è che una piccola parte di una questione globale.

Il «modello meridionale» proposto da Vittorio Silvestrini ha almeno tre caratteri di forte originalità. È un progetto per il Mezzogiorno che cerca nel Mezzogiorno le risorse, umane e persino economiche, per lo sviluppo. È un progetto di sviluppo sostenibile in un momento in cui – anche tra le forze politiche di sinistra e nel sindacato cui Silvestrini fa riferimento – il vincolo ecologico è visto più come un freno che come un’opportunità per lo sviluppo economico. È un progetto, infine, che guarda alla cultura scientifica (e alla cultura tecnologica che ne discende) come a uno dei grandi temi – uno dei temi portanti – della democrazia moderna. 

Ciascuno di questi caratteri (lo sviluppo endogeno del Mezzogiorno, la valorizzazione delle risorse ambientali e culturali, l’innovazione tecnologica) ha uno snodo decisivo nella comunicazione pubblica della scienza. O meglio, nella comunicazione della scienza che coinvolge il grande pubblico. E non solo come recettore passivo. Ma anche – è questa l’autentica novità – come protagonista attivo.

Nella nuova visione che va delineando Silvestrini la creazione di stabili canali di comunicazione tra i membri della «Repubblica della Scienza» e la società nel suo complesso ha due funzioni diverse eppure co-essenziali: da un lato formare i giovani, gli operai in via di «dismissione», gli artigiani, i piccoli imprenditori chiamati a fare da protagonisti nel suo modello di «sviluppo meridionale»; dall’altro creare l’ambiente culturale più adatto per costruire una società democratica fondata sulla conoscenza.

Nel primo caso, quello della formazione, si tratta di immaginare una comunicazione didattica diversa, eppure non meno rigorosa, rispetto a quella praticata nelle scuole e nelle università perché coloro che devono apprendere non sono studenti: ma, appunto, operai, artigiani, imprenditori, giovani che stanno entrando nel mondo del lavoro. E non si tratta di una mera riqualificazione professionale che possa essere gestita nell’ottica e con le prassi dell’aggiornamento professionale. Si tratta di acquisire tutti – detentori e proletari del sapere esperto –  una nuova cultura del «fare» fondata non solo e non tanto sulla padronanza di tecniche consolidate, ma anche e soprattutto sulla capacità, fluida, di gestire la conoscenza scientifica che, per sua natura, si innova continuamente.

Nel secondo caso, quello della creazione di un ambiente culturale adatto alla nascita e allo sviluppo di una società democratica fondata sulla conoscenza, in primo luogo della conoscenza scientifica, si tratta di immaginare canali di comunicazioni efficaci e bidirezionali tra un mondo – quello scientifico – che in Italia ancora vive (e ama vivere) in una «torre d’avorio» con pochissime porte e pochissime finestre che affacciano sulla società e un mondo – la società italiana, appunto – che da tempo vive in quasi tutte le sue articolazioni in quella dimensione crociana che nega alla scienza  ogni valore culturale e la relega nell’ambito dei meri saperi tecnici. Questa visione neoidealista di Benedetto Croce è diventata senso comune perché fatta propria e amplificata (spesso in una forma degenere) dalla riforma della scuola realizzata da Giovanni Gentile, seguace del filosofo napoletano e ministro di Mussolini. Cosicché essa informa di sé l’intera società italiana. E si propone come uno degli ostacoli principali allo sviluppo, democratico, di una società fondata sulla conoscenza (scientifica). Lo sviluppo di questa società ha bisogno che la conoscenza scientifica sia riconosciuta come conoscenza vera. E che la scienza sia riconosciuta per quella che è: cultura autentica. Una delle principali e più dinamiche forme della cultura umana.

Passare da un sistema in cui convivono una monade senza porte e finestre (la comunità scientifica) e una società che a quella monade e alla cultura di cui è portatrice non riconosce alcun valore generale, a una società in cui i due mondi si interpenetrano, riconoscendosi reciprocamente un ruolo decisivo, non è impresa affatto facile.

In primo luogo richiede che la monade apra, subito, porte e finestre. Per questo Vittorio Silvestrini chiama «il mondo accademico e scientifico, troppo spesso chiuso all’interno delle sue mura e dentro la gabbia del suo linguaggio specialistico, a un confronto ampio con la società».

E in secondo luogo richiede che la società – in particolare la società nella regione e nella città di don Benedetto Croce – maturi la capacità attiva di informare se stessa di cultura scientifica.

Per questo è necessario sviluppare un sistema efficace di comunicazione pubblica della scienza. Un sistema che non comporti solo e non comporti tanto la divulgazione del sapere scientifico, ovvero la traduzione dal linguaggio specialistico degli scienziati al linguaggio comune, che non comporti solo e non comporti tanto il public understanding of science, ovvero l’alfabetizzazione dei vari pubblici di non esperti, ma che nella diffusione sistematica del sapere scientifico, nella sua appropriazione da parte di pubblici che ne sono esclusi e nella sua trasformazione in abito culturale individua uno tra gli strumenti decisivi per le democratizzazione della società e dell’economia.

Così, dunque, Vittorio Silvestrini conclude il suo articolo su Rinascita del 17 ottobre 1987: «La grande manifestazione Futuro Remoto da noi organizzata […] vuol essere non solo un momento effimero, e tuttavia rilevante, di promozione della diffusione della cultura scientifica, ma anche il momento di lancio del progetto – che stiamo promuovendo – di una grande struttura permanente che possa svolgere la duplice funzione di diffusione della cultura scientifica, e di promozione della innovazione verso i settori diversi da quello della grande impresa industriale».

Senza la diffusione della conoscenza scientifica e senza l’appropriazione  degli strumenti d’innovazione da parte delle sue forze produttive, insomma senza una profonda democratizzazione del sapere scientifico, il Mezzogiorno, conclude Silvestrini, è condannato al sottosviluppo. 

L’articolo, che è anche un manifesto, contiene un annuncio: a Napoli è iniziato Futuro Remoto. Il tentativo di dare corpo all’idea. 

Come nasce un viaggio tra scienza e fantascienza.

La SIF, la Società italiana di fisica, organizza ogni anno il proprio congresso in una città italiana. In genere queste assisi sono – e sono vissute – come eventi del tutto separati dalla vita della comunità ospite. Quando, nel 1986, Vittorio Silvestrini ha la conferma che l’anno successivo il congresso della SIF si terrà a Napoli, pensa sia opportuno cercare finalmente un aggancio con la città. Magari associando al congresso dei fisici una settimana di diffusione della cultura scientifica.

Silvestrini pensa a un evento di comunicazione della scienza che non sia – come spesso accade – una lezione accademica fuori dall’accademia. Ma che sia in grado, appunto, di carpire l’attenzione e stabilire un vero dialogo con il pubblico. Compreso il pubblico che di solito non frequenta i temi e i problemi della scienza. È anche per questo che, nel tentativo di dare anima e corpo all’idea, chiama a raccolta non altri fisici, ma alcuni amici di diversa estrazione culturale che per professione hanno consuetudine con il grande pubblico. Questi amici sono: Carlo D’Angiò, ingegnere presso l’Alfa Sud di Pomigliano e musicista molto noto in città, anche perché venti anni prima ha fondato, con Eugenio Bennato e Peppe Barra, la Nuova Compagnia di Canto Popolare; Giulio Baffi, giornalista e critico d’arte, già direttore del teatro San Ferdinando (il teatro di Eduardo De Filippo); Luigi Caramiello, sociologo che conosce Napoli e la sua gente. Con loro Silvestrini fonda ESTRO, un’associazione culturale che trova ospitalità presso gli uffici che una piccola casa editrice, la CUEN, ha in Piazza Pilastri. 

Il rapporto di vicinanza fisica tra ESTRO e CUEN è destinato a trasformarsi, ben presto, in simbiosi. Sia perché la CUEN organizza a Napoli la Fiera del fumetto e ha, dunque, una certa esperienza nella gestione di eventi che può essere utilizzata nell’organizzazione della settimana di diffusione della cultura scientifica da associare al congresso della SIF, sia perché il direttore editoriale della casa editrice è Enzo Lipardi, un giovane laureato in filosofia che entra in naturale sintonia con il fisico Vittorio Silvestrini. 

La CUEN è nata come cooperativa negli anni ’70, creata dall’Unione degli studenti per garantire il diritto allo studio anche attraverso il contenimento del prezzo dei libri di testo. Pubblica manuali, ma anche dispense e appunti. E li vende, a prezzi contenuti appunto, in una libreria, all’interno del Politecnico, frequentata dagli studenti ma anche dai docenti della Facoltà d’Ingegneria di Piazzale Tecchio.

In quella libreria nel 1982 entra Enzo Lipardi, come addetto alle vendite con contratto part time. Lipardi è un giovane attivo, con una forte carica d’entusiasmo e un forte interesse per l’economia. Ha lasciato casa a 19 anni e ha fondato, con alcuni amici, una società di pulizie domestiche. In CUEN si trova bene. E il suo impegno viene apprezzato. Insomma, ben presto diventa vicepresidente della cooperativa. E a partire dal 1985 si assume il compito di rifondare, su nuove basi societarie, la casa editrice.

Il primo incontro tra Silvestrini (attuale presidente di Città della Scienza) ed Enzo Lipardi (attuale Amministratore delegato) è “politico”. Enzo Lipardi è segretario del Centro per la pace della FGCI. Vittorio Silvestrini è il segretario regionale dell’USPID, l’Unione scienziati per il disarmo. Cosicché si ritrovano in una delle tante occasioni di dialogo serrato tra scienziati esperti e giovani politicizzati offerte dal tema degli armamenti: siamo nel periodo degli «euromissili» e della conseguente forte tensione tra Usa e Urss a proposito di un possibile conflitto nucleare in Europa.

La sintonia tra i due è scritta nella cose. D’altra parte essendo la libreria della CUEN entro le mura del Politecnico, essendo Silvestrini docente del Politecnico e organizzando la CUEN una serie di attività culturali – presentazioni di libri, dibattiti, cineforum – le occasioni di incontro tra il fisico e il giovane attivista sono piuttosto frequenti. Si parla del più e del meno: dell’attualità politica, delle novità scientifiche, della guerra e della pace, della responsabilità sociale della scienza. Della crisi della città. E della sua soluzione.

«Un giorno – ricorda Lipardi – incontrai Silvestrini al bar, nei pressi del Politecnico. Eravamo nel 1986. La CUEN aveva ricevuto la richiesta di organizzare un evento sui temi della scienza e della fantascienza, e volevo coinvolgerlo. La cosa l’interessò e passammo una mezz’oretta a chiacchierare. Ho poi scoperto che difficilmente Silvestrini concedeva più di 10 minuti alle chiacchierate».

Dopo quella «lunga» conversazione, passano mesi di silenzio. Lipardi dà per scontato che non se ne farà niente. Poi, improvvisa, l’ormai inattesa telefonata.  Il fisico chiama il giovane filosofo-editore e lo invita a un’incontro per riprendere la discussione iniziata al bar. 

Silvestrini sta pensando a un evento nuovo che accompagni il prossimo congresso della Società Italiana di Fisica. E l’idea di agganciare il grande pubblico coniugando scienza e fantascienza lo intriga. È tra i pochi fisici che non ritengono la fantascienza pura invenzione o pura fantasia, ma uno strumento per esplorare il futuro. Non a caso ha compiuto in prima persona un paio di incursioni nella science fiction, scrivendo due romanzi, per l’appunto, di fantascienza: Storia della terza guerra mondiale e Cronache da una provincia dell’impero.  

«Sto mettendo su un gruppo di amici – dice Silvestrini al telefono – per realizzare l’iniziativa, poi ti faccio sapere».  

Passa ancora un po’ di tempo. Poi Lipardi riceve una nuova telefonata dal professore. Silvestrini gli comunica che ha organizzato un incontro presso il centralissimo Jolly Hotel per iniziare a dare un corpo al “loro” progetto: «Ho coinvolto un gruppo di amici, spero non ti dispiaccia». Enzo Lipardi ricorda la sua emozione. E il suo imbarazzo: «Mi feci rosso, e con voce flebile risposi: “No, Vittorio, non mi dispiace affatto. Anzi, ti ringrazio. Sarò puntuale!“. Andai all’appuntamento e così iniziai la mia avventura con Silvestrini». 

Il gruppo di amici che si ritrova al Jolly Hotel non è davvero numeroso. Oltre a Silvestrini e a Lipardi ci sono quelli di ESTRO: Carlo d’Angiò, Giulio Baffi, Luigi Caramiello. Dopo quel primo incontro, ce n’è un altro a casa di Silvestrini. In breve: il gruppo decide di provare a organizzare una grande manifestazione su scienza e fantascienza per il mese di ottobre del 1987, in occasione del congresso nazionale della SIF e in omaggio al Congresso degli Scienziati Italiani, la cui settima edizione era stata organizzata a Napoli nel 1845 da Macedonio Melloni, il primo direttore dell’Osservatorio Vesuviano.

L’idea è di allestire una manifestazione articolata sull’«archeologia del presente», con numerosi eventi in diversi punti della città. Lipardi, che pur essendo il più giovane del gruppo è l’unico ad avere un’esperienza nell’organizzazione di eventi, maturata come abbiamo detto con la direzione della Fiera del Fumetto, vince la sua giovanile timidezza e con fare saggio ricorda agli altri più anziani di lui che gestire una manifestazione delocalizzata è impegno gravoso, che richiede un’organizzazione forte e ben oleata. È meglio, molto meglio, per un gruppo all’esordio, concentrarsi su un luogo unico: perché non tentare con la Mostra d’Oltremare, la grande struttura gestita dall’Ente Fieristico che affaccia proprio su Piazzale Tecchio, di fronte al Politecnico? 

La proposta passa. E il gruppo inizia a progettare i contenuti, ciascuno secondo le sue competenze. La fase creativa porta via molto tempo e tutta l’attenzione. I giorni scorrono. Futuro Remoto inizia a prende forma, nella sua dimensione virtuale. Ma nella primavera del 1987 Silvestrini si accorge che nella dimensione concreta l’organizzazione della manifestazione ha fatto ben pochi passi avanti. Ed è così che un giorno di maggio il fisico, che vanta una solida esperienza nell’organizzazione di concretissimi esperimenti scientifici, chiama Lipardi e gli dice: «Guarda che questa cosa, praticamente, la dobbiamo fare io e te». Ed è così che nasce il sodalizio che assume la direzione di Futuro Remoto e, poi, di IDIS e di Città della Scienza.

La direzione di Futuro Remoto, composta finalmente da Vittorio Silvestrini ed Enzo Lipardi, definisce immediatamente il programma, il budget e la struttura organizzativa. I due chiedono a un altro fisico visionario, Paolo Budinich (http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/pietro-greco/paolo-budinich-luomo-che-ha-restituito-unanima-alla-sua-citta), di fornire, a nolo, la mostra sull’Immaginario Scientifico che il fisico teorico ha realizzato a Trieste in vista della nascita del primo science centre italiano. Poi iniziano a costruire la rete degli uomini di scienza, che a vario titolo e con diverse modalità, dovranno partecipare all’evento. 

Il lavoro è certo facilitato dalle relazioni che Silvestrini ha con il mondo della ricerca. Ma non per questo è un lavoro facile. La verità è che i fisici e gli scienziati in genere hanno una certa diffidenza per tutte quelle iniziative che aprono le porte e le finestre della loro torre d’avorio. Diffidenza che si riverbera sui colleghi, fisici e scienziati in genere, che partecipano all’operazione di apertura delle porte e delle finestre. Insomma, malgrado il suo indiscusso prestigio scientifico, Vittorio Silvestrini incontra non poche difficoltà a coinvolgere il mondo dei suoi pari. Ma alla fine importanti parti di quel mondo si lasciano convincere. Con buoni risultati. 

Ma prima dei risultati, ci sono ancora cinque mesi di duro lavoro. Su almeno altri due fronti. Il primo è, definito il budget, trovare i soldi per finanziarlo. Dopo un acceso dibattito passa l’idea di puntare sulle opportunità offerte dal mercato culturale. Insomma, gli sponsor. Che vengono individuati e coinvolti: dall’Aeritalia alla Selenia, dalla Telespazio all’Enel, dalla Partenavia all’Italtel, sono molte le aziende che rispondono con discreto entusiasmo. 

Tuttavia gli sponsor non bastano. Occorre coinvolgere anche una qualche fonte pubblica e istituzionale di finanziamento. Il consigliere regionale Vittorio Silvestrini chiede al Presidente della Giunta Regionale, Giovanni Grasso, di sponsorizzare a sua volta la manifestazione. La richiesta ha successo. La Regione Campania finanzia in parte l’idea di Futuro Remoto

Ciò consente di passare all’ultima fase: mettere in piedi una struttura operativa in grado di realizzarla, quell’idea. Oltre a Massimo Bracale e Grotta, vengono coinvolti Laura Cutolo per le pubbliche relazioni; Paola Pozzi (architetto), Mario Di Pace (scenografo della Rai), Giulio Di Leva per gli allestimenti e le scenografie; Paolo De Nigris e Pasquale Trammacco per le questioni tecniche. È questo il nucleo centrale del gruppo che, insieme a giovani intellettuali come Luigi Amodio e Giovanna Martano, dà corpo in cinque mesi all’idea di Futuro Remoto

La prima edizione.  L’archeologia del presente

«Guarda Enzo, è la catastrofe …». Sono le 8 del mattino di lunedì 20 ottobre 1987 quando Vincenzo Lipardi detto Enzo si affaccia alla finestra del suo ufficio provvisorio, alla Mostra d’Oltremare a Napoli, e misura coi suoi occhi l’entità del disastro: Piazzale Tecchio, l’ampia spianata che divide il Politecnico dalla Mostra lì a Fuorigrotta, è «strapieno di ragazzi». Venuti per partecipare a Futuro Remoto, il «viaggio tra scienza e fantascienza» organizzato dall’associazione culturale Estro in collaborazione con la Mostra d’Oltremare.

Enzo Lipardi è, insieme a Vittorio Silvestrini, il direttore generale di quella manifestazione. E ha meno di un’ora per trovare una soluzione al più inatteso e felice dei problemi: il successo. 

Né lui né altri si aspettavano tanta gente. Tanti ragazzi. Non sono preparati. E hanno da escogitare qualcosa. «E fu così che mi inventai le “guide scientifiche”. Ora so che ogni science centre in ogni parte del mondo organizza visite guidate. Ma allora io non lo sapevo. E me le inventai lì, su due piedi». Chiunque, nella neofita organizzazione di Futuro Remoto, avesse un minimo di conoscenze scientifiche o, almeno, una cultura generale considerata sufficiente, viene immediatamente precettato, compresi gli addetti alla segreteria e alla vigilanza. In dotazione hanno un canovaccio di massima, che Lipardi ha buttato giù all’impronta, e il sincero augurio di riuscire a farcela. 

Quando alle 9.30 – con mezz’ora di ritardo – i cancelli della Mostra si aprono, le inattese fiumare di ragazzi sono ordinatamente, o quasi, incanalate da guide improvvisate lungo i corridoi e le sale del primo evento di scienza spettacolo mai organizzato a Napoli e, probabilmente, in Italia. I ragazzi possono guardare, ascoltare e, forse per la prima volta, «mettere le mani su» una scienza che ha un sapore molto diverso da quella che hanno assaggiato a scuola.

Futuro Remoto era stata inaugurata nel tardo pomeriggio di venerdì 16 ottobre 1987. Mettendo insieme varie proposte culturali, numerose intelligenze e un’idea-guida. Tra le proposte e le intelligenze vi sono: la rassegna di film di fantascienza curata da Mario Franco; lo spazio dedicato ai fumetti curato da Guido Piccoli e Laura Cutolo, con la partecipazione tra gli altri di Moebius, Milo Manara, Sidney Jordan; la serie di spettacoli – ivi compreso il ritorno dopo dieci anni di inattività della “vecchia” Compagnia di Canto Popolare con Eugenio Bennato, Peppe Barra, Lina Sastri, Patrizio Trampetti, Carlo D’Angiò – curati dallo stesso D’Angiò e da Paolo De Nigris; la mostra dell’Immaginario scientifico, pensata a Trieste dal fisico teorico Paolo Budinich, organizzata dalla ISSA e coordinata da Giancarlo Rados; la Mostra della Ricostruzione, realizzata dalla Carsa di Pescara; la rassegna di documentari scientifici coordinata da Enzo Lipardi; la serie di conferenze-spettacolo – curata da Vittorio Silvestrini e da un altro fisico, Antonio Barone, direttore dell’Istituto di Cibernetica del CNR – con scienziati molto noti e comunque di valore assoluto come Tullio Regge, Giuliano Toraldo di Francia, Franco Pacini, Ugo Amaldi, Valentino Braitenberg, Edoardo Caianiello, Giorgio Franceschetti, Giampiero Puppi, Giulio Rossi Crespi, Pietro Omodeo, Raffaele Picella. I giovani e i meno giovani hanno anche una discoteca a disposizione per ascoltare musica e ballare. A molti appare come una profanazione, peraltro voluta. Ma quella discoteca piccola, rumorosa, in stile Stonehenge, è segno inequivocabile che chi varca i cancelli della Mostra d’Oltremare ed entra in Futuro Remoto si trova di fronte a un genere culturale nuovo: lo spettacolo scientifico.

Futuro Remoto si apre, alle 18.00 del 16 ottobre, con la conferenza di Tullio Regge, uno tra i maggiori fisici teorici italiani, su Spazio Tempo Materia che si rivela per ciò che intendeva essere: uno spettacolo. Uno spettacolo che non rinuncia al tradizionale rigore con cui i fisici parlano di scienza. 

Tuttavia è un’altra conferenza, La fantascienza alla verifica della Storia, tenuta dal sociologo Alberto Abruzzese il giorno successivo, sabato 17 alle ore 18.00, che illustra meglio l’idea-guida e fornisce l’esatta dimensione di quell’inedito evento che, senza temere lo scandalo, avvicina il diavolo (lo spettacolo, il fumetto, la fantascienza) all’acqua santa (la scienza e, addirittura la Storia che nella città di don Benedetto Croce si scrive, appunto, con la maiuscola). L’idea proposta da Futuro Remoto è quella di scoprire «l’archeologia del presente». Portare il visitatore-attore-manipolatore a osservare-interpretare-manipolare gli oggetti che rappresentano il mondo alle soglie del 2000 con l’occhio critico e le mani critiche di un archeologo del 3000.

La tecnica di narrazione in Futuro Remoto è quella della fantascienza. Ma accanto c’è la scienza. E dietro c’è il «modello meridionale»: immaginare il futuro per costruirlo. Sottoporre la fantascienza alla verifica della Storia, per cercare di costruire la storia. Sottoporre la tecnologia alla verifica del dubbio, per cercare di governarla. 

«Siamo ormai all’alba di un’era post-scientifica», dichiara Giuliano Toraldo di Francia al Corriere della Sera. Alla «vigilia di una fase cruciale: la scienza finora ha permeato la nostra vita, ci ha offerto infinite possibilità per stare meglio, ci ha fornito i mezzi, insomma; ma non ci ha dato o mostrato, né potrà farlo mai, i fini. E ormai l’umanità deve porselo, il problema dei fini, dei valori, delle regole etiche. Deve sapere dove andare e deve deciderlo tutta insieme, cercando di farlo nel massimo di democrazia. E allora due sono le rotte, se si vuole evitare che a scegliere per miliardi di persone sia l’oligarchia degli esperti: occorrono più informazioni e una cultura scientifica di massa, e occorre spezzare le barriere tra i vari campi di ricerca. Il monito che viene da fumetti, cinema o romanzi di fantascienza è rivolto a noi ed è chiaro: state attenti, l’uso troppo disinvolto delle tecnologie può portare a esiti molto diversi da quelli pensati in origine. Magari nefandi» . 

Giuliano Toraldo di Francia ha catturato lo spirito che informa Futuro Remoto: il governo democratico della società tecnoscientifica. 

D’altra parte l’intenzione di coloro che hanno organizzato l’inedito «viaggio tra scienza e fantascienza», scrive Vittorio Silvestrini in un articolo – un altro articolo – pubblicato su Rinascita, è proprio questa: «riappropriarci, come civiltà tecnologica, della capacità di progettare il futuro». 

Quel termine, riappropriarci, indica che Futuro Remoto è un progetto di comunicazione scientifica che non intende affatto celebrare le sorti magnifiche e progressive della scienza e della tecnologia – come avviene in molti cattivi romanzi di fantascienza e come, spesso, molti componenti della comunità scientifica immaginano gli eventi di comunicazione. Perché la riappropriazione presuppone, scrive Silvestrini, che quella capacità di progettare il futuro la nostra civiltà tecnologica l’ha, almeno in parte, smarrita. E lo smarrimento dipende in buona parte dalla non linearità del percorso che segue una nuova conoscenza scientifica nel trasformarsi in prodotto tecnologico. Una non linearità «che toglie di fatto dal controllo di chi decide le cause, ogni reale capacità di valutazione degli effetti». E poiché la scienza è un motore – il motore – dell’innovazione tecnologica e, in definitiva, della dinamica economica e sociale, ecco che la non linearità dei percorsi «annulla la possibilità di un controllo democratico delle grandi scelte di civiltà».

Di qui la nuova «speciale responsabilità» dello scienziato: usare la sua capacità di analisi – anche di analisi delle dinamiche non lineari – per aiutare la società a costruire gli scenari del domani possibile. Per progettare il futuro. E per riconsegnare all’umanità la capacità di «controllo democratico» nelle grandi scelte di civiltà. Magari iniziando a consegnare concretamente alle singole comunità – come quella di Bagnoli, di Napoli, del Mezzogiorno – la possibilità di costruire un suo percorso di sviluppo nella «società della conoscenza».

I caratteri peculiari di quello che Silvestrini chiama l’esperimento Futuro Remoto sono, dunque, almeno due. Uno riguarda, per così dire, i contenuti: ripensare criticamente e pubblicamente il ruolo della scienza nella società, per cercare di costruire un modello di sviluppo che offra nuove opportunità e nuove possibilità di controllo democratico. L’altro carattere riguarda la tecnica di comunicazione: se gli scienziati devono incontrare la società, allora devono usare i canali di comunicazione più adatti per stabilire il dialogo con i cittadini non esperti. Ivi compresi i canali dell’arte e dello spettacolo. Canali che gli scienziati conoscono poco, abituati come sono alla retorica formale della comunicazione interna alla comunità scientifica, e che quasi sempre – soprattutto quando si tratta di arte minore o di spettacolo – respingono con fastidio.

Futuro Remoto è, a ben vedere, un appello. Un appello alla comunità scientifica perché esca dalla sua torre d’avorio e assuma fino in fondo la sua nuova e speciale responsabilità: progettare il futuro.

Non a caso Vittorio Silvestrini ha proposto di realizzare il viaggio tra scienza e fantascienza in occasione del congresso della SIF, la Società italiana di fisica, che si tiene a Napoli intorno alla metà di ottobre. Per testimoniare che la scienza (o meglio, una parte della comunità scientifica) vuole «presentarsi al largo pubblico» e per verificare – per sperimentare – se è capace di farlo divertendo. Se è capace di raccontare con umiltà «quale futuro immagini per se stessa e per tutti noi».

Al termine del (primo) viaggio

«Fu un’operazione bella. Anche scenograficamente, con quella piramide all’ingresso rotta, violata, da un moderno Napoleone. Dava davvero l’idea di entrare in un mondo del passato». Enzo Lipardi si esalta ancora quando ricorda Futuro Remoto. Perché già la sera del 25 ottobre, mentre si chiudono le porte della Mostra d’Oltremare, la manifestazione appare come qualcosa di più di un riuscito viaggio tra scienza e fantascienza. È la prova provata che a Napoli – anche a Napoli – l’incontro tra scienza e grande pubblico, precondizione per l’incontro tra scienza e sviluppo, è possibile. 

Non sono solo i numeri a dirlo. Anche se i numeri – 10.000 m2 di superficie espositiva; 150 e, in alcuni giorni, persino 200 giovani al lavoro; 63.828 spettatori, di cui 24.000 studenti delle scuole medie; 18.000 biglietti staccati per le serate cinematografiche; 9.000 presenze alle conferenze scientifiche; 1.700 partecipanti ai dibattiti sulla fantascienza – dicono tanto.  

Non è neppure la critica, ottima e corposa, che la manifestazione si guadagna. E non solo sui giornali napoletani. 

A dire che il Futuro Remoto effettuato a Napoli tra il 16 e il 25 ottobre 1987 si è rivelato qualcosa in più di una scoppiettante incursione, appunto, tra scienza e fantascienza, è l’entusiasmo con cui Silvestrini e compagni decidono di proseguirlo quel viaggio. 

E di proseguirlo lungo una direzione che appare già delineata. Futuro Remoto, infatti, è stato costruito lungo tre fili – le mostre, di scienza e di fantascienza; lo spettacolo, col cinema e i concerti; e la comunicazione diretta della scienza, con le conferenze (che diventano) spettacolo – che prefigurano un preciso ordito: quello del museo stabile. Ma aperto e vivo, «hands on» come dicono gli esperti. 

Già, perché l’intreccio ha coinvolto molti spettatori, che si entusiasmano, nota il giornalista Giovanni Maria Pace: «come se si trovassero in una Disneyland scientifica della Florida». E, allora, perché non realizzarla, una Disneyland scientifica dove, insieme alla componente ludica tipica del parco della Florida, ci siano, come alla Mostra d’Oltremare, le prime cellule del «progetto meridionale» di cui va parlando Vittorio Silvestrini?

E, infatti, il fisico faentino ormai naturalizzato napoletano, a consuntivo di quel primo viaggio, scrive: «Il grande successo di Futuro Remoto ’87 […] ha a nostro avviso evidenziato una grande e diffusa esigenza sociale cui l’organizzazione della cultura nel nostro paese, come del resto negli altri paesi industrializzati, è lontana dal dare una risposta soddisfacente. L’esigenza espressa dalla generalità dei cittadini – e in particolare dal mondo della scuola, dai giovani in generale, dagli amministratori pubblici, dagli operatori della produzione e dei servizi – di essere informati  in maniera rigorosa e piana sui progressi della scienza; di discutere i risvolti produttivi, sociali e organizzativi; di liberarsi della paura che la scienza incute e del mistero di cui si avvolge, facendone scherzo e ironia; di dibattere sul futuro che la tecnologia figlia della scienza sta preparando per la nostra civiltà».

E poi annuncia: «Siamo convinti che una risposta adeguata a questa esigenza possa venire solo da strutture stabili che costituiscano un collegamento istituzionalizzato e permanente fra il mondo della ricerca e la generalità dei cittadini. E stiamo infatti lavorando al progetto di un parco per la scienza da realizzarsi a Napoli». 

Il successo di quel primo viaggio tra scienza e fantascienza rafforza in Silvestrini la convinzione che, dopo la dismissione dell’industria pesante, il futuro di Napoli passi attraverso un luogo stabile – un luogo fisico – dove cercare di mettere in moto il motore di un nuovo tipo di sviluppo. Questo motore è la comunicazione della scienza. E il luogo stabile – il luogo fisico – è, anche, un museo. Un museo della scienza. Ma un museo di tipo affatto nuovo. 

Ormai è deciso. Il topolino Futuro Remoto partorirà la montagna: un science centre. Un grande e permanente parco della scienza dove incubare le idee del «modello meridionale».

La storia seguente è poi nota. La Città della Scienza verrà realizzata progressivamente, a partire dal 1992 e nel giro di dieci anni diventerà il più grande museo scientifico di nuova generazione d’Italia e uno dei maggiori d’Europa. Oggi è molto più che un museo: è un centro di multiformi attività centrate sulla conoscenza e sulla comunicazione della scienza. Quanto a Futuro Remoto, lo scorso anno a Piazza Plebiscito nella sua XXIX edizione è stato frequentato da oltre centomila cittadini. Quest’anno in piazza si prevede ce ne saranno almeno centocinquantamila.


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