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La ricerca sulla Luna non tramonta mai

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Nei giorni scorsi, due tra le più prestigiose riviste scientifiche hanno presentato importanti studi riguardanti il nostro satellite. Mentre Science ha pubblicato due ricerche sulla struttura e sulla formazione dell’immenso Mare Orientale, su Nature è apparso un nuovo scenario per la nascita della Luna, in grado di chiarire alcuni spinosi problemi finora irrisolti. Lo studio del nostro satellite, insomma, non è affatto passato di moda.

Tralasciando alcuni corpi minori che, di tanto in tanto, transitano nelle vicinanze della Terra, la Luna è il corpo celeste più prossimo al nostro pianeta e, nello stesso tempo, è anche l’unico corpo celeste sul quale l’uomo abbia mai posato il suo piede. Nonostante questa vicinanza e le numerose missioni spaziali che ne hanno fatto – e ne stanno tuttora facendo – oggetto di accurate osservazioni, la Luna si tiene ancora ben stretti un bel po’ di misteri che la riguardano.

Fin dalle prime osservazioni telescopiche compiute da Galileo nel 1610 apparve evidente la tormentata superficie del nostro satellite, crivellata da crateri di ogni dimensione. La loro origine venne dibattuta per lungo tempo, con accesa contrapposizione tra chi vi leggeva strutture vulcaniche ormai inattive e chi suggeriva origini decisamente più violente. Ci sono voluti alcuni secoli, ma alla fine tutti quanti hanno accettato il fatto che dell’origine di quelle voragini si doveva incolpare il devastante bombardamento di proiettili cosmici. Una sorta di violento tiro a segno cosmico nel quale, purtroppo, anche la Terra figurava – e figura tuttora – tra i bersagli. Sul nostro pianeta sono estremamente efficienti alcuni meccanismi in grado di cancellare buona parte delle tracce degli impatti, per esempio fenomeni atmosferici e geologici, e questo rende estremamente complicato non solo lo studio, ma la stessa identificazione delle strutture da impatto. Al contrario, la Luna preserva queste tracce praticamente intatte e questo significa che studiare i crateri lunari può rivelarsi di fondamentale importanza per cercare di comprendere le violente e drammatiche fasi iniziali della storia dei corpi del Sistema solare.

Il Mare Orientale

Tra le maggiori strutture crateriche che fanno mostra di sé sulla superficie della Luna, il Mare Orientale è quella più recente e meglio conservata. La collocazione, proprio al confine tra lato visibile e lato nascosto della Luna, ci permette solamente di osservarne uno scorcio presso il margine sud-occidentale del disco lunare. La sua caratteristica forma “a bersaglio”, con un vasto bacino centrale circondato da anelli concentrici, lo rende comunque facilmente riconoscibile. I planetologi ritengono che questa enorme cicatrice da impatto del diametro di circa 930 chilometri risalga a 3,8 miliardi di anni fa e la considerano l’esempio più significativo delle strutture da impatto complesse, quelle classificate come multiring basin. Un esempio prezioso, il cui studio potrebbe essere molto utile per comprendere a fondo quegli impatti giganti che hanno caratterizzato le fasi iniziali della formazione planetaria e hanno contribuito a modellare le superfici solide di pianeti e satelliti.

Un esempio talmente importante che i planetologi hanno sempre cercato di ottenere il maggior numero possibile di informazioni al suo riguardo. In tal senso si stanno rivelando davvero cruciali le rilevazioni raccolte, soprattutto nelle sue fasi finali, dalla missione GRAIL (Gravity Recovery And Interior Laboratory). Lanciata da Cape Canaveral il 10 settembre 2011 con un vettore Delta, la missione era composta da due sonde spaziali gemelle – battezzate Ebb e Flow – posizionate sulla medesima orbita posta 50 km al di sopra della superficie lunare. Il sorvolo di aree caratterizzate da maggiore o minore gravità, causata sia dalla presenza di elementi topografici che da accumuli di massa sotto la superficie, comportava un allontanamento o un avvicinamento reciproco delle due sonde. Dal delicato studio di questi movimenti è stato possibile trarre la mappa del campo gravitazionale della Luna. Nelle ultime orbite della missione, prima di far schiantare le sonde nella regione del Polo Nord lunare (impatto avvenuto il 17 dicembre 2012), Ebb e Flow hanno sorvolato la regione del Mare Orientale e gli anelli montagnosi che lo caratterizzano a meno di due chilometri di quota: mai nessun’altra missione ha effettuato osservazioni gravimetriche da una postazione così prossima alla superficie lunare.

Struttura e origine

In uno studio pubblicato a fine ottobre sulle pagine di Science, un team coordinato da Maria Zuber, planetologa del MIT e Principal Investigator di GRAIL, e comprendente una trentina di ricercatori ha presentato la ricostruzione della mappa gravimetrica del Mare Orientale. La loro attenzione era soprattutto focalizzata a determinare le dimensioni iniziali del cratere, cioè di quella voragine, indicata con il termine di cavità transiente, che nelle fasi successive è destinata a collassare e a subire modificazioni talmente pesanti che ne cancellano ogni traccia visibile.

Finora, differenti studi avevano di volta in volta suggerito che ciascuno dei tre anelli concentrici del bacino potesse essere la traccia che indicava le dimensioni della cavità iniziale, ma Zuber e collaboratori hanno mostrato che nessuna di quelle ricostruzione era corretta. L’analisi dei dati gravitazionali di GRAIL, infatti, ha indicato che non si è conservata nessuna traccia che possa indicare l’estensione della cavità transiente. In impatti così devastanti come quello che ha dato origine al Mare Orientale la superficie subisce rimbalzi talmente violenti da cancellare ogni traccia dell’impatto iniziale. Ricorrendo a quanto sappiamo della dinamica degli impatti, è possibile comunque stabilire una misura attendibile, seppure approssimativa, della cavità transiente originatasi al momento dell’impatto. Secondo Zuber e collaboratori il diametro del cratere iniziale si sarebbe aggirato tra i 320 e i 460 chilometri, con la rimozione e la ridistribuzione di almeno 3,4 milioni di chilometri cubi di materiale, oltre 150 volte il volume combinato dei Grandi Laghi americani.

Forti di questa importante ricostruzione, Brandon Johnson (MIT) e collaboratori propongono in uno studio pubblicato sullo stesso numero di Science i risultati delle loro simulazioni dell’evento che ha portato alla formazione del Mare Orientale. E’ la prima volta che simulazioni che si occupano della formazione di questa struttura lunare riescono a riprodurre con successo non solo la morfologia del bacino, ma anche la struttura nascosta al di sotto della superficie e rivelata dalle osservazioni di GRAIL. Lo scenario che meglio si è adattato ai dati gravimetrici vede l’impatto verticale di un proiettile del diametro di 64 chilometri che si schianta sulla superficie lunare alla velocità di 15 km/s, vale a dire 54 mila chilometri orari.

I risultati ottenuti riescono anche a gettare luce su un aspetto rimasto finora piuttosto problematico: impatti così violenti come quello che ha originato il Mare Orientale avrebbero dovuto scavare in profondità il mantello lunare portando in superficie quei materiali, ma ciò che si osserva è che la composizione della superficie del cratere è la stessa della crosta lunare circostante. Logico dunque chiedersi che fine abbiano fatto i materiali provenienti dal mantello. La simulazione di Johnson e collaboratori ha confermato la formazione del profondo cratere iniziale, ma ha anche mostrato che la struttura collassa molto rapidamente, richiamando verso la voragine i materiali circostanti che finiscono col ricoprire e nascondere le rocce del mantello.

Questo potrebbe significare, però, che al di sotto delle immense distese di lava solidificata che costituiscono i mari lunari potrebbero nascondersi le tracce concentriche di altri bacini multiring, tracce che i dati di GRAIL potrebbero finalmente svelare.

Impatti ancora più grandi

Se le dimensioni del Mare Orientale ci lasciano esterrefatti per la violenza dell’evento che l’ha generato, non dobbiamo dimenticare che nel passato della Luna vi furono impatti ben più violenti. Uno di questi, poi, risultò davvero decisivo: quello al quale oggi viene attribuita la stessa origine del nostro satellite. La teoria più accreditata per la formazione della Luna, infatti, prevede che un planetoide più o meno delle dimensioni di Marte si sia scontrato con la Terra primordiale. La violenza dell’impatto avrebbe scagliato nello spazio un’enorme quantità di detriti che, successivamente, si sarebbero aggregati dando origine al nostro satellite.

Lo scenario venne proposto a metà degli anni Settanta da William Hartmann e Donald Davis, entrambi del Planetary Science Institute, con lo scopo di giustificare le dimensioni della Luna – relativamente grandi rispetto a quelle del suo pianeta – e il suo nucleo ferroso di gran lunga più piccolo del previsto. Due anomalie che altri scenari, per esempio la cattura di un asteroide transitato nei pressi della Terra oppure il distacco di materiale della crosta terrestre, non riuscivano a spiegare.

Fino a qualche tempo fa la versione più accreditata di un simile scenario era quella pubblicata nel novembre 2012 su Science da Robin Canup (Southwest Research Institute). Per spiegare la composizione molto simile che accomuna Terra e Luna, si ipotizzava che l’impatto avesse coinvolto due planetoidi di identiche dimensioni, ciascuno dei quali con massa circa cinque volte quella di Marte, e che si trattasse di un urto radente a bassa velocità.

Lo scenario della Canup riesce a rispondere a molti dubbi, ma mostra ancora alcuni punti deboli. Per esempio, non giustifica in modo esaustivo come mai, ipotizzando l’accrezione della Luna da un disco di materiali disposti sul piano equatoriale, l’orbita attuale del nostro satellite non si trovi più sul medesimo piano, bensì risulti inclinata di 5 gradi. Fallisce parzialmente, inoltre, sul versante della somiglianza della composizione dei materiali terrestri e lunari.

Uno studio di Edward Young (University of California, Los Angeles) e collaboratori, pubblicato nel gennaio 2016 su Science, suggerisce infatti che la composizione isotopica degli elementi terrestri e di quelli lunari è talmente simile che è necessario mettere in conto un vigoroso rimescolamento dei materiali nelle fasi immediatamente seguenti all’impatto. Questo comporta il dover accantonare l’idea di un impatto radente e a bassa velocità e ipotizzare invece un impatto più energetico caratterizzato da un maggiore momento angolare. Insomma, non un banale tamponamento tra i due planetoidi, bensì un vero e proprio scontro frontale.

Un nuovo modello

Proprio tenendo conto di questi ultimi sviluppi, un team di ricercatori coordinati da Matija Ćuk (SETI Institute) ha pubblicato su Nature un modello alternativo. In questa nuova versione della teoria del grande impatto all’origine della Luna i ricercatori hanno dato seguito ad alcune importanti conclusioni alle quali lo stesso Ćuk e Sarah Stewart (Università della California, Davis) erano giunti alcuni anni fa e che avevano pubblicato su Science nel 2012. In tale circostanza, infatti, avevano risolto lo spinoso problema di come il sistema Terra-Luna potesse liberarsi di parte del suo momento angolare, dimostrando come tale momento potesse essere trasferito con successo al sistema Terra-Sole. Un dato cruciale, che permette di ipotizzare uno scenario con una collisione caratterizzata da una maggiore energia.

Il nuovo modello considera proprio un impatto frontale dieci volte più energetico di quanto previsto in precedenza, in grado dunque di originare una gran quantità di quel materiale fuso e vaporizzato che, rimescolato in modo estremamente energico ed efficace, sarebbe poi confluito nella formazione della Terra e della Luna. A seguito dell’impatto, l’asse di rotazione del planetoide che poi sarebbe diventato la Terra si inclina di una settantina di gradi, la Luna percorre un’orbita allineata con l’equatore terrestre e, per ruotare su se stesso, il nostro pianeta impiega solamente un paio d’ore.

Come individuato da Stewart e Ćuk e nel loro studio del 2012, lentamente il momento angolare del sistema Terra-Luna viene dissipato e l’evoluzione dinamica del sistema conduce sia al parziale raddrizzarsi dell’asse terrestre (oggi l’inclinazione è di 23,5 gradi), sia all’aumentare dell’inclinazione dell’orbita lunare rispetto all’equatore. Per l’ulteriore aggiustamento dell’orbita lunare, destinato a portare il sistema più o meno nella sua attuale configurazione, il sistema Terra-Luna avrebbe dovuto attendere qualche decina di milioni d’anni.

«Questa nuova teoria – ha sottolineato con soddisfazione Sarah Stewart – spiega in modo elegante sia l’orbita lunare sia il problema della composizione chimica chiamando in causa un unico gigantesco impatto iniziale. Non è affatto necessario invocare interventi successivi per giustificare come sono andate le cose. Un solo impatto gigante riesce a dare il via all’intera sequenza degli eventi.»

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