Ogni anno, ormai, in Cina quasi 10 milioni di giovani si cimentano nel gaokao, un sorta di esame di ammissione per entrare all’università. Oggi in tutto il mondo ci sono poco meno di 200 milioni di studenti universitari. Saranno oltre 260 milioni nel 2025. Oggi 4,1 milioni di studenti, il 2% del totale, frequentano un’università all’estero. Saranno più di 8 milioni nel 2025 (il 3%). Solo tre anni fa, nel 2014, gli studenti MOOC (massive open online courses), i ragazzi che in tutto il mondo frequentano corsi telematici, erano 7 milioni; oggi sono raddoppiati e hanno superato i 14 milioni. Venti anni fa in tutto il mondo solo il 14% dei ragazzi in età frequentava l’università, oggi gli studenti universitari solo il 32%. Venti anni fa solo in 5 paesi i giovani che frequentavano l’università superavano il 50%, oggi a superare quella soglia sono 54 paesi. I paesi OCSE spendono, in media, l’1,3% del Prodotto interno lordo nell’educazione universitaria (gli Stati Uniti il 2,7%). Aveva ragione The Economist quando, alcuni mesi fa, titolava: The world is going to university. Il mondo sta davvero andando verso l’università.
Mai così tanti nel mondo all'università
Il recente UNESCO Science Report. Towards 2030, il voluminoso rapporto (oltre 800 pagine) su scienza e università redatto dagli esperti dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'Educazione, la Scienza e la Cultura conferma nella sostanza: c’è un’enorme crescita di interesse, di iscrizioni e di investimenti nelle università. Ed è questo il primo indicatore di ciò che si muove nel mondo dell’alta educazione. Potremmo dire che mai il mondo ha studiato così tanto. E non solo in termini assoluti, ma anche relativi. D’altra parte gli ultimi rapporti dell’OECD su Education at a Glance confermano che i paesi dell’OECD vantano ormai il 40% dei giovani laureati nella fascia d’età 25-34 anni, che in alcuni paesi si superano largamente il 50% e che in Corea del Sud si arriva a poco meno del 70%.
Certo non mancano, soprattutto in Africa, paesi dove alla maggior parte dei giovani è negata questa opportunità. Ma è anche vero in questi ultimi due o tre decenni, le porte degli atenei si sono spalancate a ragazzi anche nella gran parte di quello che una volta si chiamava il Terzo Mondo. Tanto che oggi le iscrizioni all’università di ragazzi asiatici (non solo Cina e India e le “tigri asiatiche” ma anche nei paesi del Vicino Oriente) e latino americani non sono né in termini assoluti né in termini relativi inferiori a quelle nei paesi dell’Europa e del Nord America.
Il mutamento quantitativo è tale da assumere un forte significato anche qualitativo. È chiaro che, con l’università diventata letteralmente una scuola di massa a scala globale, l’universo cognitivo intorno a noi è decisamente cambiato. E se l’università sta cambiando il mondo, è anche vero che il mondo sta cambiando l’università lungo due direzioni che sembrano in contraddizione. Entrambe sono segnalate da Patrick Aebischer, Presidente della Ecole polytechnique fédérale de Lausanne,in Svizzera: aumenta la competitività tra gli atenei e, insieme, aumenta la collaborazione.
Sempre più globali e competitive
Le università, sostiene Aebischer, sono istituzioni di un mondo globale. Ma, nel medesimo tempo, sono diventate esse stesse un attore globale. Nel senso competitivo del termine. Lottano tra di loro per attrarre fondi, i migliori docenti, i migliori ricercatori e i migliori studenti. Non è un caso se, nel giugno 2003, è stato reso pubblico il primo Academic Ranking of World Universities (ARWU) a opera del Center for World-Class Universities della cinese Shanghai Jiao Tong University, cui sono poi seguite classifiche elaborate da altri centri. Questi ranking hanno molte lacune, ma non sono estemporanee. Sono la presa d’atto di qualcosa che è già avvenuto ed è tuttora in fase di accelerazione: la competizione tra le università a scala planetaria. E, dunque, i ranking sono una sorta di distillato in numeri di un fenomeno in atto. Il fatto poi che il fenomeno in atto sia nuovo non significa che sia positivo o del tutto positivo. Ma sugli aspetti qualitativi del fenomeno non entriamo in questa sede.
Prendiamo atto, tuttavia, che la competizione tra le università a scala globale sta determinando un aumento dei costi di accesso. Consideriamo gli Stati Uniti: il debito contratto dagli studenti di quel paese, secondo The Economist, ammonta ormai alla cifra davvero astronomica di 1.200 miliardi di dollari e ha superato persino quello delle carte di credito e dei prestiti per l’acquisto di automobili. E prendiamo atto che, per paradosso, proprio mentre l’università di massa si sta affermando a scala globale, l’accesso alle migliori università – se non avviene per merito, ma per censo – rischia di essere un nuovo fattore di divisione sociale.
È anche vero, in ogni caso, che se il vertice delle migliori università del mondo è stabilmente occupato da quelle americane, è anche vero che si affacciano verso quartieri sempre più alti nuovi atenei, la maggior parte dei quali è localizzato in Asia. A dimostrazione la formazione di qualità – o, almeno, quella più competitiva – inizia a essere una prerogativa diffusa.
È tutto un va e vieni di prof
La seconda novità sostanziale nel mondo delle università ha un segno opposto. Alla competizione si accompagna, infatti, la collaborazione. Il mondo della produzione della conoscenza si sta non solo globalizzando, ma anche delocalizzando. Docenti e ricercatori di diverse università, anche fisicamente molto distanti, collaborano tra loro a progetti comuni.
E se nel top ten dei ranking che misurano le performance delle università figurano, in genere, tutte università americane con un paio di università inglesi, il quadro cambia nella classifica dell’internazionalizzazione. Il CWTS Leiden Ranking, che si basa solo si indicazioni bibliografiche relativa a 800 università del mondo, rileva per il 2016 il prima della China Medical University di Taiwan con il 93,9% dei lavori pubblicati in collaborazione con altre università. Seguono, tutte al di sopra del 90%, un’università inglese, un’altra cinese di Taiwan, quattro università francesi, una belga, una dell’Arabia Saudita e una dell’Italia (l’Università di Trieste). Tra le prime dieci non ce n’è alcuna americana. Ad avere una maggiore proiezione internazionale, sono, dunque, le europee. Le ragioni sono molte (le collaborazioni tra università dell’Unione europea ma di diversi paesi sono considerate internazionali), ma l’indice, per quanto necessiti di essere corretto, segnala vivacità.
È interessante notare che nella classifica 2015 delle università impegnate in collaborazioni con altri istituzioni distanti oltre 5.000 chilometri, a parte l’Università delle Hawaii, ce ne siano quattro Sud africane e due Latino americane. Certo, la classifica è determinata dalla necessità geografica. E tuttavia segnala che la globalizzazione della conoscenza non è solo uno slogan.