Yellowcake Barrels. Credit: IAEA Image Bank.
Lo scorso 19 aprile il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha dato ordine di procedere a una verifica, entro 90 giorni, del rispetto degli accordi sul “nucleare iraniano” raggiunto il 14 luglio 2015 tra Teheran e i “5+1” (i cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite più la Germania). Tra le altre cose, l’accordo prevede che l’Iran debba ridurre le sue scorte di uranio arricchito a soli 300 Kg, il 98% in meno rispetto alle 15 tonnellate in suo possesso alla data dell’accordo. Inoltre l’uranio non potrà essere arricchito oltre il 3,67%, una percentuale utile ad alimentare una centrale nucleare per la produzione di energia elettrica (nucleare civile), ma insufficiente a produrre bombe a fissione (nucleare militare). Infine l’Iran non potrà possedere che 6.104 centrifughe (peraltro obsolete) per l’arricchimento dell’uranio rispetto alle 20.000 di cui si era dotata fino al 2015.
A complicare questo quadro ci sono, però, altri due fattori: 1) il piano energetico di Teheran, che prevede legittimamente la costruzione di centrali nucleari per la produzione di 20.000 MWe (megawatt elettrici); 2) l’Iran ha proprie miniere, da dove estrae legalmente uranio (secondo alcune stime non confermate, a un ritmo di 6 tonnellate per anno). La verifica del rispetto degli accordi è affidata ai tecnici dell’IAEA (International Atomic Energy Agency), l’Agenzia scientifica e tecnica con sede a Vienna che per conto delle Nazioni Uniti si occupa di tutte le questioni che riguardano il nucleare.
Relazioni pericolose USA - Iran
La nuova, possibile crisi tra Washington e Teheran è, soprattutto, una crisi di fiducia. E, infatti, il portavoce della Casa Bianca, Sean Spicer, ha dichiarato che la verifica unilaterale degli accordi da parte degli Stati Uniti è un passo “prudenziale”. Avere le prove, appunto, che l’Iran non stia imbrogliando. Ma il timore di molti è che si riapra un nuovo contenzioso.
Ebbene, una delle chiavi per risolvere sul nascere la nuova crisi sul “nucleare iraniano” che rischia di aprirsi dopo l’annuncio della Casa Bianca si trova a Öskemen, una città di 290.000 abitanti che sorge alla confluenza del fiume Ul'ba nel fiume Irtyš, in Kazakistan. Lì, infatti, l’IAEA sta allestendo la sua Low Enriched Uranium (LEU) Storage Facility, la sua “banca dell’uranio scarsamente arricchito” con lo scopo di fornire il combustibile utile per il “nucleare civile” ai paesi che non riescono a produrlo o ad acquistarlo sul mercato internazionale.
Una misura anti-proliferazione
Per capire perché a Öskemen ci sia una chiave per chiudere la porta a una nuova crisi in Medio Oriente occorre risalire al 27 agosto 2015, quando ad Astana, la capitale del Kazakistan, il direttore generale dell’IAEA, Yukiya Amano, e il ministro degli esteri della repubblica ex sovietica, firmarono l’accordo per la realizzazione della Low Enriched Uranium Storage Facility con la benedizione dei rappresentanti dei cinque paesi membri del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e con i fondi – 150 milioni di dollari – messi a disposizione da Stati Uniti, Unione Europea, Emirati Arabi Uniti, Norvegia, Kuwait, oltre che dallo stesso Kazakistan e da associazioni private, come l’americana Nuclear Threat Initiative.
Lo scopo principale della LEU Bank fu presto dichiarato: evitare la proliferazione nucleare, garantendo il diritto di ciascun paese a perseguire un proprio programma di “atomo civile” e assicurando il mondo, attraverso il controllo del combustibile, che non si sarebbe trasformato in un programma di “atomo militare”. In pratica la banca di Öskemen, stoccando a regime almeno 90 tonnellate di uranio debolmente arricchito (non più del 4%, appunto) in grado di garantire il combustibile necessario a un reattore da 1.000 MWe, ambirebbe a realizzare l’antico sogno di Albert Einstein, che dopo Hiroshima e Nagasaki propose che tutto che l’intero stock globale di materiale fissile fosse affidato a un sistema di controllo internazionale.
Kazakistan: tanto uranio da vendere
In realtà Öskemen non ambisce a essere – non per ora, almeno – la sola banca di uranio debolmente arricchito. Ce ne sono altre, a carattere nazionale: come il Centro di arricchimento dell’uranio che la Russia possiede a Angarsk o come quelli in dotazione a Regno Unito e Stati Uniti. Proprio questi tre centri, anzi, garantiscono che la banca internazionale di Öskemen sarà sempre ben fornita.
Ma perché realizzarlo proprio nel Kazakistan, questo deposito di uranio per centrali nucleari civili? I motivi sono tre. Il primo è che la ex repubblica sovietica è il primo produttore al mondo di uranio: detiene il 15% delle riserve accertate. Il secondo è che non ha un proprio programma nucleare civile. Il terzo è che, alla caduta dell’Unione Sovietica, ha unilateralmente rinunciato all’arsenale nucleare presente sul suo territorio e, dunque, a sviluppare un proprio programma nucleare militare. Il Kazakistan, dunque, offre tutte le garanzie di sicurezza necessarie.
950 "torte gialle" in viaggio verso Teheran
L’accordo tra la IAEA di Vienna e il Kazakistan è entrato in vigore lo scorso 31 gennaio. Il 22 marzo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica ha pubblicato il testo dell’accordo sul proprio sito. E si prevede che la Low Enriched Uranium (LEU) Storage Facility entrerà in funzione entro il prossimo mese di settembre. Intanto ha già prodotto due accordi tra Iran e Kazakistan. Lo scorso 14 luglio 2016 i governi dei due paesi hanno firmato un accordo che prevede lo scambio di 60 tonnellate di uranio naturale. Mentre il successivo 25 febbraio 2017 Teheran ha annunciato di aver chiesto ufficialmente al Kazakistan di poter acquistare 950 tonnellate di “yellowcake” (torta gialla). Si tratta di minerali di uranio concentrato. I minerali che si trovano in natura contengono solo piccole quantità di uranio: non più dell’1,5%. Con una serie di processi di purificazione si giunge a ottenere, appunto, lo yellowcake, un miscuglio di ossidi che contengono fino al 70% di uranio. Ma si tratta, ancora, di uranio con una composizione isotopica naturale. Dove l’isotopo attivo, l’235U, è presente solo in ragione dello 0,71%. È necessario, poi, un processo di arricchimento, per far sì che l’235U superi la soglia critica necessaria del 3,5%, per poter alimentare un reattore.
Passaggi sospetti in Russia
Senza voler entrare nel dettaglio, Teheran, malgrado le sue miniere di uranio (controllate ora dall’IAEA) ha chiesto al Kazakistan 650 tonnellate di yellowcake per i prossimi due anni e 300 tonnellate per il 2019. Ma non ha più le capacità di arricchimento. Per cui ha chiesto alla Russia di arricchire la “torta gialla” acquistata in Kazakistan. Si tratta di una serie di passaggi assolutamente legali, nell’ambito dell’accordo raggiunto con i “5+1” nel 2015. Ma che insospettiscono gli scettici. Ecco perché è auspicabile che la LEU Bank di Öskemen entri al più presto in una fase operativa. E assuma il controllo pressoché monopolistico del commercio dell’uranio arricchito, offrendolo in maniera trasparente a chi lo richiede.
In una condizione ideale, dunque, sarebbe auspicabile che l’Iran fornisse alla Banca l’uranio naturale che estrae dalle sue miniere e che poi ne acquisti quanto necessario per sviluppare il suo programma nucleare civile. Con un’unica eccezione, la minima quantità di arricchimento a fini di ricerca scientifica e di sviluppo tecnologico che è possibile realizzare con le sue 6.104 centrifughe. Un percorso di questo genere dovrebbe fornire ulteriori e limpide garanzie che Teheran sta cercando un modo alternativo al petrolio per produrre energia elettrica e non sta cercando di allestire un arsenale atomico. Ecco perché dal prossimo settembre una delle chiavi per risolvere sul nascere una nuova crisi tra Washington e Teheran si troverà a Öskemen, in Kazakistan.