Gianfranco Pacchioni, chimico e scienziato dei materiali, prorettore in Bicocca, ha scritto un libro necessario. Di cosa parla? Di scienza, di come funziona la ricerca oggi rispetto a 20, 50, 100 anni fa.
All’inizio della sua carriera di ricercatore, Pacchioni scriveva su una macchina a testina rotante. La sua società scientifica contava qualche migliaio di iscritti, ora centinaia di migliaia. E per corrispondere con i suoi colleghi, magari per la revisione di un articolo scientifico, spediva per posta lettere e bigliettini. Talvolta - come nella storia della sua collaborazione con alcuni colleghi della Germania Est prima della caduta del muro (fra cui la fisica Angela Merkel) - lettere che restavano forzatamente senza risposta. In quei casi per comunicare bisognava sfruttare i rari congressi in DDR dove, scortato con discrezione da una spia della Stasi, Pacchioni riusciva a scambiare qualche battuta con i colleghi d’oltre cortina.
Dai club ai megacongressi
In fondo tutto il libro (Scienza, quo vadis? Il Mulino, 2017) è dominato dal confronto fra la ricerca di ieri e quella di oggi: dai 29 partecipanti del congresso Solvay del 1927, quando Einstein e Bohr litigavano sul principio di indeterminazione e si scambiavano battute su Dio e i dadi, ai megacongressi di oggi dove ci si perde in una foresta di poster, e si ha l’impressione che molti di quei PhD potrebbero benissimo essere al tuo posto nella plenaria. Ma in realtà la maggior parte sarà destinata a restare ai piani bassi della ricerca, molti molleranno per cercarsi un impiego in qualche azienda, perché non c’è posto per tutti nell’accademia.
Troppi ricercatori?
Il libro snocciola dati impressionanti sulla crescita di ricercatori nel mondo, da 1.700.000 nel 1975 ai circa 10 milioni attuali. Riferito alla crescita della popolazione mondiale, da 1 ricercatore ogni 3000 abitanti del 1960 a 1 ricercatore ogni 700 abitanti oggi. Di conseguenza anche il numero delle pubblicazioni scientifiche è cresciuto vertiginosamente. Nel 1960 c’erano a disposizione 2 milioni di lavori scientifici prodotti nei precedenti tre secoli. Oggi si calcola che 2 milioni di articoli vengano pubblicati ogni anno.
Quello che turba giustamente l’autore è che a fronte dei 2 milioni di paper dei primi tre secoli di scienza modernamente intesa abbiamo avuto una serie non indifferente di rivoluzioni: dalla termodinamica all’elettromagnetismo, la teoria dell’evoluzione, la relatività, l’individuazione della struttura del DNA… E oggi cosa abbiamo? Come è cambiata la scienza?
Publish or perish
Rispetto a quel passato, oggi la scienza è un fatto certamente più diffuso, iper-specialistico e dal procedere incrementale. Un’attività meno individuale e più di gruppo - anche di vastissime collaborazioni con più di mille autori per ogni articolo. Sicuramente meno essenziale e più dispersiva. Più competitiva (chiaro e utile il capitolo dedicato ai numerosi strumenti di misurazione dell’eccellenza dei ricercatori, come l’h index) e condizionata dal motto “publish or perish” e dalla realtà dei “predatory journals”.
Sprechi, plagi e bufale
Non a caso Pacchioni dedica alcune pagine del libro al fenomeno dello spreco nella ricerca, ma anche al plagio (si valuti il caso Madia alla luce dell’episodio narrato dall’autore della tesi di una dottoranda al Karolinska di Stoccolma, pag. 54-57), così come alla meno diffusa piaga delle frodi scientifiche, che si stima intorno al 2% dei lavori, un dato probabilmente sottostimato. Oltre al caso della truffa di Wakefield sul legame fra il vaccino morbillo-parotite-rosolia e autismo, l’autore narra nel dettaglio la storia di Hendrik Schön, dei laboratori Bell, che per tre anni è riuscito a far credere a riviste come Nature e Science che i suoi dati sui transistor organici fossero veri e non inventati di sana pianta.
La buona scienza
Possiamo continuare a credere nella scienza, si chiede Pacchioni nelle ultime pagine? In fondo sì, perché seppure con ritardo, il metodo scientifico consente di far emergere le “mele marce” e di garantire un progresso solido delle conoscenze. Tuttavia il panorama attuale desta non poche preoccupazioni sull’efficienza e l’efficacia del fare scienza. E forse anche su quanto sia davvero premiato il merito e la buona ricerca. Va quindi letto con attenzione il Manifesto di alcuni ricercatori tedeschi in favore della "Slow Science", con cui si chiude il libro. Magari non “slow” come Charles Darwin che ci ha messo trent’anni a mettere nero su bianco la sua teoria dell’evoluzione, ma nemmeno “instant” come le pubblicazioni che vanno di moda oggi.