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Oltre la maledizione di Ondine

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Narra il mito che la ninfa Ondine si fosse innamorata di un mortale. Quella di poter avere un matrimonio allietato da un figlio era l’unico modo per le ninfe di acquisire un’anima. Così la ninfa si unisce all’uomo, da cui ha un figlio. Passa un anno e il marito la tradisce. Le ninfe sono tanto dolci quanto implacabili se tradite. Cosicché, visto che il marito aveva dichiarato che le sarebbe stato fedele fino al suo ultimo respiro, la ninfa lo condanna alla veglia perenne in quanto se si fosse addormentato si sarebbe “dimenticato di respirare”.

Deriva da questa “maledizione di Ondine” il nome assegnato ai primi pazienti affetti dalla Sindrome di Ipoventilazione Centrale Congenita (in sigla inglese CCHS), una condizione rarissima (colpisce circa 1 bambino ogni 200mila nati) caratterizzata dal malfunzionamento del sistema nervoso autonomo che governa il respiro durante il sonno. La malattia si manifesta subito dopo la nascita e rende necessario soccorrere il neonato con la ventilazione meccanica. Ad oggi non esistono farmaci in grado di portare a guarigione.

Una malattia ancora giovane

La sindrome è stata scoperta negli anni settanta del secolo scorso. Il primo in Italia a individuarla in un paziente è stato Raffaele Piumelli, che ne dà notizia nel 1990 sulla Rivista Italiana di Pediatria. Il bambino, nato per taglio cesareo alla 38a settimana aveva presentato subito una crisi di ipossia. Soccorso nelle prime ore di vita e immediatamente intubato, il bambino riprende a respirare durante la veglia. Giunto il momento del sonno, il respiro peggiora di nuovo. Il neonato viene quindi sottoposto a una serie di analisi che rivelano come il respiro viene meno in particolare durante il sonno non-REM. Viene quindi posta la diagnosi di “Maledizione di Ondine”, come si usava chiamarla allora.

Piumelli scopre che a Monaco di Baviera un medico assiste alcuni casi di Ondine non con la normale ventilazione meccanica ma con un pacemaker diaframmatico, in sostanza un elettrostimolatore che viene impiantato sottocute e che va a eccitare i nervi frenici, i quali provocano la contrazione periodica del diaframma consentendo così la ventilazione.

Da molti anni Piumelli è il responsabile del Centro dei Disturbi Respiratori nel sonno dell’Ospedale pediatrico Meyer di Firenze. Il bambino salvato da quell’intervento descritto 27 anni fa è ancora vivo e conduce un’esistenza più che accettabile. I suoi genitori sono stati tra i fondatori dell’Associazione delle famiglie della Sindrome di Ondine (AISICC) che da allora è cresciuta di numero e collabora con medici e ricercatori.

La malattia ha avuto anche una inaspettata pubblicità dal documentario nominato all’Oscar 2015 “Our curse”, in cui il regista polacco Tomasz Śliwiński racconta insieme alla moglie, la fotografa Magda Hueckel, i primi sei mesi della vita di loro figlio Leo.

Questione di geni

Ma perché la “maledizione di Ondine” toglie il respiro? Nel sonno la respirazione è governata dal sistema neurovegetativo, che come un pilota automatico regola il respiro rispondendo ai segnali dei chemorecettori dell’ossigeno e dell’anidride carbonica presente nel sangue. Nella sindrome di Ondine questo controllo chimico manca a causa di mutazioni genetiche. Quella accertata finora riguarda PHOX2b, un gene master presente nei neuroni che popolano il tronco encefalico (in particolare il nucleo retrotrapezoide) e che regola l’espressione di altri geni coinvolti nello sviluppo del sistema nervoso autonomo.

La Sindrome di Ondine è una malattia autosomica dominante a penetranza incompleta, quindi si manifesta nel caso che uno dei due alleli di questo gene presenti mutazioni significative.

Le mutazioni specifiche di questa malattie nel 90% dei casi riguardano l’espansione delle alanine presenti nella proteina prodotta dal gene. Nella forma normale la proteina ne presenta 20, mentre a seconda della mutazione del gene, esse possono presentare espansioni di 5, 7 o più, fino a un massimo di 13.

Come in altre malattie (si pensi alla còrea di Hungtigton, anch’essa caratterizzata da espansioni di triplette) maggiore è il numero delle espansioni, più severo è il quadro della sindrome. Nei casi +5 o +7, di norma, la condizione è meno grave il paziente ha bisogno essenzialmente di assistenza ventilatoria nottuna. Il quadro clinico peggiora con l’aumento delle espansioni fino ai - per fortuna rari - fenotipi +13, in cui la regolazione del sistema neurovegetativo si manifesta, oltre che con una forma molto grave di Ondine, spesso con lo sviluppo di neuroblastomi, e altre condizioni che interessano il cuore o l’intestino, come la malattia di Hirschsprung.

Farmaci e staminali

Pur non esistendo farmaci risolutivi, si è notato che alcune molecole possono - a seconda delle caratteristiche individuali della sindrome - migliorare il decorso della malattia. E’ il caso del progesterone, come di altri medicinali ora in studio.

Ma ciò che si sta profilando all’orizzonte è, se non una specifica terapia genica, quanto meno uno screening dei farmaci in base alle caratteristiche genetiche dei pazienti. Al Dipartimento di Biotecnologie Mediche e Medicina Traslazionale dell’Università di Milano, Diego Fornasari sta conducendo studi particolarmente importanti su questo versante. A lui si deve per esempio l’identificazione di alcune delle famiglie di geni controllati da PHOX2b: molti di questi hanno a che fare con i canali ionici che attivano o inibiscono le cellule nervose, e sui quali si possono già sperimentare alcune molecole note per essere attive su questi target.

Un’altra strategia su cui sta lavorando Fornasari è quella di selezionare farmaci che potenzino l’allele sano di PHOX2b, nell’ipotesi che questo possa compensare l’effetto negativo dell’alleale mutato.

In collaborazione con il Meyer di Firenze e l’associazione dei pazienti, Fornasari sta conducendo una ricerca volta a riprogrammare cellule cutanee dei pazienti in cellule staminali facendole poi specializzare in neuroni del sistema nervoso autonomo. “In questo processo di riprogrammazione staminale noi possiamo ricapitolare a livello cellulare, per ogni paziente, lo sviluppo della sua malattia a partire dalla fase embrionale. Questo ci consente di comprendere meglio i meccanismi della malattia conoscendone la storia, e di individuare nuovi target farmacologici”.

Aiutare il respiro

Per chi è sano, respirare appare come la cosa più naturale e più semplice del mondo. In realtà molte cose sono ancora avvolte nel mistero. Perché, per esempio, alcuni malati respirano meglio di altri, pur in presenza dello stesso difetto genetico? Esistono evidentemente meccanismi compensatori che ancora non conosciamo. Come spiega Piumelli: “La rete neurale che presiede alla chemosensitività di ossigeno e anidride carbonica nel sangue è tutt’altro che chiara. Alcuni studi fanno ipotizzare l’esistenza di altri meccanismi che intervengono nel respiro in assenza della via principale controllata dal gene PHOX2b”.

Negli ultimi anni si sono affinate anche le tecniche di ventilazione meccanica dei pazienti, che a seconda della gravità della loro malattia difettano del respiro durante la fase profonda del sonno o anche durante la veglia. E’ importante, quindi prima di tutto definire con precisione il grado di severità della sindrome e supportare il respiro del paziente in modo da evitare crisi di ipossia che possano pregiudicare lo sviluppo fisico e cognitivo della persona. A questo fine l’équipe di Piumelli sottopone i pazienti a esami approfonditi come la polisonnografia testando la capacità di ripresa della respirazione autonoma. In questo modo è possibile personalizzare l’assistenza respiratoria e renderla più efficace, optando, a seconda dei casi, per la ventilazione con tracheostomia o per la forma non invasiva, mediante mascherine. E, solitamente nei casi più gravi di deficit respiratorio, ricorrendo al pacing diaframmatico.

“Ciò che va evitato assolutamente sono le lunghe apnee” spiega Piumelli. “Infatti, più aumenta l’anidride carbonica nel sangue, più diminuisce l’ossigeno, maggiori sono i rischi di alterazioni a carico del sistema nervoso. Se ventilati correttamente durante la notte, si evitano questi rischi”.

Una rete per sconfiggere la malattia

Un altro centro importante nella diagnosi della sindrome di Ondine è l’Istituto Gaslini di Genova, all’avanguardia per gli studi di genetica e per lo screening dei malati, che ancora troppo spesso vengono individuati con ritardo, a volte con esiti letali. Può succedere anche che genitori affetti da disturbi respiratori o di altro genere magari non particolarmente gravi e mai chiariti scoprano di essere interessati dalla stessa mutazione genetica del figlio nato con sindrome di Ondine, grazie al test genetico eseguito dopo la nascita del figlio.

E se in alcuni paesi come la Francia, la Germania e l’Italia l’assistenza specialistica è garantita da centri di eccellenza come il Meyer e il Gaslini, in altri Paesi - soprattuto nell’Est europeo - vi è ancora una forte arretratezza. Per questo è particolarmente importante la rete di specialisti creata in questi anni anche grazie al progetto EUCHS, che coinvolge attualmente 11 paesi europei. L’obiettivo è quello di scambiare esperienze e conoscenze scientifiche e di costituire registri nazionali dei pazienti CCHS: i primi passi di una medicina traslazionale capace di dare le cure più mirate a questi sfortunati pazienti. Se ben curati, infatti, la “maledizione di Ondine” può diventare un lontano ricordo. E’ il caso di Leo, che l’anno scorso ha potuto rimuovere la ventilazione per tracheostomia e oggi è un bel bimbo di sei anni con un fratellino.

Questa come la foto di apertura di Leo sono tratte dal blog dei genitori di Leo: http://www.leoblog.pl. dove è possibile lasciare una donazione. 


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