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Il terrorismo è comunicazione, anzi spettacolo

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Persone ferite all'esterno della Victoria Station a Manchester e sulle scale che conducono alla Manchester Arena subito dopo l'attacco suicida avvenuto al termine del concerto di Ariana Grande il 22 maggio scorso. Credit: Joel Goodman/LNP.

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Oggi gli europei si sentono minacciati da due avvenimenti: il flusso crescente di migranti dall’Africa e dall’Asia e il ripetersi di episodi di uccisioni e ferimenti di massa attribuiti a vari gruppi, in particolare al cosiddetto Stato islamico. Gli individui, i popoli e le istituzioni reagiscono in vario modo (dalla Brexit alla costruzione di muri, dalle mete per le vacanze al successo di nuovi movimenti politici, dalla guerra agli interventi umanitari), ma sembra che quasi nessun comportamento o decisione sia immune dalla percezione di dover reagire a un pericolo concreto e imminente.

Per non prendere abbagli, è utile tentare di chiamare le cose col loro nome e cercarne di capire la natura, cominciando dal concetto di “nuovo terrorismo islamico”.

E’ giusto parlare di terrorismo?

Sì, quando la violenza si accompagna all’esplicita intenzione di terrorizzare il pubblico. Da questo punto di vista il “terrore” – sin dai tempi della rivoluzione francese che l’ha inaugurato in epoca moderna – è una forma di comunicazione, che ha a che fare con lo spettacolo da una parte e col marketing dall’altro.

Colpirne uno per spaventarne cento. La paura è un’emozione, in genere di breve durata, ma il ripetersi incalzante e imprevedibile degli spaventi produce uno stato di insicurezza che può stabilizzarsi e indurre tutti – gli individui, le comunità, le istituzioni – a prendere decisioni controproducenti su base emotiva.

Il terrore ingigantisce e moltiplica la portata degli attacchi, ma non è fine a se stesso. Chi pianifica la messa in scena vuole provocare ben altro: reazioni sproporzionate e contro falsi obiettivi, con due scopi principali: dividere e rendere più debole l’avversario, facendogli fare le cose sbagliate; e ingigantire la propria potenza, facendosi credere invincibile e potente, ben oltre la realtà, per attirare a sé nuovi proseliti.

Per ottenere questi risultati, il terrorismo allestisce sulla scena mondiale una rappresentazione (dove purtroppo il sangue, i morti e il dolore sono autentici) per far credere cose non vere. Per esempio: il numero di morti e feriti prodotti dagli attentati non è in aumento su scala globale, e in Europa è comunque piccolo rispetto ad altri rischi che affrontiamo quotidianamente senza pensarci (per strada, sul lavoro, in casa) e senza chiedere provvedimenti straordinari per ridurli. E’ molto più facile morire per un meteorite sulla testa che per mano di un terrorista.

Questo argomento è importante, non per sminuire la gravità e la ferocia dei singoli attentati, – né perché ci si debba illudere che un calcolo razionale delle probabilità possa prevalere sull’emotività a livello di reazioni di massa – ma per comprendere il “gioco di prestigio” che i professionisti del terrore sanno mettere in opera.

Quali sono i messaggi e a chi sono diretti?

La messa in scena del terrore si rivolge a un pubblico globale, ma distinto in due grandi categorie manichee: gli “infedeli”, che devono essere spaventati e provocati a reagire scompostamente; e i “fedeli”, che devono essere incoraggiati a sentirsi più forti e a ingrossare le file dei terroristi. Il grido “Allah Akbar” (con cui spesso esordisce l’attacco) o le domande sui versetti del Corano (usate per scegliere chi torturare o uccidere), per esempio, hanno lo scopo di discriminare drasticamente le due metà del pubblico, ma la religione non c’entra. E’ evidentemente solo un pretesto, ed è una chiave scelta – per esempio dai veri fondatori dell’IS, notoriamente laici (vedi “Le origini di Daesh", di Christian Elia) – proprio perché il fanatismo religioso è un comodo paravento dietro cui nascondere strategie e scopi, molto materiali, che non si vogliono far percepire.

La forza terrificante dello spettacolo è sostenuta con mezzi elementari, ma molto efficaci: si pensi al boia incappucciato e vestito di nero che decapita un povero cristo, cercando di produrre una doppia immedesimazione. Gli infedeli devono sentirsi con la lama sul collo, i fedeli con la sciabola in mano. Anche la scelta delle vittime è attenta a dosare questa opposta identificazione: gli attentati con target mirati, come quello alla redazione di Charlie Ebdo , sono diversi da quelli indiscriminati, come le esplosioni o le sparatorie in locali pubblici, in aeroporti o gli investimenti sulla Promenade di Nizza. Nel primo caso si punta a massimizzare l’immedesimazione dei “fedeli” con i terroristi, nel secondo quella degli “infedeli” con le vittime.

Sono omicidi o suicidi?

Gli attori sono sempre più spesso in gran parte suicidi, ma non sono percepiti come tali (e i mandanti non desiderano che lo siano). Il pilota che fa schiantare l’aereo trascinando tutti i passeggeri nella sua morte è considerato un malato di mente. L’attentatore che si fa saltare in mezzo alla folla è un assassino per chi sta dalla parte delle vittime, e un martire combattente per chi vuole suscitare terrore. Nessuno deve accorgersi che anche lui è una vittima sacrificata come le altre per la buona riuscita dello spettacolo; ci si pensa al massimo quando si tratta di bambini.

Il suicidio rende molto efficiente il terrorismo e difficile l’opera di contrasto, ma non è questo il solo motivo per cui prevale, come non lo è la differenza tra i massacri indiscriminati e quelli mirati.

Un attentato come quello alle Torri Gemelle non può essere compiuto senza rimetterci la vita, mentre chi attacca una redazione potrebbe sperare di scappare indenne. Ma all’epoca di Al Quaeda gli attentati prevedevano una lunga preparazione e gestazione da parte di cellule clandestine costituite da soggetti selezionati, fortemente motivati e ben addestrati, la cui morte era un sacrificio personale e per l’organizzazione, accettabile solo in vista della efficacia terrorizzante. Ci vogliono mesi se non anni per rimettere in piedi una cellula terroristica del genere, e questo costituisce un limite per chi vuole rappresentarsi come una minaccia permanente e incombente.

In molti dei casi più recenti la difficoltà è stata capovolta, attraverso quello che appare a tutti gli effetti come un franchising del terrore. I mandanti non si fanno più carico di reclutare adepti, di addestrarli e infiltrarli in paesi occidentali, di mantenerli in sonno ma pronti a sacrificarsi, di preparare piani e indicare obiettivi. L’organizzazione terroristica si limita a incitare chiunque lo voglia a fare il maggior numero di vittime possibile usando qualsiasi mezzo a disposizione. In questo modo si possono saltare tutti i passaggi e si punta in realtà a reclutare in ogni dove persone già sull’orlo del suicidio in odio a tutti, a cui il clamore mediatico dei precedenti attentati dà la spinta finale proponendo un esempio da emulare.

E’ colpa dei mass media che fanno grancassa?

Se allo spettacolo dei massacri assistessero solo i testimoni oculari, come alla ghigliottina della Rivoluzione francese, non esisterebbe il terrorismo globale. I mezzi di comunicazione di massa sono uno strumento essenziale del terrorismo contemporaneo, ma la loro importanza è ormai superata dai nuovi media.

I video delle persone che si gettavano nel vuoto dalle Torri Gemelle, come quello della fuga dalle finestre del Bataclan sono stati e sono tuttora capaci di amplificare milioni di volte lo spavento di quegli attimi, rendendoli eterni. Se anche per assurdo si trovasse il modo di indurre i giornali e le televisioni a ridimensionare l’eco mediatica degli attentati, per non fare il gioco dei terroristi, le cose non cambierebbero in meglio. I nuovi canali informali di circolazione delle informazioni, soprattutto per le immagini, sono ormai infinitamente più potenti di quelli tradizionali, soprattutto quando sorga il sospetto di congiura del silenzio.

Come per ogni altro fenomeno della società contemporanea, l’unica possibile difesa dall’uso criminale di strumenti come il marketing e lo spettacolo non è la censura, ma la capacità di giudizio critico, a livello individuale e collettivo. Una domanda cruciale di fronte a qualsiasi forma di comunicazione resta: qual è l’intenzione di chi comunica?

Perché ci vogliono far credere che sia in gioco la nostra sicurezza e quella dei nostri figli? Per indurci a dividerci, a fare la guerra e a costruire muri.

Bibliografia:
- Barry Glassner, The Culture of Fear. Why Americans Are Afraid of the Wrong Things: Crime, Drugs, Minorities, Teen Moms, Killer Kids, Mutant Microbes, Plane Crashes, Road Rage, & So Much More, 2010.
- Daniel Gardner, The Science of Fear: How the Culture of Fear Manipulates Your Brain, 2009.
- Frank Furedi, Culture of Fear Revisited, Bloomsbury Academic, 2006.
- Jonathan Matusitz, Terrorism and Communication. A Critical Introduction Sage, 2013.

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