fbpx Homo sapiens reloaded | Science in the net

Homo sapiens reloaded

Irhoud 1, approx. 160,000 yrs old, Smithsonian Natural History Museum

Tempo di lettura: 4 mins

Ancora un volta, la storia di Homo sapiens, la nostra storia, deve essere riscritta. E può anche essere meglio ricostruita. Una nuova scoperta, realizzata presso il sito di Jebel Irhoud, in Marocco, da un gruppo guidato da Jean-Jacques Hublin, del Max Planck Institute per l’Antropologia evoluzionistica, e comprendente l’italiano Stefano Benazzi, dell’Università di Bologna, sposta infatti nel tempo e nello spazio l’origine della nostra specie.

Il dato di cronaca è contenuto in due articoli pubblicati su Nature lo scorso 8 giugno. Il cui succo è questo: 315.000 anni fa (in realtà, tra 350.000 e 280.000 anni fa), il sito di Jebel Irhoud era frequentato da membri del genere Homo che, sia da un punto di vista morfologico, sia da un punto di vista culturale (gli strumenti che utilizzava) che sono tipici della nostra specie, Homo sapiens.

L’interno della calotta cranica, per esempio, è molto simile a quella di noi sapiens e ha una forma che, in qualche modo, indica l’inizio di un processo evolutivo che porterà alla forma globulare della nostra testa. Nel medesimo tempo le pietre risultano lavorate in un modo molto simile a quello dei primi sapiens finora conosciuti. Certo, conviene essere prudenti. Perché gli errori nell’ambito dell’antropologia sono sempre possibili. Ma la datazione è sufficientemente certa e l’analisi comparata, su basi statistiche, con resti i più vari appartenenti a più individui del genere Homo, vissuti tra 1,8 milioni e 150.000 anni fa, sembra affidabile.

Diamo, dunque, per assodato, ancorché in via provvisoria, che Jebel Irhoud sia stata frequentata, oltre 300 millenni fa, da Homo sapiens. Perché, allora, questa scoperta cambia nel tempo e nello spazio il racconto della nostra origine?

Origini da ripensare

Diciamo subito che i resti più antichi di Homo sapiens fino alla scoperta di Jebel Irhoud risalivano a 195.000 anni fa e erano localizzati al di sotto del Sahara, in un’area dell’Africa centro-orientale che coinvolge la Rift Valley. Di recente resti antichi di Homo sapiens sono stati rinvenuti anche più a sud del continente nero. I resti trovati sopra il Sahara erano tutti molto più recenti. Gli antropologi molecolari, inoltre, ci dicono che la linea evolutiva dei sapiens si è separata da quella di altri membri del genere Homo – nella fattispecie i Neandertal e i Denisovani – all’incirca 500.000 anni fa.

Cos’è, dunque, accaduto tra mezzo milione di 200.000 anni fa? E dove è accaduto?

La prima domanda non ammetteva una risposta certa. Le ipotesi principali in campo erano due: A) la specie Homo sapiens si è improvvisamente evoluta nelle suddette aree dell’Africa centro-orientale 200.000 anni fa dal progenitore staccatosi dai Neandertal e dai Denisovani molto prima e di cui non abbiamo traccia; 2) quasi subito dopo il momento d’inizio della divergenza, all’incirca 400.000 anni fa, Homo sapiens ha iniziato la sua più lenta storia evolutiva. Alla seconda domanda tutti rispondevano con una certa sicurezza: la nostra specie ha avuto origine nell’Africa sub-sahariana.

La recente scoperta di Jebel Irhoud – sito molto ricco e noto ai paleoantropologi fin dagli anni ’60 del secolo scorso – risponde a entrambe le domande e modifica profondamente molte convinzioni.

La nostra non è una storia speciale

Cominciamo dalla dimensione tempo. Se i resti trovati in Marocco risalgono – come è virtualmente certo – a oltre 300.000 anni fa, allora è la prima ipotesi che si accredita: Homo sapiens non è una nuova specie apparsa all’improvviso duecento millenni fa mediante una rapidissima evoluzione da una specie più antica, ma è una specie che si è evoluta nel corso dell’ultimo mezzo milione di anni dopo la divaricazione con i fratelli neandertaliani e denosivani.

Ma anche nella dimensione spazio la scoperta di Jebel Irhoud, in Marocco, propone una narrazione affatto diversa. Non è detto che la culla in cui è nato Homo sapiens sia la Rift Valley o, comunque, l’Africa sub-sahariana. La nostra specie potrebbe essere nata anche in un altro luogo dell’Africa. Di certo c’è che, fin dalle origini, si è disseminata per l’intero continente. Grazie anche al fatto che nelle ere antiche il Sahara non era affatto un deserto invalicabile. E quasi a dimostrare che noi, uomini sedicenti sapienti, siamo invece una specie intrinsecamente migrante.

Ma c’è di più. Nella nuova narrazione che emerge dall’analisi dei più recenti ritrovamenti a Jebel Irhoud troviamo manufatti sostanzialmente identici a quelli realizzati, decine di migliaia di anni dopo, in Tanzania, piuttosto che in Israele. A dimostrazione che la nostra tribù si è divisa in tanti gruppi che, usciti, dall’Africa, si sono sparsi per il mondo senza mai perdere del tutto il contatto tra di loro. E a dimostrazione, inoltre, che le idee dei sapiens hanno viaggiato a velocità non inferiore a quella dei loro piedi.

Ultimo, ma non ultimo. Questa nuova storia, c’è da giurarlo, non è l’ultima nostra storia. È molto probabile che in futuro nuovi ritrovamenti e nuove tecnologie ci permetteranno di chiarire molti punti oscuri del nostro passato. Non è un caso, infatti, che negli ultimi anni siamo stati costretti a riscrivere più volte la narrazione dell’origine e dell’evoluzione della nostra vicenda di specie. Spesso con cambiamenti radicali e inattesi. Un solo tratto è rimasto costante e si è anzi consolidato: la nostra non è una storia diversa da quella di tante altre specie di ominini. Non è una storia speciale.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Why have neural networks won the Nobel Prizes in Physics and Chemistry?

This year, Artificial Intelligence played a leading role in the Nobel Prizes for Physics and Chemistry. More specifically, it would be better to say machine learning and neural networks, thanks to whose development we now have systems ranging from image recognition to generative AI like Chat-GPT. In this article, Chiara Sabelli tells the story of the research that led physicist and biologist John J. Hopfield and computer scientist and neuroscientist Geoffrey Hinton to lay the foundations of current machine learning.

Image modified from the article "Biohybrid and Bioinspired Magnetic Microswimmers" https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1002/smll.201704374

The 2024 Nobel Prize in Physics was awarded to John J. Hopfield, an American physicist and biologist from Princeton University, and to Geoffrey Hinton, a British computer scientist and neuroscientist from the University of Toronto, for utilizing tools from statistical physics in the development of methods underlying today's powerful machine learning technologies.