fbpx Quando finirà il mondo? | Science in the net

Quando finirà il mondo?

Le estinzioni di massa nella vita della Terra sono state più comuni di quanto si pensi. Credits: Shutterstock / Herschel Hoffmeye.

Tempo di lettura: 9 mins

È un mammifero placentato – sottoclasse Eutheria – e scrive di scienza, in particolare di scienze marine, di preistoria e di astrobiologia. Ed è al suo primo libro. Si presenta più o meno così Peter Brannen, giornalista scientifico e autore di The Ends of the World, pubblicato lo scorso giugno da HarperCollins (pp. 336 - 27,99 USD). Più di trecento pagine che pullulano di animali fantastici, alcuni spiaggiati, altri gassati, bolliti o ridotti in polvere ed estinti per sempre. E poi paleontologi, geologi, paleoclimatologi, paleoceanografi, geofisici, geochimici e innumerevoli altri scienziati (tutti vivi e in buona salute) decisi a capire come si sono prodotte le 5 estinzioni di massa registrate nei 4,5 miliardi di anni di vita della Terra. E se questo può insegnarci qualcosa per il futuro.

Sono questi i protagonisti dell’epopea terrestre.

L'epopea della Terra

La star è la Terra che negli ultimi 540 milioni di anni ha vissuto ben 5 esperienze di premorte, cavandosela ogni volta. Ha resistito a eruzioni di giovani mega-vulcani – quella del Krakatoa del 1883, a confronto, è stata un ruttino. Si è ripresa da glaciazioni di dimensioni colossali, dall’impatto con un asteroide e dall’intreccio di queste catastrofi e dalle loro conseguenze.

Tutto questo ha più volte accartocciato la crosta terrestre, fatto slittare terre emerse e fondali oceanici, innalzato, inabissato, creato e distrutto intere catene montuose, innalzato e abbassato di decine e decine di metri i livelli degli oceani, modificato la chimica e la temperatura dell’aria e degli oceani. L’estinzione di massa di numerose specie è stato il prezzo pagato sull’unghia dalla Terra. Cinque eventi catastrofici che in un lasso di tempo geologico piuttosto breve hanno annientato oltre la metà delle specie esistenti sul pianeta.

Estinzioni di massa

Da oltre 30 anni Douglas H. Erwin, paleobiologo dello Smithsonian’s National Museum of Natural History studia la madre di tutte le estinzioni, quella del Permiano-Triassico che 250 milioni di anni fa annientò l’80% delle specie marine e il 70% di quelle terrestri – e non esclude che la Terra si trovi sulla soglia di una nuova estinzione, questa volta causata dall’uomo.

Peter Ward, paleontologo dell’Università di Washington, ritiene sia ormai chiaro che epoche che hanno presentato un’alta concentrazione di anidride carbonica – e in particolare periodi in cui si è registrata un’impennata – coincidono con le estinzioni di massa. Un’indicazione che potrebbe dirci qualcosa, addirittura “diagnostica”, fa presente Brannen, come un paziente con una storia di attacchi di cuore che si presenta al medico con dolori al petto. Da non trascurare.

Condivide la lettura di Ward anche Seth Finnegan, paleontologo alla University of California, Berkeley. Finnegan, come gli altri scienziati seguiti da Brannen, va oltre l’immaginario del polveroso professore perduto in un labirinto di scaffali traboccanti di fossili. Grazie ad algoritmi, a programmi di apprendimento automatico computerizzato e a innumerevoli ricerche sul campo, Finnegan conclude che l’estinzione di massa della fine dell’Ordoviciano è strettamente collegata al cambiamento climatico. Il termine ci è più che familiare.

La vita resiste

Ma la vita è resistente. Nessuna estinzione di massa è (ancora) riuscita ad annichilirla. Certo, il trilobite gigante non sarebbe d’accordo.  La vita è resistente perché trova il modo di adattarsi ai cambiamenti e chi non si adatta è perduto. Estinzione di massa non significa annientamento istantaneo di tutti i rappresentanti di una specie e non è detto sia causata da un elemento non biologico (eruzione vulcanica, impatto con un meteorite, …).

Il processo è molto più lento, entrano in gioco variabili diverse e conta il contesto in cui agiscono. Tra queste può trovarsi un organismo insignificante che introduce un nuovo comportamento che altera definitivamente l’ambiente circostante rendendolo invivibile per altre specie. Dovrebbe farci scattare un campanello di allarme – avverte il paleontologo esperto di Ediacarano Simon Darroch – è già successo 500 milioni di anni fa e ci ha pensato un verme a forma di pene, minuscolo ma molto attivo e vorace.

Una modifica anche minima può scatenare trasformazioni lente ma imponenti alle quali non tutte le specie riescono ad adattarsi e quindi a sopravvivere. Quando lo sforzo di adattarsi non è più sufficiente, ecco che l’ultimo rappresentante della specie scompare per sempre. Peter Brannen riferisce le parole Charles Mitchell, paleontologo della State University di New York: “Come il cervo non potrà mai evolvere al punto di correre più veloce della pallottola di un cacciatore, allo stesso modo le estinzioni di massa vanno oltre il potenziale evolutivo delle loro vittime”. E nello studiare la fine del periodo Ordoviciano (443 milioni di anni fa), Mitchell si dice scioccato dal numero ridotto di specie che hanno cercanto di adattarsi al cambiamento, un’indicazione potenzialmente spaventosa.

L'evoluzione non è così duttile

A fronte di un vero disastro, l’evoluzione non è così duttile come ci piace pensare, di conseguenza non lo è l’adattamento. “La gente è convinta di potersi adattare, ed è vero, fino a un certo punto è possibile, ma dopo quel punto?” si chiede Matthew Huber, paleoclimatologo dell’Università del New Hampshire. E quale sarebbe questo punto?  In un noto articolo scientifico del 2010 Huber, in collaborazione con Steven Sherwood dell’Università del New South Wales, Sydney, riflette proprio su questo aspetto.

Il limite dell'adattamento

A quale temperatura soccomberebbe l’essere umano? Huber e Sherwood identificano la soglia fatale usando la cosiddetta temperatura a bulbo bagnato, un migliore indicatore del caldo-umido che un corpo umano può sopportare. Più aumenta la temperatura a bulbo bagnato, più il corpo fatica a dissipare il calore metabolico ed entra in un processo di surriscaldamento che sarà tanto più pericoloso, quanto più intenso e duraturo sarà lo stress termico.

La temperatura fatale identificata dai due scienziati è di 35 °C a bulbo bagnato. Oggi la temperatura a bulbo bagnato del pianeta si attesta attorno ai 26, 27 °C e nei luoghi più caldi e umidi non supera i 31 °C.  Esistono località in cui la temperatura dell’aria (a bulbo asciutto) si attesta regolarmente al di sopra dei 37,7 °C, ma il tasso di umidità è molto basso. In queste aree, grazie alla sudorazione, il corpo umano riesce a raffreddarsi e quindi a dissipare con successo il calore prodotto dall’attività metabolica.

Gli effetti del riscaldamento climatico

Tuttavia, mano a mano che la temperatura media della Terra aumenta per effetto del riscaldamento climatico, cresce anche quella a bulbo bagnato. Un aumento della temperatura media del pianeta di 7 °C renderebbe inabitabili per l’uomo piccole aree del pianeta, avvertono Huber e Sherwood. Questo è solo uno degli scenari e nemmeno quello più preoccupante.  Nel peggiore degli scenari possibili, l’incremento della temperatura media del pianeta di 11-12 °C rispetto a quella del 2007, renderebbe la maggior parte della superficie terrestre invivibile, costringendo gli esseri umani a migrare di massa verso ristrettissime aree del pianeta. Un esodo dalle dimensioni bibliche. Anche questo termine ci è familiare.

Crediti: Purdue University graphic/Matthew Huber

E' molto improbabile che durante questo secolo si raggiunga e si superi la soglia dei 35 °C a bulbo bagnato, ma potrebbe succedere in quello successivo, puntualizzano i due ricercatori. Huber teme che l’uomo si sia ormai incamminato verso un clima simile a quello che caratterizzò l’Eocene 50 milioni di anni fa, quando l’Alaska era popolata da alligatori che indugiavano all’ombra dei palmizi. Non vi era traccia, all’epoca, di calotte glaciali. Lo scienziato si riferisce al Massimo termico del Paleocene-Eocene (PETM), durante il quale la temperatura media globale aumentò di 6°C nell’arco di circa 20mila anni (un incremento medio per anno di 0,0003 °C) con picchi tra i 10 e i 20 °C ai poli. Ad oggi la temperatura media globale della Terra è aumentata di circa 1°C rispetto all’epoca preindustriale. E questo in soli 137 anni.

Crediti: NASA's Goddard Institute for Space Studies

Tuttavia gli scienziati protagonisti di The Ends of the World ammettono che in passato la vita sulla Terra ha prosperato in climi ben più caldi di quelli prospettati dalle più funeste proiezioni sul riscaldamento globale antropogenico.

Chi sopravviverà?

Ma c’è vita e vita. I grossi mammiferi scomparirebbero, sopravvivrebbero rettili e uccelli che tollerano il limite di 35 °C a bulbo bagnato. Come sono state spazzate vie le prime spugne (a cui per inciso dobbiamo la vita), i trilobiti, le libellule grosse come gabbiani, i dinosauri e i mammut lanuginosi, così anche noi potremmo dover passare il testimone. A tempo debito s’intende. A meno di dotarci di squame o livrea piumata.

Ma prima di soccombere per raggiunti limiti fisiologici, saremo costretti ad affrontare le inadeguatezze della struttura e dell’organizzazione della nostra civiltà. In tema di cambiamento climatico, la complessità e l’interdipendenza che caratterizzano il mondo moderno non sono esattamente degli atout. Il cambiamento climatico è un formidabile moltiplicatore di rischi che vengono a loro volta amplificati proprio dalla complessità e dall’interconnessione.

Crediti: World Economic Forum, The Global Risks Report 2017, 12th Edition

I neonati e gli adolescenti di oggi si ritroveranno un mondo completamente diverso.

Eventi climatici estremi e conflitti

Gli eventi climatici estremi avranno un impatto sempre maggiore sulle risorse alimentari e su quelle idriche che metterà a dura prova la tenuta della governance regionale e globale. La Siria di oggi è un triste laboratorio per quello che sempre più spesso vedremo in futuro. Erroneamente si ritiene che la Primavera Araba abbia rappresentato l’innesco del conflitto in Siria dimenticando che nei 5 anni precedenti lo scoppio della guerra, il nord-est del Paese ha dovuto fare i conti con un’intensa siccità che ha costretto alla migrazione forzata oltre 1 milione e mezzo di persone (dati UNHCR). L’aumento del prezzo dei generi di prima necessità, la convivenza forzata tra, e con una massa di persone che aveva perso tutto, hanno esacerbato le tensioni destabilizzando una realtà politico-sociale già precaria. Il problema si è allargato a macchia d’olio e il risultato è sotto gli occhi di tutti. I cambiamenti climatici gettano il seme del conflitto.

La salvezza verrà dalla tecnologia?

Ma non va sottostimato il potere della scienza tecnologica, avvertono alcuni scienziati. Perché escludere lo sviluppo di una tecnologia in grado di abbattere rapidamente le emissioni di gas serra? La parola chiave in questo caso è rapidamente – a patto di farne buon uso per non incorrere nell’inconveniente di estinguerci per eccesso di silicio, piuttosto che per troppa anidride carbonica.The Ends of the World colpisce subito per la magnitudo degli avvenimenti descritti, per la loro distanza – spesso inconcepibile – nello spazio e nel tempo, ma anche per il ritmo, lo humor e la semplicità con cui l’autore descrive argomenti e concetti scientifici spesso complessi. I tratti distopici del mondo narrato in questo libro sono innegabili, ma nella carrellata di scenari passati e futuri, si aprono e si chiudono anche finestre struggenti e di inaspettata bellezza, giusto il tempo di riprendere il fiato. Perché in fondo alla scienza non mancano né humor né poesia.

A questo libro mancano solo un paio di infografiche che rendano a colpo d’occhio la linea temporale degli eoni descritti, il ciclo dell’anidride carbonica e altri fenomeni articolati. La ricchezza di informazioni a volte disorienta e capita di non riuscire a collocare il trilobite nano e di sentirsi come quando non ti riusciva di apparentare Aureliano e José Arcadio Buendía; e questo solo perché alla tua edizione tascabile di Cent’anni di solitudine mancava l’albero genealogico. Mentre leggerete The Ends of the World, The Big History Timeline (The Big History Project, Khan Academy) può essere di aiuto.


Scienza in rete è un giornale senza pubblicità e aperto a tutti per garantire l’indipendenza dell’informazione e il diritto universale alla cittadinanza scientifica. Contribuisci a dar voce alla ricerca sostenendo Scienza in rete. In questo modo, potrai entrare a far parte della nostra comunità e condividere il nostro percorso. Clicca sul pulsante e scegli liberamente quanto donare! Anche una piccola somma è importante. Se vuoi fare una donazione ricorrente, ci consenti di programmare meglio il nostro lavoro e resti comunque libero di interromperla quando credi.


prossimo articolo

Why have neural networks won the Nobel Prizes in Physics and Chemistry?

This year, Artificial Intelligence played a leading role in the Nobel Prizes for Physics and Chemistry. More specifically, it would be better to say machine learning and neural networks, thanks to whose development we now have systems ranging from image recognition to generative AI like Chat-GPT. In this article, Chiara Sabelli tells the story of the research that led physicist and biologist John J. Hopfield and computer scientist and neuroscientist Geoffrey Hinton to lay the foundations of current machine learning.

Image modified from the article "Biohybrid and Bioinspired Magnetic Microswimmers" https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1002/smll.201704374

The 2024 Nobel Prize in Physics was awarded to John J. Hopfield, an American physicist and biologist from Princeton University, and to Geoffrey Hinton, a British computer scientist and neuroscientist from the University of Toronto, for utilizing tools from statistical physics in the development of methods underlying today's powerful machine learning technologies.