A lezione con Fulvio Ricci, coordinatore del Progetto Virgo. Lunedì 15 febbraio 2016, aula Amaldi del dipartimento di fisica alla Sapienza, Università di Roma. Credit: Stefania Sepulcri / Sapienza Università di Roma / Flickr. Licenza: CC BY-NC 2.0.
1.615 ricercatori assunti, l’80% dei quali (1.304 per la precisione) nelle università e il restante 20% (307 unità) negli Enti Pubblici di Ricerca. È questa la “nuova linfa”, per usare le parole del Ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, prevista per la ricerca italiana dall’articolo 56 della Legge di Bilancio in discussione in questi giorni al Senato. La legge riguarda il 2018 e, per quanto riguarda la ricerca, soprattutto universitaria, costituisce senza dubbio un’inversione di tendenza. Addirittura l’elemento più positivo dell’intera Legge di Bilancio, secondo il senatore di maggioranza Walter Tocci.
Il personale docente nelle università (professori ordinari, professori associati e ricercatori) è diminuito del 20% tra il 2008 e il 2015, passando da 62.735 a 50.369 unità. In pratica, in otto anni le università hanno perduto 12.366 unità. Cui bisogna aggiungere oltre 3.000 unità perdute nel biennio successivo (1.700 nel solo 2017). Negli ultimi dieci anni, dunque, il personale docente dell’università è diminuito di 1.500 unità l’anno.
Nel 2018 sarà, dunque, possibile contrastare, per la prima volta nel decennio della crisi, questo andamento in discesa e aggiungere, per l’appunto, “nuova linfa” agli organici.
Le assunzioni potranno avvenire grazie all’aumento del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo) di 60 milioni previsto per il 2018. Il governo si propone poi, di far salire progressivamente l’Ffo: di 75 milioni nel 2019, di 90 nel 2020, di 120 nel 2021 e di 150 nel 2022. Ma in questi anni lo scenario politico sarà necessariamente diverso e, dunque, fare previsioni è un po’ come scrivere sull’acqua.
Fermiamoci, dunque, al 2018. La “nuova linfa” è vitale, certo. E, altrettanto certamente, l’assunzione dei ricercatori costituisce un’inversione di tendenza auspicabile e a lungo auspicata. E tuttavia, bisogna riconoscere che non è sufficiente. Non è sufficiente a controbilanciare il flusso in uscita del personale docente nelle università, che a causa dei pensionamenti nel 2017 è stato di 1.700 unità. E che in media, dal 2008, è stato superiore a 1.500 unità. Dunque, dovremo attenderci anche per l’anno prossimo una perdita netta di unità tra il personale docente e, di conseguenza, una diminuzione della quantità e della qualità dell’offerta didattica.
Quello che propone la Legge di Bilancio è dunque un tampone – un discreto tampone – per l’emorragia, ma non il suo arresto.
E, tuttavia, è ancora possibile intervenire per migliorare la legge. Aumentando le assunzioni a costo zero. Proprio il senatore Tocci ha presentato un emendamento alla Legge, approvato in Commissione cultura, in cui propone di vincolare il finanziamento aggiuntivo dello stato al cofinanziamento delle assunzioni da parte di università ed Enti Pubblici di Ricerca, utilizzando le risorse finanziarie disponibili nei rispettivi bilanci. Scrive Walter Tocci: «Si rimuoverebbe così l'incredibile ostruzionismo dei presidenti degli Enti che finora non hanno utilizzato i margini di assunzione entro la soglia di 80% delle entrate, pur autorizzata dal Parlamento lo scorso anno. Anche molti atenei sarebbero indotti ad assumere con i punti organico che non hanno ancora utilizzato, a volte per inaccettabili accordi accademici».
In soldoni: il numero delle assunzioni potrebbe raddoppiare, passando da 1.600 a oltre 3.000, senza pesare sul bilancio dello stato e realizzando un’effettiva inversione di tendenza. Se poi si stornassero 75 milioni dai 200 previsti per la promozione dei “dipartimenti di eccellenza, la nuova “linfa vitale” potrebbe raggiungere, entro il 2018, le 6.000 unità. Quattro volte più di quanto previsto con l’articolo 56. E per la prima volta dopo un decennio il personale di ricerca pubblico nel nostro paese tornerebbe ad aumentare in maniera davvero significativa.
Certo, neppure questo aumento risolverebbe, d’incanto, tutti i problemi pregressi. Nelle università italiane si contano 40.000 ricercatori precari in cerca di una stabilizzazione. E moltissimi sono anche i precari negli Enti Pubblici di Ricerca, tanto che si era parlato, per questi ultimi, di un piano straordinario per stabilizzarne almeno 2.000.
Certo, per risolvere questi problemi strutturali occorre un cambio di passo notevole e più di un anno. Ma questa è la strada che deve essere percorsa, tenendo conto che molto è il terreno da recuperare rispetto agli altri paesi europei e non solo europei. L’Italia, secondo i dati della World Bank, ha infatti 2.018 ricercatori per ogni milione di abitanti: meno della metà di Germania (4.431), Regno Unito (4.470) e Stati Uniti (4.700); meno dei due quinti rispetto al Giappone (5.230); meno, molto meno di un terzo addirittura rispetto a Finlandia (6.816), Svezia (7.021), Corea del Sud (7.087) e Danimarca (7.483).