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Addio a Gianfranco Domenighetti, padre della "medicina quanto basta"

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Gianfranco Domenighetti, economista sanitario (1942-2017)

Tempo di lettura: 8 mins

E' morto ieri mattina Gianfranco Domenighetti, all'età di 75 anni, lasciando in me e altri amici un vuoto enorme. Chi era Domenighetti? Era a suo modo un genio, un uomo spiritosissimo che illuminava le serate con quel suo modo indolente da crooner dispensando motti e calembours. Era uno studioso rigoroso ma lieve, un bon vivant elegantissimo e dalle macchine esagerate (ma mai volgari). Sul piano intellettuale e politico è stato certamente fra i pensatori più originali nel campo della sanità, in particolare della economia e della comunicazione sanitaria. E' stato per tanti anni, credo a partire dal 1970 fino al cambio di millennio e oltre il direttore della sanità del Canton Ticino, unendo in questo modo la gestione della sanità pubblica a una brillantissima produzione teorica. E' stato anche un affascinante e affabile insegnante alle Università di Lugano e Losanna.

Se oggi esiste un approccio critico al consumismo sanitario, al disease mongering, alla nostra overdose quotidiana di inutili esami diagnostici e di altrettanto, spesso, inutili farmaci, lo si deve anche e soprattutto a lui. Insieme ad Silvio Garattini e Alessandro Liberati ha indicato la strada di una possibile sanità basata sulla sobrietà, l'analisi delle prove scientifiche e l'empowerment del paziente. Tanto da aver ispirato anche certe campagne di Beppe Grillo (quando ancora faceva ridere e riflettere e non era sceso in politica).

Le nostre strade si sono incrociate all'Istituto Mario Negri di Milano nell'ambito del progetto Partecipasalute, e nelle stanze dell'Istituto Superiore di Sanità in una serie di seminari condotti negli ultimi anni '90 quando prendeva il via il Programma Nazionale Linee Guida. Con i suoi libri, in particolare Il mercato della salute, ha insegnato a molti di noi - giornalisti, medici e operatori della sanità pubblica - il dubbio in medicina, antidoto a tante false speranze.

Qui di seguito una serie di "perle" che mi ha regalato in una intervista che gli ho fatto alcuni anni fa, e che credo costituiscano una antologia del suo pensiero, o quanto meno di quella parte del suo  pensiero che aveva avuto la bontà di dispensare a un amico giornalista, compagno di qualche bella serata passata insieme.

Serve l'informazione in medicina? 
Dipende che valore che si dà a questo genere di informazione. Io temo che oggi ci troviamo di fronte ancora a un modello informativo che genera ansia e una medicalizzazione a tappeto della vita. Ricorda la commedia di Jules Romain del 1923, Il trionfo della medicina? Il mitico dottor Knock sosteneva che “il sano è un malato che non sa di esserlo”. Questo principio, se instillato sistematicamente nella popolazione, fa la fortuna dei medici, e la rovina della gente, che passerà il tempo a dolersi di malattie immaginarie, indotte da un certo tipo di cattiva informazione.

Cosa si deve intendere per "empowerment"?
Sarebbe ora che i medici cominciassero a dire alla società civile qualche verità sgradevole ma necessaria per ridimensionare certe aspettative irrealistiche. Queste verità, come ricordava anni fa l’ex direttore del British Medical Journal Richard Smith sono le seguenti: la morte è inevitabile; la maggior parte delle malattie importanti non possono essere guarite; gli antibiotici non servono per l'influenza; gli ospedali sono luoghi pericolosi, e tutte le medicine hanno anche effetti collaterali; la maggioranza dei trattamenti medici dà solo benefici marginali e molti non funzionano affatto, gli screening producono anche risultati falsi positivi e falsi negativi, oltre ad altri effetti non desiderati. E infine, si dovrebbe ricordare che ci sono modi migliori di utilizzare i soldi che spenderli per acquistare più tecnologia medica.

Questo si potrebbe intendere con la parola empowerment: una “terapia informativa” molto salutare, che libera energie per occuparsi delle cose che veramente importano in fatto di politica sanitaria. Ricorda la dichiarazione di Alma Ata del 1978 e di tutte quelle che ne sono seguite? Empowerment significa alcune cose molto precise, come ridurre le diseguaglianze di salute, dare alle persone gli strumenti critici per prendere le decisioni migliori per il loro benessere, promuovere politiche pubbliche rispettose degli obiettivi di salute. Questo doveva essere perseguito soprattutto attraverso azioni di lobbying e di comunicazione sociale.

Qual è il bilancio di Alma Ata dopo tanti anni?
Al di là delle dichiarazioni e di qualche esperienza andata a buon fine, la realizzazione dei principi delle varie “carte” promosse dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è stata in larghissima misura disattesa. Le disuguaglianze di salute, anche all’interno dei paesi industrializzati che garantiscono un accesso “universale” alle prestazioni, invece di diminuire si sono accentuate. La promozione della salute, tecnologia per definizione “povera”, è stata quasi totalmente oscurata dalla sistematica medicalizzazione della società e della vita promossa dal marketing dell’industria con il sostegno dei media, dei professionisti della sanità e dei vari “guru” locali e nazionali di riferimento.

Perché nonostante la crescita della spesa sanitaria molte malattie non si riescono a debellare? 
Qualcuno ha definito questo fenomeno il “fallimento del successo” della medicina. Da una parte con gli anni sono indubbiamente aumentate le spese per curare una popolazione resa sempre più longeva dai progressi igienico sanitari. Ma questo non spiega se non parzialmente la straordinaria levitazione della spesa. Parallelamente la medicina è diventata sempre meno efficace, ma sempre più occhiuta e invasiva, con il risultato di trasformare condizioni sostanzialmente normali in nuove patologie. Il maggior numero di innovazioni in medicina hanno avuto luogo fino agli anni ottanta, poi il progresso ha decisamente rallentato. Secondo una recente revisione, dei 3.335 “nuovi” farmaci messi sul mercato negli ultimi decenni, solo il 2,5% ha apportato progressi terapeutici significativi. Da qui lo spostamento degli investimenti sul marketing, per continuare a vendere prodotti non così essenziali.

Ma l’industria farmaceutica investe molto in ricerca e sviluppo...
Un dato dovrebbe far riflettere: le undici più importanti case farmaceutiche hanno destinato nel 2004 circa 100 miliardi di dollari per spese di marketing, contro circa la metà destinate alla ricerca. Senza contare le somme che gli altri produttori di tecnologia medico-sanitaria hanno speso per convincere medici, associazioni di pazienti, media, opinione pubblica e la politica a investire nei loro prodotti.

Come va intesa l'educazione sanitaria?
L’unico modo per fare una educazione sanitaria che aiuti a prendere le distanze dal processo di medicalizzazione dei sani in atto in questi anni è far sì che il settore pubblico scenda in campo con investimenti cospicui. E qui serve una cambio di prospettiva: invece di spingere le nuove tecnologie mediche, bisognerebbe partire dal presupposto che qualunque prestazione deve essere considerata inefficace finché non si sia dimostrato il contrario. Un altro concetto fondamentale da trasmettere è che la medicina è una disciplina eminentemente incerta e pervasa dai conflitti d’interesse.

Come ci si deve relazionare ai medici?
Può essere utile acquisire l’abitudine di chiedere un secondo parere. Mai fidarsi della sicumera dei medici in fatto di diagnosi e cure. Le ricerche sulla variabilità delle pratiche mediche dimostrano che le proposte diagnostiche o terapeutiche per risolvere un problema di salute possono variare in funzione di un gran numero di fattori, ma soprattutto in relazione al medico che è stato consultato. Abbiamo ad esempio condotto un piccolo studio con un "falso paziente" che ha consultato dieci dermatologi mostrando sempre la stessa verruca che aveva sotto il piede: otto sono state le diagnosi diverse. La letteratura scientifica sulla variabilità dovrebbe indurre a considerare pratica normale chiedere un secondo parere. Soprattutto se il primo medico consiglia un intervento chirurgico meglio sentirne un secondo: si è dimostrato che nel 30% dei casi il secondo medico non confermerà l’indicazione all’intervento.

Condivide l'entusiasmo per gli screening?
Sugli screening l’entusiasmo popolare è incontenibile. Un recente studio ha mostrato che il 73 per cento degli americani preferisce sottoporsi a un total body scanner invece che ricevere un regalo di 1.000 dollari, mentre il 66 per cento è disposto a sottoporsi a un test di diagnosi precoce anche per un tumore per il quale non esiste nessuna cura. La metà delle donne americane che non hanno più il collo dell’utero a seguito di isterectomia totale continua comunque a sottoporsi al Pap-test. Se non è fede questa...

Vuol dire che talvolta è meglio non sapere?
Voglio dire che se facciamo un’autopsia a cento uomini di età compresa fra i 50 e i 70 anni, in 46 di essi si riscontrerà un tumore alla prostata. Questo significa che molti tumori, la maggioranza di essi, restano silenti e non daranno mai preoccupazioni. Più si cerca e più si trova, ma non è detto che sia sempre un bene. Sugli screening c’è molta disinformazione. L’81 per cento delle donne italiane, per esempio, ritiene che sottoporsi regolarmente allo screening mammografico riduca o annulli il rischio di ammalarsi in futuro di tumore al seno. Non sorprende quindi la notiziola apparsa nel 2002 sul quotidiano di Lisbona Diario de Noticias, secondo cui quattro donne portoghesi si sono fatte facilmente convincere da un paramedico a uscire la sera a seno scoperto su un balcone al fine di beneficiare di una mammografia satellitare.

Tuttavia esistono test predittivi sempre più precisi...
Un cavaliere - racconta Ludovico Ariosto nell’Orlando furioso - era avvezzo, al termine dei banchetti, a invitare gli ospiti a sottoporsi a quello che oggigiorno si chiamerebbe un test predittivo: la prova consisteva nel vuotare un gran bicchiere colmo di vino senza distogliere la bocca dal calice. Se qualcuno si sbrodolava, ciò significava che la sua donna gli metteva le corna. Stranamente, dice l’Ariosto, i commensali, forse già ben avvinazzati, con gioia facevano a gara nel sottoporsi a tale prova. Molti si sbrodolavano e allora il loro animo da gioioso si mutava in tetro e ansioso. Rinaldo ha già il calice in mano e sta per accettare la prova, ma ci ripensa e decide di non farla, dicendo: «Ben sarebbe folle chi quel che non vorria trovar, cercasse. Mia donna è donna, et ogni donna è molle: lasciàn star mia credenza come stasse. Sin qui m’ha il creder mio giovato, e giova: che poss’io megliorar per farne prova?»

La prevenzione primaria ci invita a controllare i nostri stili di vita, magari con forme di dissuasione attiva. Che ne pensa?
In passato un ministro della salute è arrivata a sostenere in un’intervista una sorta di dovere di pagare un ticket se ci si ammala per comportamenti non corretti, come il fumo o il mangiare grasso. Pare inoltre che l’Organizzazione mondiale della sanità avrebbe dichiarato di non voler più assumere fumatori. Siamo alla polizia sanitaria, alla prevenzione fatta a colpi di bastone. Speriamo che questi primi preoccupanti segnali di autoritarismo e discriminazione su base medica non si diffondano. Ci toccherebbe diventare i difensori dei viziosi.

 


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