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Jean Améry e l’infezione lunga del lager

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Prigionieri in una delle baracche a Buchenwald: in seconda fila, settimo da sinistra, Elie Wiesel - Credits: Photo by Private H. Miller. (Army) - U.S. Defence Visual Information Center - Licenza: Pubblico dominio

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Stando alle statistiche, il suicidio è frequente nella popolazione carceraria e lo è particolarmente tra i detenuti in attesa di giudizio, angosciati dall’incertezza della propria sorte e tra i condannati all’ergastolo, annichiliti dalla sua certezza.

Tra gli internati nei campi di concentramento, invece, il suicidio era del tutto sporadico, anche se la condizione in cui versavano ricalcava - apparentemente - entrambi quegli stati d’animo. Lo hanno testimoniato soprattutto i sopravvissuti: di solito 
le SS non tenevano statistiche in merito e le morti venivano tutte registrate con la formula Abgang durch Tod (abbandono causa decesso). Gli unici numeri precisi al riguardo, registrati da Otto Walden, medico ad Auschwitz, contano 1.902 internati morti dal 20 settembre 1943 al 1° novembre 1944 e nessun caso di suicidio.

La "voglia di vivere" tra gli internati nei lager

In realtà, dopo l’inizio delle persecuzioni razziali e delle occupazioni militari del Reich, molti ebrei polacchi, olandesi e tedeschi che avevano perso casa, lavoro e famiglia, si erano tolti la vita; ma chi, alla fine, era sprofondato nell’impensabile abiezione del lager, sceglieva, quasi inspiegabilmente, di provare a sopravvivere. Anche lo studioso statunitense dell’Olocausto Terrence Des Pres se ne sorprende: “Quando il corpo giace dimagrito fino a sembrare quello di un bambino, quando le braccia e le gambe sono diventate simili a ramoscelli secchi, quando le labbra sono aride e raggrinzite, quando ogni boccone di cibo provoca la dissenteria, o il fetore della minestra ti dà la nausea, quando sei senza aiuto e nessuno si occupa di te o ti cura - da dove viene questa magica voglia di vivere?”.

Eppure, sebbene il filo spinato elettrificato fosse un costante richiamo a porre fine alle privazioni, al freddo e alle percosse, la lotta per la sopravvivenza era ostinata. La voglia di vivere era meno tenace tra i prigionieri del Sonderkommando, il gruppo destinato alla rimozione dei corpi dalle camere a gas e alla loro spoliazione dai denti d’oro e cremazione; essi, peraltro, erano consapevoli che la loro sorte era segnata dall’avvicendamento periodico deciso dalle SS.

Il suicidio di molti sopravvissuti

Il suicidio è tornato ad avere numeri significativi tra i sopravvissuti: tra quelli più illustri, misero fine alla vita di propria mano Primo Levi, Bruno Bettelheim, Tadeusz Borowski e Jean Améry. Borowski si uccide a Varsavia nel 1951, a 28 anni, Améry a Salisburgo nel 1978, a 66 anni, Levi a Torino nel 1987, a 68 anni e Bettelheim a Silver Spring nel 1990, a 87 anni.

In molti hanno ricercato le motivazioni di questo gesto, perpetrato da uomini tanto diversi, nella comune esperienza del campo di sterminio, senza trovare una conferma definitiva: d’altronde, Primo Levi stesso, proprio commemorando Jean Améry, suo ex compagno di baracca, scrisse che "nessuno sa le ragioni di un suicidio, neppure chi si è suicidato".

L'irreparabilità del danno psichico

Come scrive lo psichiatra Gustav Dreifuss, tutti i terapeuti israeliani che avevano avuto in cura i sopravvissuti ai campi di sterminio hanno dovuto ammettere, anche in coloro che sembravano comportarsi normalmente nella vita quotidiana, l’irreparabilità del danno psichico inferto dall’impotenza assoluta e prolungata in balia dei trattamenti più crudeli, dalla pressante presenza della morte, dall’odore dei forni crematori, dalle umiliazioni, dalla fame, dalla sete, dal freddo, dalla privazione del riferimento ai valori della vita normale.

La lunga tentazione del suicidio 

Il primo a mettere fine alla sua vita fu Tadeusz Borowski, arrestato per motivi politici dalla Gestapo nel 1943 e deportato dapprima ad Auschwitz, poi a Natzweiler-Struthof e, infine, a Dachau. La prigionia, durissima, raccontata nel libro Da questa parte, per il gas, era stata seguita dalla delusione per il regime comunista, per il quale pure aveva simpatizzato, culminata con l’arresto e la tortura del suo miglior amico.

All’estremo opposto dell’età si è ucciso Bruno Bettelheim, controversa figura di psicanalista viennese che fu internato a Dachau e a Buchenwald quando la Germania invase l’Austria. Fu rilasciato, in circostanze non chiarite, nel 1939 e riuscì a emigrare negli Stati Uniti. Potrebbero essere sufficienti a giustificare una letale depressione sia la solitudine (era vedovo e in cattivi rapporti con i figli) sia la disabilità (era stato colpito da ictus). Tuttavia, dai suoi scritti emerge, netta, anche l’impossibilità di tornare alla “vita come prima” dopo la tragedia della shoah: il lavoro, la famiglia e gli impegni potevano creare una superficie di normalità, sotto la quale, però, le difese psichiche continuavano a essere erose dai ricordi e bastavano un nuovo trauma o la malattia ad abbatterle definitivamente.

Jean Améry e l'inadeguatezza dell'intelletuale nel lager

Lo scrittore Hans Meyer ha scelto, dopo la liberazione, di francesizzare e anagrammare il suo nome in Jean Améry, come ripudio definitivo di ogni vestigia tedesca; viennese, ebreo per parte di padre, fu arrestato dalla Gestapo nel 1943 in Belgio, dove, esule dall’Austria dopo l’Anschluss, si era unito alla resistenza. Fu torturato nel famigerato forte di Breedonk (“Chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai”) e poi internato ad Auschwitz, a Buchenwald e a Bergen Belsen, per due anni.

Bruno Bettelheim e anche Primo Levi consideravano il loro bagaglio culturale un deposito segreto in cui rovistare per estrarne un po’ di poesia o di musica e lenire così la disumanizzazione imposta dal lager; per Améry, invece, la propria condizione di intellettuale era un inutile fardello che, anzi, comportava una prognosi infausta, associato com’era all’inettitudine nel lavoro manuale e all’incapacità di ammettere l’esistenza dell’inammissibile e di adeguarvisi, con l’unico obiettivo della mera sussistenza biologica.

Améry così descrive l’intellettuale: “L’ambito delle sue associazioni è essenzialmente umanistico e filosofico. Ha una coscienza estetica ben sviluppata. Per tendenza e abitudine è portato al ragionamento astratto. A ogni occasione gli si propongono catene associative dalla sfera della storia del pensiero”. Anche per Primo Levi, l’intellettuale, tormentato “da un acuto senso di umiliazione e di destituzione, di Entwürdigung, di dignità perduta”, si dimostrava inadatto a sopravvivere ad Auschwitz; egli, tuttavia, traeva pur sempre qualche consolazione dalla sua cultura umanistica.

Améry, invece, di formazione culturale saldamente tedesca e di tradizione religiosa nemmeno blandamente ebraica, vedeva venir meno ogni riferimento consolatorio, perché “tutto il patrimonio spirituale ed estetico era ormai divenuto indiscussa e indiscutibile proprietà del nemico”. Persino evocare Beethoven gli faceva pensare a Furtwängler che lo dirigeva a Berlino acclamato dai gerarchi nazisti. Della sua lingua stessa gli si sentiva defraudato, perché la parlavano, la urlavano, la sbraitavano gli aguzzini.

Il risentimento come ribellione all'oblio

Nacque così nel lager, e venne poi da Améry consapevolmente coltivato, il risentimento, che infetterà tutta la sua vita successiva e che egli stesso nel suo libro più famoso analizza come “una condizione non solo contro natura, ma anche contraddittoria a livello logico. Inchioda ciascuno di noi alla croce del nostro passato distrutto. Assurdamente esige che l’irreversibile sia rovesciato, che l’accaduto sia annullato. Il risentimento impedisce lo sbocco verso il futuro, la dimensione più autenticamente umana”. Améry, però, non intende rinunciare al suo rancore verso la nazione dei carnefici, in quanto estrema opposizione al progredire dell’oblio collettivo, al riemergere della potenza della Germania e all’impunità dei carnefici: “Il tempo ha compiuto la sua opera. Silenziosamente. Invecchia con dignità la generazione degli annientatori, dei costruttori di camere a gas, dei generali sempre disposti ad apporre la loro firma, obbedienti al loro Führer”.

Améry contro Primo Levi, "il perdonatore"

In un epistolario successivo alla prigionia, Jean Améry è entrato in rotta di collisione con Primo Levi, che ha sempre ammesso la sua disponibilità ebraica a flettersi al vento come un giunco, per non spezzarsi. Levi venne definito da Amery “il perdonatore”, ma, in realtà, non fu incline né a un facile perdono né alla cancellazione della memoria.

Entrambi espressero il loro disaccordo con l’incalzante omologazione dei lager con i gulag. Ancora quattro mesi prima di morire, Levi era intervenuto contro il revisionismo dello storico Ernst Nolte che interpretava il nazismo come una reazione al comunismo russo e sosteneva che i gulag sovietici avessero ispirato i campi di sterminio nazisti, scrivendo sulla Stampa: “Gli scopi dei due inferni non erano gli stessi: il primo era un massacro fra uguali; non si basava su un primato razziale, non divideva l’umanità in superuomini e in sottouomini. Il secondo si fondava su un’ideologia impregnata di razzismo”. Nei gulag, ribadiva Levi, la morte era “un sottoprodotto”, nei campi di sterminio nazisti lo scopo: “il gas veniva prodotto da illustri fabbriche chimiche tedesche; e a fabbriche tedesche andavano i capelli delle donne massacrate; e alle banche tedesche l’oro dei denti estratti dai cadaveri. Tutto questo è specificamente tedesco e nessun tedesco lo dovrebbe dimenticare”.

La libera morte volontaria

Negli anni successivi alla fine della guerra, la scrittura di Améry è una dichiarazione di guerra che, dal lager, si estende alla vecchiaia e al declino fisico che porterà all’estinzione, cui contrappone la libera morte volontaria: “Il sopravvissuto allo sterminio nazista non è un uomo che semplicemente vive, ma, invertendo i termini in gioco, uno che non è morto, che è ancora in vita. Allo stesso modo, il vecchio o colui che, portando addosso i segni di un sempre più marcato decadimento, si avvia a subire un processo demolitore, è uno che manca di gioventù, di freschezza, di tempo. Il suo è comunque un difettare, un segno meno posto davanti alla forza del presente; il vecchio non è più, era. Il suicida, infine, incarna la contraddizione per antonomasia, il peccato, il no assoluto. A chi sostiene che bisogna vivere per essere uomini, egli sembra suggerire, al contrario, che il solo modo per essere uomini è morire”. La libera morte è “la risposta alle tormentose intimazioni dell’esistenza e in particolare del trascorrere del tempo, nella cui corrente noi nuotiamo, assistendo al nostro stesso annegare…”.

Con la morte, Améry ha risolto anche l’intimo dissidio tra la sua impossibilità di essere ebreo e la necessità (e il dovere) di esserlo: sulla sua tomba nel cimitero di Vienna, infatti, il nome, l’anno di nascita e di morte sono seguiti dalla scritta “Auschwitz nr. 172364”.

La desolazione come esilio dall'Heimat

Nemmeno Primo Levi volle mai cancellare il numero tatuato sul braccio. Egli morì a Torino, nella casa di corso Re Umberto 75 in cui aveva vissuto per tutta la vita, a eccezione degli anni dal 1942 al 1945, periodo nel quale, dopo un anno a Milano per lavoro, fu per qualche mese in Val d’Aosta come partigiano (una carriera partigiana che lui definirà “breve, dolorosa, stupida e tragica”) e, dopo l’arresto del 13 dicembre 1943, nel campo di concentramento di Fossoli e poi ad Auschwitz, per undici mesi; infine, l’odissea lunga nove mesi per fare ritorno a Torino. Qui Levi aveva ripreso il suo lavoro di chimico, era diventato uno scrittore di successo, aveva messo su famiglia, godendo di stima e di affetti durevoli; tutti questi anticorpi non erano bastati per vincere la lunga infezione del lager.

Eppure, al contrario dello scrittore austriaco, egli era sfuggito, non solo alla morte, ma anche alla “desolazione” (Elend) come etimologicamente Améry chiama la privazione del suolo natio, l’esilio, la “nostalgia” non risolvibile, in quanto dolore per un ritorno non più possibile: per molti ebrei dell’Europa centrale, le acque si erano richiuse dopo la cacciata dal posto in cui vivevano e quel posto non c’era più. Costoro non avevano più patria (Heimat) e, quindi, non avevano più sicurezza: “…vivere nella Heimat significa che quanto a noi è noto torna a riproporsi con varianti minime…”. Anche in un'altra nazione si può cercare una nuova Heimat, “…tuttavia, per l’esule che sia giunto nel nuovo paese da adulto, la decifrazione dei segni non sarà spontanea, ma un atto intellettuale che richiede un certo sforzo spirituale. Solo i segnali che abbiamo recepito molto presto, che abbiamo imparato a interpretare mentre prendevamo possesso del mondo esterno, divengono elementi costitutivi e costanti della nostra personalità: come si apprende la lingua madre senza conoscerne la grammatica, così si esperimenta l’ambiente patrio. Lingua madre e ambiente patrio crescono insieme a noi e si trasformano così in quella confidenza che ci garantisce sicurezza… una ‘nuova patria’ non esiste. La Heimat è il paese dell’infanzia e della giovinezza”.

Heimat è ius soli.

 

Bibliografia:
Amery J., Intellettuale a Auschwitz. Bollati Boringhieri Editore, Torino 1987; Torino 2008.
Amery J., Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare. Bollati Boringhieri Editore, Torino 1988.
Borowki T., Da questa parte, per il gas. L'Ancora del Mediterraneo, Napoli 2009.
Dreifuss G., “The Analyst and the damaged victim of nazi persecution”. Journal of Analytical Psychology 1969.
Des Pres T., The Survivor. An anatomy of life in the death camps. Oxford, New York 1976.
Levi P., I sommersi e i salvati. Einaudi, Torino 1986.
Bettelheim B., Sopravvivere e altri saggi. Feltrinelli, Milano 1981.

 


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