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Carissimo Heisenberg! Carissimo Bohr!

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Nella stagione 2017-2018 la Compagnia Umberto Orsini porta nuovamente in scena il testo teatrale Copenaghen di Michael Frayn. Quest’opera, che è stata già sulle scene italiane diversi anni fa, ha ottenuto un grande successo e ha stimolato convegni, dibattiti, approfondimenti. Si tratta di un’opera complessa, che porta in scena teorie scientifiche, passioni conoscitive, dilemmi morali.

Favorire la comprensione dei molti temi che nel testo si intrecciano, sapientemente proposti dal regista Mauro Avogadro, e far sì che gli spettatori possano meglio apprezzare l’intensa interpretazione dei tre straordinari interpreti (Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio): sono questi gli obiettivi dello scritto di Gianni Zanarini, che potrà interessare anche a chi non si recherà a teatro e avrà comunque l’opportunità di leggere il testo di Michael Frayn, pubblicato in Italia dall’editore Sironi.

Un misterioso incontro

“Carissimo Heisenberg!” “Carissimo Bohr!” Due grandi fisici si incontrano a Copenaghen. Il primo, Werner Heisenberg, ha solo quarant’anni, ma è direttore dell'Istituto Kaiser Wilhelm per la Fisica a Berlino ed è già famoso per i suoi contributi alla fisica quantistica. Il secondo, Niels Bohr, ha un’età più avanzata, 65 anni: potrebbe essere suo padre, e in qualche modo lo è davvero sul piano scientifico. Infatti, quindici anni prima Werner, appena laureato, è andato a studiare con lui a Copenaghen, e insieme hanno creato una nuova fisica. Di questa scienza inattesa e quasi paradossale Niels Bohr è riconosciuto da tutti come il fondatore.

Ci sono eventi che possono passare inosservati ma che concentrano, quasi come la luce attraverso una lente, un fascio di problematiche e di complessità di un’epoca storica. E l’incontro tra Bohr e Heisenberg è sicuramente uno di questi. Esso si svolge nel settembre del 1941, nella Danimarca occupata dai nazisti. I due amici e colleghi di un tempo sono ora irrimediabilmente separati e addirittura contrapposti a causa delle loro appartenenze. Niels Bohr subisce la minacciosa invasione straniera, mentre Werner Heisenberg, a differenza di tanti altri fisici (ricordiamo in particolare Albert Einstein), è rimasto in patria e, anzi, ha fatto una carriera prestigiosa. C’è certamente, nei due scienziati, la nostalgia di un tempo in cui la ricerca era una contemplazione della realtà, nel caso specifico della realtà sub-microscopica, senza che questa contemplazione avesse nulla a che fare col resto del mondo, con le armi e coi conflitti. Ma il mondo è ormai intrecciato alla scienza, anche perché dagli anni Trenta del Novecento - quando a Copenaghen si decifravano i singolari fenomeni quantistici - agli anni Quaranta, in quel breve decennio, sono stati proprio gli sviluppi della fisica a portarla pericolosamente vicina al mondo.

Negli anni Trenta, l’atomo non era più quell’entità indivisibile che il suo nome suggerisce: già si sapeva che era costituito da particelle ancora più elementari, cariche e neutre. Cercando di indagare la struttura interna degli atomi pesanti, Enrico Fermi scoprì la possibilità di scindere l’uranio in elementi più leggeri, realizzando in un certo senso l’antico sogno degli alchimisti. E’ l’isotopo 235 dell’uranio a venire scisso da un neutrone incidente, producendo bario, kripton e due altri neutroni carichi di energia.

Divenne allora possibile immaginare una struttura per rendere utilizzabile questa energia - un reattore nucleare - in cui i neutroni emessi dalle scissioni dell’uranio 235 vengono rallentati per aumentare la probabilità di cattura da parte di altri atomi dello stesso isotopo, e la moltiplicazione a catena viene opportunamente controllata.

Ma se fosse possibile concentrare l’uranio 235, arricchendo la sua percentuale nell’uranio naturale - pensarono nello stesso istante i fisici sulle due sponde dell’atlantico - si riuscirebbe forse a costruire una bomba di inaudita potenza. Due colleghi fisici, Leo Szilard e Eugene Wigner ne parlarono ad Albert Einstein, il quale il 2 agosto 1939 scrisse al presidente Franklin D. Roosevelt, segnalandogli l’estremo pericolo di una possibile bomba tedesca. A questa lettera seguirono il progetto Manhattan e, nel 1945, le due bombe atomiche americane. La seconda di questa bombe venne costruita su una base diversa. Essa si fondava sul fatto che i neutroni veloci sono assorbiti dall’uranio 238, l’isotopo dell’uranio più abbondante in natura. Di qui, attraverso una catena di trasmutazioni, si arriva al plutonio 239. Quest’ultimo è a sua volta fissionabile, proprio come l’uranio 235, e lo può sostituire in una reazione a catena. Dunque, anche la costruzione di un reattore, di per sé strumento pacifico per la produzione di energia, ha potuto far parte di un progetto militare...

Come ho detto, l’incontro tra i due grandi fisici si svolge nel 1941. Sia in Germania che in America sono iniziate le attività segrete per arrivare a una bomba atomica. Si scoprirà, dopo la guerra, che Heisenberg è a capo del programma tedesco. I maggiori fisici dell’epoca - con poche eccezioni, tra cui Albert Einstein e Niels Bohr - si stanno impegnando nell’uno o nell’altro progetto. Dunque la fisica dei quanti non è più una pura contemplazione del mondo sub-atomico, ma è divenuta un’attività carica di oscure minacce e di laceranti dilemmi etici. Ecco perché, quasi prevedendo tutto questo, Bertolt Brecht, esule a Copenaghen, inorridisce ascoltando alla radio nel 1939 la conferma della fissione dell’uranio.

L’incontro tra i due scienziati si svolge dunque in questo quadro di bella fisica e di foschi presagi. Ma perché - ecco la domanda centrale - perché Werner Heisenberg andò a Copenaghen nel settembre del 1941?

Le versioni proposte dai due protagonisti, su sollecitazione degli storici della scienza, sono profondamente diverse. Heisenberg ha affermato di aver escluso che fosse possibile costruire una bomba - pur teoricamente fattibile - in tempi brevi, e di essere interessato soltanto a un reattore per la produzione di energia. Bohr, invece, ha scritto di aver avuto la chiara impressione che Heisenberg fosse direttamente impegnato in un programma militare tedesco e volesse addirittura coinvolgere anche lui, o almeno avere informazioni su una possibile attività nucleare americana.

E’ stata proprio questa discrepanza a interessare e affascinare Michael Frayn, autore teatrale di grande successo, oltre che studioso di storia della scienza. E lo ha spinto a comporre nel 1998 un testo, Copenaghen, che è stato messo in scena in tutto il mondo. Si tratta di un esempio molto interessante di teatro ispirato alla scienza, non solo nel senso che mette in scena personaggi centrali della fisica del Novecento, non solo nel senso che al suo interno sono presenti temi di fisica e di epistemologia, ma anche perché - come vedremo - la struttura stessa del testo teatrale si ispira alla fisica quantistica. Diversi dibattiti e convegni sono stati stimolati da quest’opera. Il testo infatti tocca molteplici aspetti: la fisica del Novecento, le sue implicazioni conoscitive, la responsabilità etica dello scienziato, la concezione stessa della storia.

In Italia Copenaghen è stato messo in scena per 10 anni, dal 2000 al 2010, da Mauro Avogadro con gli attori Umberto Orsini (Bohr), Massimo Popolizio (Heisenberg), Giuliana Lojodice (Margrethe Bohr, moglie di Niels), ed è stato da poco ripreso nella stagione 2017-2018. Il testo è pubblicato in italiano dalla casa editrice Sironi.1

Metafora e struttura teatrale

Perché, dunque, Werner Heisenberg andò a Copenaghen da Niels Bohr nel 1941? Che cosa si dissero, in quell’occasione, i due scienziati? Fin dalle primissime battute, viene proposto da Margrethe - la moglie di Niels Bohr - quello che sarà il tema centrale del testo di Frayn. Siamo in un tempo indeterminato, dopo la morte dei tre protagonisti. Lungo tutto il testo teatrale, questo tempo si intreccia con quello del 1941 e con il ricordo degli anni Venti in modi diversi e sottili. E’ affascinante questa molteplicità di tempi che la magia del teatro rende di volta in volta presenti senza cambiamenti di scena o di costumi.

Il tono delle incalzanti domande di Margrethe è quello di chi pensa che una risposta possa venire trovata: una risposta precisa e univoca, che dissipi finalmente ogni dubbio. La posizione di Bohr, invece, sembra essere ormai di distacco, di rinuncia a una risposta non più necessaria: insomma, secondo lui, non è opportuno “disturbare gli spiriti del passato”, come concordarono i due scienziati in occasione di un loro incontro nel dopoguerra.

Ciò non significa, come già sappiamo, che egli non ricordi il senso di quel viaggio e lo svolgimento di quel colloquio. Ma i suoi ricordi sono così diversi da quelli di Heisenberg, e addirittura in contrasto con essi, da far pensare a una radicale impossibilità di ricostruire univocamente e oggettivamente quell’evento storico.

Questo è appunto uno dei temi centrali di Copenaghen. L’originalità della proposta di Frayn è quella di collegare questa impossibilità all’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica proposta da Bohr, uno dei pilastri fondanti dell’attuale fisica quantistica di cui avremo occasione di parlare tra poco. Egli, cioè, utilizzerà i concetti sviluppati da Bohr, da Heisenberg e da altri (tra cui Erwin Schrödinger, l’irriducibile rivale del giovane Werner) come metafore per la comprensione delle modalità e dei limiti della conoscenza della mente umana e degli eventi storici. Il che, come vedremo, porterà a utilizzarli anche come metafore strutturanti del testo teatrale.

L’affascinante ricostruzione della passione scientifica condivisa in quei lontani anni Venti permette di riproporre efficacemente in termini di immagini quotidiane i concetti centrali della meccanica quantistica. Viene risolto così brillantemente il problema di comunicare ai lettori e agli spettatori almeno qualche frammento dell’universo culturale entro cui i personaggi in scena si muovono, almeno qualche elemento che favorisca un’empatica condivisione del loro amore per la scienza.

In primo luogo, viene proposto il “principio di indeterminazione” di Heisenberg: esso - espresso in termini colloquiali - afferma l’impossibilità di conoscere completamente e contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella, o di un qualunque oggetto - addirittura, afferma paradossalmente Heisenberg nel testo teatrale, dello stesso Niels Bohr che percorre la stanza a grandi passi - senza perturbare la situazione osservata. Perché? Perché l’osservazione di una particella richiede di farla interagire anche solo con un atomo, o con una minuscola quantità di radiazione, la cui influenza non può venire trascurata.

Secondo Bohr, autore dell’interpretazione di Copenaghen, la situazione è ancora più complessa. Essa è legata all’insopprimibile dualità degli elementi del mondo sub-microscopico, che possono essere descritti in modo complementare come particelle o come onde. E i dati sperimentali si possono interpretare a volte con un modello, a volte con un altro, in relazione con la struttura dell’esperimento, cioè in relazione con la domanda che lo scienziato pone alla natura attraverso l’esperimento stesso. Un esempio classico - a cui scherzosamente si accenna anche nel testo teatrale - è quello del sorprendente esperimento delle due fenditure effettuato, ad esempio, con elettroni: quell’esperimento che i lettori di una rivista scientifica americana, Physics World, hanno indicato nel 2002 come il più bello di tutta la storia della fisica.

In Copenaghen, questo esperimento è introdotto attraverso il ricordo della straordinaria velocità di Heisenberg sugli sci, di fronte alla scelta improvvisa di curvare a destra o a sinistra.

HEISENBERG - Più scii veloce e meglio pensi.
BOHR - Non per contraddirti, ma questo è molto... molto interessante.
HEISENBERG - Come dire che è una sciocchezza. Ma non lo è. Le decisioni escono da sole quando scendi a settanta chilometri l’ora. Improvvisamente c’è l’orlo del nulla davanti a te. Curvi a sinistra? Curvi a destra? O ci pensi su e muori? Nella tua testa tu curvi in entrambe le direzioni...
MARGRETHE - Come quella particella.
HEISENBERG - Quale particella?
MARGRETHE - Quella che hai detto che passa contemporaneamente attraverso due diverse fenditure.
HEISENBERG - Oh, nel nostro vecchio esperimento mentale. Sì. Sì!
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Ciò che possiamo dire della natura

Consideriamo una situazione come questa. Un diaframma con due fenditure parallele, abbastanza larghe per far passare una palla da tennis. Poi prendiamo un cannoncino che spara palle da tennis e uno schermo su cui le palle, arrivando, lasciano un segno.

Si tratta di una situazione molto semplice. Parecchie palline rimbalzeranno sul diaframma, ma alcune passeranno da una delle due fenditure (o di qua o di là, come Heisenberg che scia velocemente) e arriveranno sullo schermo. Addirittura, potremmo filmare il tutto ad alta velocità, poi rallentare il film e seguire la traiettoria di ogni pallina. Dopo un certo tempo, che cosa ci aspettiamo di vedere? Due strisce verticali, con un po’ di dispersione ai lati per gli urti che alcune palline hanno avuto con i bordi delle fenditure.

Abbiamo studiato oggetti materiali che nella loro concretezza si muovono e producono risultati prevedibili. Ora consideriamo un caso diverso, pur sempre materiale: un’onda sulla superficie dell’acqua che si avvicina alle due fenditure. Ognuna delle due fenditure che lascia passare l’onda diventa, al di là del diaframma, sorgente di una nuova onda, e le due nuove onde interferiscono tra loro: dove tutte e due hanno una cresta, le loro ampiezze si sommano, mentre dove una ha una cresta e l’altra una valle, si annullano. Sullo schermo le onde disegneranno allora una figura di interferenza: un massimo al centro e poi tanti picchi ai lati di ampiezza minore.

All’inizio dell’800, Thomas Young ha fatto questo esperimento con onde luminose. Naturalmente, in questo caso le fenditure debbono avere una larghezza molto, molto minore (dell’ordine di un micrometro, ossia di un millesimo di millimetro) e una distanza tra loro dello stesso ordine di grandezza. Il risultato è simile a quello delle onde sulla superficie di un liquido. Questo è stato un esperimento molto importante, perché all’epoca era prevalente la teoria corpuscolare della luce proposta da Newton, mentre qui appare evidente la necessità di un’interpretazione ondulatoria.

A Copenaghen, Niels Bohr e i suoi collaboratori immaginano di fare questo esperimento con elettroni (effettuano, cioè, un esperimento mentale, come si usa dire nel gergo dei fisici). Certo, ci vorrebbero fenditure molto più sottili (oltre mille volte più sottili!) di quelle di Young. E prevedono che, anche in questo caso, si vedranno sullo schermo delle frange di interferenza, come quelle delle onde o della luce. Eppure gli elettroni sono particelle! Particelle che si comportano come onde? Il risultato dell’esperimento, effettuato diversi anni dopo, richiede un’interpretazione in termini di onde: secondo l’interpretazione di Copenaghen, si tratta di onde di probabilità che interferiscono tra loro, fornendo la distribuzione di probabilità di trovare la traccia di ogni singolo elettrone sullo schermo. Non posso trattenermi dal dire che questo esperimento è stato fatto per la prima volta nel 1976 da tre giovani fisici nello scantinato dell’Istituto di Fisica di Bologna.

La considerazione degli elettroni come particelle funziona benissimo per spiegare il puntino lasciato da ogni singolo elettrone quando colpisce lo schermo, ma non per spiegare perché sullo schermo si formi una figura d’interferenza: perché, cioè, si abbia una serie regolare di strisce chiare dove gli elettroni arrivano e strisce scure dove non arrivano.

Che cosa succede se spariamo un elettrone alla volta? L’elettrone, in qualche modo, passa simultaneamente attraverso le due fenditure... Con che cosa interferisce quel singolo elettrone? Paul Dirac, uno dei più importanti fisici del Novecento, diceva che “interferisce con se stesso”. Ecco un paradosso della nuova fisica! Ma qui ci interessa questo aspetto: ogni volta che un elettrone viene sparato, e sullo schermo si forma un puntino, l’elettrone ha realizzato una delle moltissime possibilità dell’evento. Soltanto l’osservazione ripetuta permette di farsi un’idea della distribuzione di probabilità, e quindi delle molte possibilità tra le quali l’elettrone ogni volta ne sceglie una - non sappiamo come, se non in termini probabilistici.

A questo livello microscopico viene a cadere così il determinismo (il sapere con certezza, date le condizioni iniziali, come evolverà un sistema) su cui si basa la fisica classica. Gli oggetti quantistici sembrano vivere in mondi astratti intessuti di probabilità, che solo l’osservazione blocca in stati precisi. Dunque, l’elettrone come oggetto osservabile esiste soltanto quando viene osservato. Non possiamo nemmeno chiederci attraverso quale delle due fenditure è passato. Questa è la conclusione paradossale che ha convinto i più grandi fisici del Novecento... con l’eccezione di Albert Einstein, che ha sempre sostenuto che la teoria quantistica è solo l’abbozzo di una teoria più ampia nella quale i paradossi (sintomi di incompletezza) spariranno.

Ma l’osservazione, come ci ha detto Heisenberg, è una perturbazione, per cui questa nuova fisica non è indipendente dall’osservatore!

BOHR – Tu lo vedi quello che abbiamo fatto in quei tre anni, vero Heisenberg? Senza esagerazioni, abbiamo rivoluzionato il mondo! Abbiamo riportato l’uomo al centro dell’universo. Nel corso della storia ci siamo sempre trovati fuori posto, relegati alla periferia delle cose. Prima semplici strumenti degli inconoscibili disegni di Dio, esili figure prostrate nella grande cattedrale della creazione. E non appena abbiamo ritrovato noi stessi nel Rinascimento, appena l’uomo è divenuto - come lo definiva Protagora - la misura di tutte le cose, di nuovo siamo stati messi da parte dai prodotti della nostra stessa ragione! Di nuovo siamo schiacciati quando i fisici costruiscono le grandi cattedrali da guardare con stupore - cioè quelle leggi della meccanica classica che ci precedono fin dall’inizio dell’eternità e ci sopravviveranno fino alla fine dell’eternità, anche se noi non esisteremo più. Finché, arrivati alla fine del ventesimo secolo, siamo spinti ad alzarci di nuovo in piedi. […] Qui a Copenaghen, in quei tre anni durante gli anni Venti, scopriamo che non esiste un universo oggettivo precisamente determinabile. Che l’universo esiste solo nei limiti stabiliti dal rapporto che abbiamo con esso.3

Forse l’affermazione più drastica su questa nuova fisica è stata proprio quella di Niels Bohr:

Non esiste un mondo quantistico. C’è solo una descrizione fisica astratta quantistica. E’ sbagliato pensare che lo scopo della fisica sia scoprire come è fatta la natura. La fisica riguarda solo quello che possiamo dire della natura.4

In altre parole, la fisica costruisce modelli del mondo, non scopre la verità del mondo. Una posizione filosofica non nuova, che però assume nel testo di Frayn un significato che trascende la scienza.

Una visita incomprensibile

In un tempo indeterminato, Bohr e la moglie si chiedono il senso della visita del giovane collega: forse si parlerà di fissione nucleare... Nel frattempo Heisenberg, pensieroso, si avvia verso la loro casa, per una riedizione del misterioso incontro del 1941.

HEISENBERG - E così eccomi qua, in cammino, nel tramonto autunnale, verso la casa dei Bohr a Ny-Carlsberg. Che cosa provo? Paura, certo: quel pizzico di paura che si prova sempre di fronte a un insegnante, a un datore di lavoro, a un genitore. Ma una paura peggiore per quello che ho da dire. Per come dirlo. Per come affrontare l’argomento. E una paura ancora peggiore per quello che accadrà se fallisco.5

L’incontro sta per avere luogo. Come si è già accennato, non si tratta di un ricordo, ma di una vera e propria riedizione dell’incontro stesso. Infatti, è come se i personaggi, e Heisenberg in primo luogo, non sapessero ancora come l’incontro si svolgerà. Questo è il nucleo strutturale dell’intera opera di Frayn: da un luogo e un tempo indeterminati si passa non al ricordo del passato, ma a una sua riedizione - anzi, come vedremo nel seguito, a molteplici riedizioni. L’analogia è con l’esperimento di fisica quantistica prima ricordato: solo ripetendolo più volte si può avere un’idea delle molteplici possibilità che in esso erano contenute prima che avesse luogo.

I due scienziati escono ancora una volta, come negli anni ormai lontani, per una passeggiata. In questa riedizione dell’incontro del 1941, Heisenberg e Bohr riprovano a cogliere e a condividere la verità di quell’incontro sul quale, in vita, le loro testimonianze sono state così diverse. Inizia così una conversazione che presto però si rivela difficile, per l’inevitabile presenza, tra i due interlocutori, della drammatica situazione politica che - al di là dei loro sentimenti - li rende nemici. Margrethe è la distaccata e pensosa testimone dell’incontro.

Heisenberg ripropone ciò che allora avvenne, o meglio, ciò che non avvenne, ciò che egli non riuscì a dire chiaramente all’antico maestro. Il problema centrale, per lui, è il dilemma etico con cui i fisici sono confrontati. La decisione sulla costruzione di una bomba - egli afferma con angoscia - sarà prima o poi nelle nostre mani di scienziati. Bohr, però, obietta di non credere che la vera ragione del viaggio fosse quella della risposta da dare, prima o poi, come fisici ai politici. A meno che Heisenberg non sospetti l’esistenza di un programma americano. In quel caso - ammette il fisico tedesco - egli stesso sarebbe certamente disposto a lavorare per i nazisti, pur di salvare la propria amata patria.

Su questo insanabile contrasto, l’’incontro si interrompe bruscamente, e Heisenberg se ne va. A questo punto, la proposta di Bohr è quella di dare una nuova versione del colloquio, non attraverso la riflessione retrospettiva, ma attraverso una seconda messa in scena.

Un secondo esperimento

Frayn sviluppa così sul palcoscenico una sorta di esperimento mentale del quale non è possibile conoscere un esito univoco, ma soltanto i diversi esiti possibili, ripetendolo più volte.

BOHR - Allora, Heisenberg, perché eri venuto?
HEISENBERG - Perché ero venuto?
BOHR - Diccelo ancora una volta. E questa volta sarà quella giusta. Questa volta capiremo. [...] Dopo tutto, i comportamenti dell’atomo erano difficili da spiegare. Abbiamo tentato molte volte. Ogni volta che tentavamo diventavano più oscuri. Comunque, alla fine, ci siamo riusciti. Dunque: un’altra versione, un’altra versione.
HEISENBERG - Perché ero venuto? E di nuovo rivivo quella sera del 1941. Avanzo scalpicciando sulla ghiaia familiare, e tiro la familiare catena del campanello. Che cosa provo? Paura, certo, e l’assurda e orribile importanza di colui che porta cattive notizie. Però... sì... anche qualche altra cosa. Ci risiamo. Riesco quasi a vedere il suo aspetto. Qualcosa di buono. Qualcosa di allegro e spensierato e speranzoso. [...]
BOHR - Carissimo Heisenberg!
HEISENBERG - Carissimo Bohr!
BOHR - Prego, accomodati...
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All’inizio del nuovo colloquio, l’interesse si sposta sugli anni Venti, e sugli entusiasmanti sviluppi della fisica teorica di cui i due scienziati sono stati protagonisti. Ancora una volta, nelle parole di Heisenberg, l’amore per la fisica si intreccia all’amore per il proprio paese.

La conversazione prosegue toccando una questione centrale di fisica: come mai Heisenberg sbagliò clamorosamente la valutazione della quantità di U235 necessaria per permettere la reazione a catena? Come mai non scrisse correttamente le equazioni?7 Forse volutamente, perché non cercava affatto di costruire una bomba? Questo è ciò che egli sostenne dopo la guerra. Ed è ciò che sembra emergere, pur con qualche ambiguità, dalle conversazioni - segretamente registrate - tra i fisici tedeschi, tenuti prigionieri dai servizi segreti britannici nel 1945 a Farm Hall, una località non lontana da Cambridge.8

HEISENBERG - Posso solo dire che non l’ho fatto io. Io non ho costruito la bomba.
MARGRETHE - No, e perché? Te lo dico io, anche questo. Per la più semplice delle ragioni. Perché non ne eri capace. Non hai capito la fisica.
HEISENBERG - La capivo benissimo. Semplicemente non lo dicevo agli altri.
MARGRETHE - Ah.
HEISENBERG - Comunque, l’avevo capita.
MARGRETHE - Ma in segreto.
HEISENBERG - Puoi controllare, se non mi credi.
MARGRETHE - Esistono prove, una volta tanto?
HEISENBERG - È stato tutto registrato con cura.
MARGRETHE - Con dei testimoni, persino?
HEISENBERG - Testimoni incontestabili.
MARGRETHE - Che l’hanno messo per iscritto?
HEISENBERG - L’hanno registrato e trascritto.
MARGRETHE - Anche se tu non lo dicesti mai a nessuno?
HEISENBERG - Lo dissi a una sola persona: a Otto Hahn. [...]
BOHR - Ma la massa critica! Gli desti una stima! Qual era la stima che gli desti? [...]
HEISENBERG - Era cinquanta chilogrammi.
BOHR - Allora è questa la stima che desti a Hahn? Cinquanta chilogrammi?
HEISENBERG - Gli dissi circa una tonnellata.
BOHR - Circa una tonnellata? Mille chilogrammi? Heisenberg, mi sembra di cominciare a capire qualcosa, finalmente.
HEISENBERG - L’unica cosa sulla quale mi sono sbagliato.
BOHR - Ti sei sbagliato di venti volte in eccesso.
HEISENBERG - L’unica cosa.
BOHR - Ma, Heisenberg, i tuoi calcoli, i tuoi calcoli! Come potevano essere tanto sballati? [...]
HEISENBERG - Ma perché non l’hai calcolata tu? [...]
BOHR - È ovvio perché io non l’ho fatto.
HEISENBERG - Vai avanti.
MARGRETHE - Perché lui non stava cercando di costruire una bomba!
HEISENBERG - Sì. Grazie. Perché non stava cercando di costruire una bomba. Immagino che fosse la stessa cosa per me. Perché neanche io stavo cercando di costruire una bomba. Grazie.
BOHR - Allora hai bluffato! [...] Ma in quel caso...
HEISENBERG - Perché sono venuto a Copenaghen? Già, perché sono venuto...?
BOHR - Un’altra versione, sì! Una versione definitiva!
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Tra due cifre molto diverse (cinquanta chilogrammi, una tonnellata) si colloca tutto il mistero del comportamento di Heisenberg all’interno del programma atomico nazista, del quale (si scoprì in seguito) era il responsabile fin dal 1939. Si tratta di una forbice la cui importanza sembra essere stata inspiegabilmente (forse inconsciamente) sottovalutata da un teorico del suo livello. A meno che non l’abbia fatto di proposito, per rallentare il programma nucleare tedesco...

Ancora una volta, il colloquio si interrompe. In questo caso, l’immagine di sé proposta da Heisenberg, che però non convince Bohr, è quella, piuttosto ambigua, di chi ha attuato una sorta di resistenza nei riguardi della ricerca militare, in un disperato sforzo di salvaguardare contemporaneamente gli studi sui reattori. Ma, anche sui reattori, l’ambiguità rimane. Lo scopo era quello di produrre energia o piuttosto quello di produrre plutonio? Ancora una volta, nell’ambito della metafora di cui si è detto, Bohr propone una nuova, ultima riedizione del colloquio.

Una smarrita inquietudine

HEISENBERG - E di nuovo avanzo scalpicciando sulla ghiaia familiare fino al portone di casa Bohr, e tiro la familiare catena del campanello. Perché sono venuto? Lo so benissimo. Lo so al punto che non ho bisogno di chiedermelo. Finché di nuovo il pesante portone si apre.
BOHR - E’ lì, fermo sulla soglia, e sbatte le palpebre davanti all’improvvisa luce proveniente dalla casa. Fino a questo istante i suoi pensieri sono stati dovunque e in nessun luogo, come particelle inosservate [...]. Ora debbono essere osservate e specificate.
HEISENBERG - E all’improvviso i propositi, pur chiari dentro la mia testa, perdono ogni contorno definito. La luce li colpisce ed essi si disperdono.
BOHR - Carissimo Heisenberg!
HEISENBERG - Carissimo Bohr!
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Per la terza volta, i due fisici si dispongono a mettere in scena l’incontro sotto lo sguardo di Margrethe. La situazione - osserva Bohr - forzerà Heisenberg verso uno stato definito, mentre in precedenza “i suoi pensieri sono stati dovunque e in nessun luogo, come particelle inosservate”. Questa nuova edizione del colloquio fotograferà, per così dire, pensieri e discorsi in una delle loro possibili esplicazioni. Così facendo, però, non potrà non perturbarli...

BOHR - A meno che… Supponiamo per un istante che io non schizzi via nella notte. Che cosa succede invece se mi ricordo del ruolo paterno che dovrei interpretare e mi fermo? E controllo la mia rabbia, e mi rivolgo verso di lui? […]
MARGRETHE - L’ultima e la più importante richiesta di Heisenberg alla tua amicizia fu di essere capito laddove non riusciva neppure a capire se stesso. E l’ultimo e più importante gesto di amicizia per Heisenberg che tu gli abbia ricambiato fu lasciarlo nell’indeterminazione.
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Lo sviluppo di questo nuovo colloquio è inatteso - come può accadere in un esperimento di fisica - e getta nuova luce sulla situazione. Infatti, il silenzio di Bohr nel corso del colloquio del 1941 si può interpretare - propone Frayn attraverso Margrethe - come un atto di amicizia, di rispetto della complessità dei pensieri e dei sentimenti dell’antico allievo, che forse desiderava sopra ogni altra cosa “stringere una mano amica”,12 ed essere “capito laddove non riusciva neppure a capire se stesso”.

Solo dopo la morte - sembra suggerire Frayn con la scelta di questa struttura teatrale - quando l’azione è ormai radicalmente impossibile, si può tentare di ritrovare la complessa verità delle intenzioni e dei pensieri, immaginando molteplici sviluppi possibili del colloquio. La sua verità sarà allora il fascio di tutti questi sviluppi, e non soltanto la verità dei fatti, spesso sconosciuta ma comunque insufficiente per la conoscenza, e inoltre inadeguata a fondare un discorso etico.

Come legare, infatti, il giudizio etico semplicemente agli avvenimenti che si sono prodotti, sapendo che questi stessi avvenimenti non sono che una delle possibilità, e forse nemmeno la più rilevante, tra quelle che avrebbero potuto tradursi in atto? Come giudicare Heisenberg soltanto in base al fatto che il programma atomico nazista da lui diretto non ha avuto le conseguenze tragiche che hanno caratterizzato invece il progetto Manhattan? Come giudicare Bohr unicamente per la sua collaborazione più o meno marginale a quest’ultimo programma? Chi, dunque, è più colpevole? Chi è più responsabile tra i due, nel contesto della tragedia bellica? Più in generale, a quale etica fare riferimento? A un’etica dei risultati, oppure a un’etica delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte, anch’esse peraltro impossibili da cogliere in modo univoco?

Un nucleo finale di indeterminazione

Al termine del lungo esperimento mentale di Michael Frayn, si presenta il tema di ciò che resterà dopo: dopo tutti questi tentativi di capire, dopo i loro protagonisti, dopo i fantasmi che ne hanno occupato la mente e il cuore.

MARGRETHE - Quando i nostri occhi saranno chiusi, quando anche i fantasmi saranno scomparsi, che cosa rimarrà del nostro beneamato mondo? Del nostro devastato e disonorato e beneamato mondo?
HEISENBERG - Ma nel frattempo, in questa preziosissima frazione di tempo, qualcosa c’è. [...] I nostri figli e i figli dei nostri figli. Salvati, forse, da quell’unico breve istante a Copenaghen. Da un qualche evento che non sarà mai esattamente individuato o definito. Da quel nucleo di indeterminazione che sta nel cuore delle cose.
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Forse l’Europa è stata salvata dalle bombe tedesche da “quell’unico breve istante a Copenaghen”. Ma questo non è che uno dei possibili risultati dell’esperimento mentale sull’incontro del 1941: un esperimento teatrale ispirato all’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica, la quale ha portato con sé - secondo Frayn - implicazioni significative per la comprensione delle intenzioni, dei pensieri e dei comportamenti umani.

Più che mai, negli anni bui della guerra, le scelte dei fisici - le scelte di impegnarsi o meno su un programma di ricerca nucleare - sono state cariche di un enorme peso etico. La ricerca ha mostrato la sua inevitabile dimensione tecnologica e politica accanto a quella conoscitiva, straordinariamente affascinante e apparentemente pura. Come non vedere il fascino e la bellezza delle scoperte di fisica che in quegli anni si sono succedute? Come non vedere, nello stesso tempo, le terribili implicazioni belliche e insieme le auspicate conseguenze pacifiche?

Al di là delle responsabilità dei singoli scienziati, la scienza ha perduto per sempre, in quegli anni, l’alone di purezza tanto caro agli scienziati, la caratteristica di una disinteressata contemplazione del mondo e delle sue leggi per diventare piuttosto uno sviluppo di strumenti concettuali per agire sul mondo e trasformarlo. Essa si inserisce quindi inevitabilmente nel mondo, con il suo carico di ambiguità e, come è stato detto, di peccato.

Note:
1 M. Frayn, Copenaghen, Sironi, Milano, 2003.
2 M. Frayn, Copenaghen, cit, p. 28.
3 M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 79-80.
4 Citato in A. Petersen, “The philosophy of Niels Bohr”, The Bulletin of the Atomic Scientists, settembre 1963, p. 12.
M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 11-12.
M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 59-60.
7 Una esauriente trattazione della fisica del problema si può trovare in J. Bernstein, “Heisenberg and the critical mass”, American Journal of Physics, 70, 9, 911-916. Per un inquadramento storico delle vicende scientifiche e politiche dell’epoca, si può vedere P. Greco, Hiroshima: la fisica conosce il peccato, Editori Riuniti, Roma, 1995.
M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 59-60.
9 M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 59-60.
10 M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 95-96.
11 M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 98-99.
12 P. Langdal, Lecture, in “Niels Bohr Archive Seminar: Copenaghen and beyond”, Niels Bohr Institute, Copenaghen, www. nbi.dk/nba.
13 M. Frayn, Copenaghen, cit, pp. 59-60.
Bibliografia:
J. Bernstein, Il club dell’uranio di Hitler, Sironi, Milano, 2005.
M. Frayn, Copenaghen, Sironi, Milano, 2003.
P. Greco, Hiroshima: la fisica conosce il peccato, Editori Riuniti, Roma, 1965.
R. Jungk, Brighter than a thousand suns, Penguin Books, Harmondsworth, 1958 (trad. it Gli apprendisti stregoni, Einaudi, Torino, 1958).
 

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