Fuga dei cervelli. Licenza: CC BY-SA 2.0.
E’ sorprendente che finora la campagna elettorale in Italia non abbia toccato il tema della ricerca scientifica, considerata evidentemente da tutti i partiti come un argomento trascurabile. Eppure investire in ricerca è una delle strade maestre per far ripartire l’economia e l’innovazione nel Paese.
Lo ha capito molto bene il presidente francese Emmanuel Macron, che dal giorno del suo insediamento ha mostrato uno spiccato interesse verso la scienza, in particolare verso gli investimenti strategici nei settori dell’intelligenza artificiale e delle misure contro il cambiamento climatico. Lo ha capito ancora di più Angela Merkel, che grazie anche al suo retroterra da fisico ha ben chiaro che la competizione internazionale si gioca sul terreno della conoscenza. Per questo nel suo programma la Grosse Koalition ha dichiarato di voler portare l’investimento in ricerca dal 3 al 3,5% del prodotto interno lordo, lanciandosi all’inseguimento di Israele e Corea del sud (4,5%), Svizzera, Giappone, Svezia e Austria (dal 3 al 3,5%).
L’Italia stagna da anni intorno ad un investimento in ricerca dell’1,2-1,3% sul PIL, in compagnia di Spagna, paesi balcanici e dell’Est europeo, e ben staccata da Francia, Gran Bretagna e Nord Europa. Siamo quindi lontani sia dalla media del finanziamento UE del 2%, che dalla media dei paesi OCSE del 2,4%, e a meno della metà del valore minimo del 3% consigliato dalla Commissione Europea per assicurare la crescita e la creazione di un meccanismo virtuoso di indotti positivi.
Non va meglio se consideriamo il numero dei ricercatori italiani rispetto agli altri paesi, anche limitandoci a quelli più vicini. Con 4,9 ricercatori ogni mille lavoratori, il nostro Paese ne ha poco meno della metà della media dei paesi dell’OCSE (8,2), e meno della Spagna (6,6), e ovviamente di paesi come la Germania (9), Gran Bretagna (9,2) e Francia (10). Coerentemente, siamo gli ultimi in Europa riguardo alla percentuale di laureati tra i giovani fra i 25 e i 34 anni: solo il 24%.
E’ ora quindi di prendere molto sul serio il nostro deficit nel campo della ricerca e dell’istruzione superiore e farne un punto qualificante nei programmi elettorali dei partiti. Negli ultimi mesi, un segnale incoraggiante è arrivato dal finanziamento alla ricerca di base con il bando PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) del MIUR, che per la prima volta si è attestato sui 400 milioni di euro, seguito dal finanziamento dei dipartimenti universitari più meritevoli secondo le valutazioni dell’Agenzia Anvur. Ma si tratta ancora di interventi estemporanei che vanno resi costanti e sistematici, inseriti in una programmazione nazionale che porti molto rapidamente l’Italia a investire in ricerca e sviluppo almeno il 2-2,5% del PIL, creando anche le opportune facilitazioni ai privati per aumentare il loro contributo, in Italia particolarmente basso.
Tutti i centri di ricerca italiani devono prima di tutto poter contare su una dotazione adeguata per sviluppare le loro linee di ricerca, che spesso riescono ad essere ancora competitive in ambito internazionale grazie all’impegno quasi volontario dei giovani che ancora credono nel loro lavoro e che, peraltro, vengono pagati circa la metà dei loro colleghi all’estero. E’ necessario creare un ambiente fertile di innovazione locale (“ricerca diffusa”) finanziando non solo i gruppi di eccellenza già consolidati (che spesso già riescono ad attrarre finanziamenti dalla Commissione Europea) ma anche i gruppi giovani e promettenti, che non hanno ancora la solidità e l’autorevolezza per poter aspirare a un finanziamento internazionale. Solo così si creerà un ecosistema favorevole all’innovazione e capace di attrarre talenti dall’estero.
Garantita la ricerca diffusa, bisogna poi aumentare il finanziamento competitivo - quindi attraverso bandi - che nel nostro paese rappresenta ancora una percentuale infima rispetto al budget totale allocato annualmente alle Università e agli Enti di ricerca, erogato per lo più attraverso fondi ordinari, che a malapena pagano gli stipendi del personale e solo marginalmente son finalizzati a specifici progetti di ricerca. Anche per questo, da anni il Gruppo 2003 per la ricerca invoca la creazione di una Agenzia nazionale che valuti in modo indipendente la qualità dei progetti e li finanzi di conseguenza, come da anni fanno le charities come Telethon e AIRC, l’associazione italiana per la ricerca sul cancro. Non c’è paese sviluppato che non abbia una o più agenzie di questo tipo, capaci di far crescere sempre più la competitività internazionale dei loro gruppi di ricerca.
Chi si appresta a governare il paese nei prossimi anni non può ignorare l’appello che giunge dal mondo della ricerca. Solo potenziando istruzione universitaria, scienza e tecnologia, e promuovendo il trasferimento delle scoperte di base alle aziende del paese, l’Italia può ambire a mantenere il suo status di paese sviluppato e giocare un ruolo nella nuova “economia della conoscenza” che sta plasmando il mondo di domani.
Nicola Bellomo, Maria Pia Abbracchio
Presidente, Vice-Presidente di Gruppo 2003 per la ricerca
L’articolo è apparso in forma leggermente ridotta come Editoriale sul Corriere della Sera il 7 febbraio 2018, pag. 26.