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Un nuovo cacciatore di mondi

Veduta notturna delle tre cupole di ExTrA sotto un cielo spettacolare in cui spiccano gli asterismi di Orione, appena alla destra del centro, e dell'ammasso stellare delle Pleiadi, verso sinistra. Crediti: ESO/Petr Horálek.

Tempo di lettura: 7 mins

All’Osservatorio di La Silla, sulle Ande cilene, ha iniziato la sua attività un innovativo sistema composto da tre telescopi per l’osservazione infrarossa dedicati alla ricerca e allo studio di pianeti extrasolari. Gli strumenti a disposizione dei cacciatori di pianeti, dunque, si arricchiscono di un nuovo importante elemento, ghiotta occasione per fare il punto di questa ricerca.

Migliaia di pianeti

Ormai ci abbiamo quasi fatto l’abitudine e l’annuncio della scoperta di nuovi pianeti è diventato normalità. Le “innumerevoli terre tutte ruotanti attorno ai loro soli” coraggiosamente evocate da Giordano Bruno nel suo dialogo De l'infinito, universo e mondi pubblicato nel 1584 a Londra non appartengono più a dotte e aride disquisizioni filosofiche, ma sono solide realtà. Eppure sono trascorsi solamente 25 anni da quando Alezander Wolszczan e Dale Frail comunicarono la scoperta di due pianeti in orbita attorno a una pulsar nella costellazione della Vergine. A suggerire quelle presenze fu lo studio accurato delle variazioni nelle pulsazioni di PSR B1257 +12 raccolte nel corso di una campagna di osservazioni realizzata con il radiotelescopio di Arecibo. Situazione senza dubbio anomala quella dei due pianeti sopravvissuti all’esplosione stellare che aveva originato la pulsar.

Decisamente più normale, invece, l’orbitare di un pianeta intorno a 51 Pegasi, una normalissima stella nana gialla distante circa 58 anni luce, un po’ più grande e vecchia del nostro Sole. Pianeta annunciato nel 1995 da Michel Mayor e Didier Queloz (Osservatorio di Ginevra) dopo attente misurazioni delle variazioni della velocità radiale della stella, cioè del suo moto in avvicinamento e allontanamento rispetto alla Terra. Non tutti concordavano con l’interpretazione data a quel moto stellare da Mayor e Queloz, ma dinanzi alle prove presentate una decina di giorni più tardi da Geoff Marcy e Robert Butler al 187° Meeting dell’American Astronomical Society i dubbi svanirono. I dati raccolti con lo spettrografo Hamilton del Lick Observatory in California parlavano chiaro: era stato scoperto il primo pianeta in orbita attorno a una stella “normale”.

Da allora un crescendo di scoperte, con gli astronomi indaffarati non solo a inventarsi nuove tecniche osservative, ma anche a costruire sempre più sofisticati strumenti per stanare i pianeti e far emergere la loro presenza a dispetto dell’intenso alone di luce nel quale sono inevitabilmente immersi. La situazione attuale (11/02/2018) vede 3.729 pianeti confermati appartenenti a 2.795 differenti sistemi planetari; oltre a questi, però, ci sono altri 2.423 pianeti in paziente attesa di conferma definitiva. La parte del leone in queste scoperte la sta giocando il telescopio spaziale Kepler, lanciato dalla NASA nel marzo 2009 e incaricato di sorvegliare le minime variazioni di luce di 150 mila stelle nella regione celeste compresa tra la costellazione della Lira e quella del Cigno. Praticamente un accurato cacciatore di eclissi, pronto a registrare quando il transito del pianeta dinanzi al disco stellare ne riduce il flusso luminoso.

Kepler non è certo l’unica arma a disposizione dei cacciatori di pianeti extrasolari, egregiamente affiancato sia da altre prolifiche missioni spaziali, sia da impegnativi progetti che impiegano telescopi sulla superficie terrestre. L’ultima struttura astronomica a prendere servizio è quella di ExTrA (Exoplanets in Transits and their Atmospheres), un progetto francese finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche (ERC).

Altra immagine notturna delle tre cupole, illuminate e in primo piano, che ospitano i telescopi di ExTrA. Sullo sfondo sono visibili molti altri telescopi dell'Osservatorio di La Silla dell'ESO, testimonianza di come le Ande cilene siano una scelta molto gettonata per le installazioni astronomiche. Crediti: ESO/Emmanuela Rimbaud.

Nane rosse nel mirino

Le tre cupole da quattro metri costruite a La Silla, al confine del deserto cileno di Atacama, ospitano ciascuna un telescopio da 60 cm per l’osservazione infrarossa, osservazioni rese possibili grazie alla quota cui sorge l’osservatorio e al clima particolarmente secco. Anche i telescopi di ExTrA sfruttano la tecnica dei transiti, cioè controllano regolarmente la quantità di luce ricevuta da diverse nane rosse e cercano una leggera diminuzione della loro luminosità imputabile al passaggio di un pianeta dinanzi al disco stellare. L’approccio osservativo, però, è più complesso.

I telescopi, infatti, non si limitano a tenere d’occhio la stella bersaglio, ma raccolgono anche la luce di quattro stelle di confronto in modo da riuscire, mitigando il fastidioso disturbo arrecato dalla nostra atmosfera, a individuare anche i cambiamenti più insignificanti nella loro luminosità. Inoltre, la luce raccolta viene convogliata tramite un sistema di fibre ottiche a uno spettrografo multi-oggetto, il che permette di affiancare a semplici rilevazioni fotometriche importanti misurazioni spettroscopiche. Il progetto prevede che le attività dei tre telescopi vengano completamente gestite in remoto dall’Università di Grenoble (Francia).

Perché concentrarsi sulle nane rosse? La risposta è molto semplice: anzitutto, se osserviamo la luce emessa da una piccola stella, il transito di un pianeta bloccherà una frazione maggiore della luce stellare, dunque il calo di luminosità sarà più evidente; inoltre, le stelle nane di tipo M, astri molto comuni nella Via Lattea, possono ospitare pianeti di dimensioni terrestri, ghiotti obiettivi per gli astronomi interessati a scoprire mondi capaci di accogliere la vita. Non dimentichiamo che proprio la stella più vicina al Sole, Proxima Centauri, è una nana M e che, neppure due anni fa, si è scoperto che intorno a essa orbita un pianeta di massa terrestre.

Xavier Bonfils, l’astronomo francese a capo del progetto, non nasconde il suo entusiasmo, anche in vista dei possibili sviluppi futuri: “Con la prossima generazione di telescopi, come l'ELT (Extremely Large Telescope) dell'ESO, potremmo riuscire a studiare l'atmosfera di esopianeti trovati da ExTrA per cercare di stabilire la possibilità che questi pianeti supportino la vita come la conosciamo. Lo studio degli esopianeti sta portando quella che una volta era fantascienza nel mondo della scienza”.

Parlando di pianeti simili al nostro in orbita intorno a una stella nana, non possiamo certo ignorare l’ultima scoperta riguardante TRAPPIST-1, un sistema planetario distante una quarantina di anni luce dal Sole scoperto nel 2016 proprio a La Silla dal telescopio TRAPPIST-South dell’ESO.

Ricchezza d’acqua

In uno studio coordinato da Simon Grimm (Università di Berna), di prossima pubblicazione su Astronomy & Astrophysics, si suggerisce che i sette pianeti in orbita intorno a quella nana ultra fredda hanno una composizione prevalentemente rocciosa e alcuni potrebbero anche ospitare un quantitativo d’acqua superiore a quello della Terra. La disponibilità dei dati provenienti da più fonti, compresi il Very Large Telescope, i telescopi del progetto SPECULOOS (Search for habitable Planets EClipsing ULtra-cOOl Stars) attivo presso l’Osservatorio del Paranal e i telescopi spaziali Kepler e Spitzer, ha permesso al team di Grimm di modellare numericamente le possibili caratteristiche del sistema planetario e le masse dei pianeti che lo compongono. Nel comunicato stampa dell’ESO è lo stesso Grimm a spiegare come sia stato possibile: “I pianeti di TRAPPIST-1 sono così vicini l'uno all'altro che interferiscono tra di loro per effetto della gravità, così che il momento in cui passano di fronte alla stella si sposta leggermente. Lo spostamento dipende dalla massa dei pianeti, dalla loro distanza e da altri parametri orbitali. Con un modello numerico al computer simuliamo le orbite dei pianeti finché i transiti calcolati non sono in accordo con i valori osservati. Da qui deriviamo le masse dei vari pianeti”.

Il digramma mette a confronto i sette pianeti di TRAPPIST-1 (indicati con le lettere da b ad h) con i pianeti rocciosi del Sistema solare. L’asse orizzontale indica il livello di illuminazione che ciascun pianeta riceve dalla stella che lo ospita, mentre l’asse verticale indica la densità del pianeta. La densità, calcolata basandosi sulla massa e sulle dimensioni del pianeta è un primo importante passo per la comprensione della composizione del corpo celeste. Crediti: NASA/JPL-Caltech.

Ora, insomma, la densità di quei pianeti è nota con molta maggior precisione di prima e suggerisce che alcuni di essi potrebbero avere fino al 5% di massa sotto forma di materiali volatili, probabilmente acqua. Un valore incredibilmente elevato, se pensiamo che sulla Terra la massa d’acqua ammonta solamente allo 0,02%. La sorpresa maggiore viene da TRAPPIST-1e, il quarto pianeta in ordine di distanza dalla stella, che sembra essere l'unico pianeta del sistema appena più denso della Terra. Questo suggerisce che potrebbe possedere un nucleo ferroso, ma che non necessariamente debba avere un'atmosfera densa, un oceano o uno strato ghiacciato in superficie.

Curiosamente, dunque, in termini di dimensione, densità e radiazione ricevuta è il pianeta di quel sistema più simile alla Terra, ma nella realtà potrebbe essere anche incredibilmente differente dal nostro confortevole pianeta.

 


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