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Lo abbiamo visto, l’Italia copre un ruolo marginale nel mercato mondiale dell’hi-tech. E il dato è direttamente correlato agli investimenti del paese in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico (R&S), come rileva anche la Relazione sulla Ricerca e l’Innovazione in Italia appena pubblicata a cura del CNR.
Non lasciatevi ingannare dal Capitolo 3 del rapporto, dedicato a Le pubblicazioni scientifiche. Non perché non sia corretto. Anzi: rileva, contrariamente a quanto propone uno stantio luogo comune, quanto gli scienziati italiani, malgrado le condizioni al contorno, siano tra i più bravi al mondo. Il problema non sono le capacità, altissime, dei nostri ricercatori. Il problema sono le condizioni al contorno, appunto, che fanno sì che i nostri siano sì bravissimi, ma anche pochissimi.
Non lasciatevi ingannare, dunque, neppure dalla seconda parte del Capitolo 1, dedicata a Il personale addetto alla R&S. Troverete che negli ultimi anni il numero di persone che fanno ricerca in Italia è più che raddoppiato (e anche così resta, in termini relativi, abbondantemente al di sotto della media europea). Si tratta solo di un artificio: è che a partire da una certa data, sono stati inclusi nel novero anche i precari. La verità sullo stato della ricerca in Italia è tutta contenuta nella prima parte del Capitolo 1, quella relativa a Le risorse finanziare per R&S.
Ahinoi, questa parte molto ben dettagliata, ci parla di una situazione stagnante. Di una stagnazione sconfortante. Perché mentre l’Italia resta ferma al palo, gli altri corrono. È vero, la Figura 1 mostra un’Italia che, tra il 2000 e il 2015, ha visto aumentare gli investimenti relativi in R&S dall’1,0 all’1,33% del Prodotto Interno Lordo (PIL). Ma anche in questo caso si tratta di un artificio, matematico: l’aumento è dovuto più alla diminuzione del denominatore (il PIL) che a un reale aumento del numeratore (gli investimenti assoluti in R&S). Nel medesimo periodo la media europea è passata dall’1,7 al 2,0%.
Figura 1 La spesa per R&S in rapporto percentuale al PIL in alcuni Paesi dell'OCSE dal 2000 al 2015. Fonte: OECD, Main Science and Technology Indicators database da OECD.Stat. Dal report Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia
La Germania dal 2,4 al 2,9%. Il Giappone dal 3,0 al 3,3%. Insomma, il gap rispetto al resto d’Europa e dei paesi più avanzati al mondo si allarga: l’aumento nominale della spesa italiana in R&S in questi anni è stata dell’1,88% annuo; mentre quello dell’Unione Europea è stato del 2,50%).
Intanto sulla scena sono comparsi nuovi attori, come la Cina e un nugolo di paesi asiatici, che in pochi anni ci hanno raggiunto e nettamente superati (la Cina investe in R&S il 2,1% del PIL; la Corea del Sud, il 4,3% e così via). In definitiva, la sostanziale stagnazione italiana è, in realtà, un vistoso passo indietro.
Stagnante è la spesa pubblica italiana. Certo – si veda la Figura 2 – ci sono paesi, come il Regno Unito, in cui l’investimento dei governi in R&S è drasticamente diminuito a partire dall’anno 2000. Ma ci sono altri paesi, come la Germania, dove invece è costantemente aumentato. Anche e soprattutto negli anni della crisi, successivi al 2008. I tedeschi per uscire dal tunnel economico hanno puntato sulla ricerca scientifica. E ci sono riusciti. Non sono stati i soli, visto che la spesa pubblica nell’Unione Europea è complessivamente arretrata. Invece i nostri governi hanno seguito nel solito, anonimo tran tran.
Figura 2 La spesa per R&S del governo in rapporto percentuale al PIL in alcuni Paesi dell'OCSE dal 2000 al 2015. Fonte: OECD, Main Science and Technology Indicators database da OECD.Stat. Dal report Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia
Non è stata una scelta, quella dei governi italiani, dettata da ragioni di bilancio. È stata una scelta (ahinoi) deliberata. Infatti, come mostrato in Figura 3, gli investimenti pubblici in R&S sono diminuiti di quasi il 40% tra il 2005 e il 2014 rispetto all’intera spesa dello stato. Al contrario, in Germania gli investimenti sono passati dall’1,6 al 2,0% della spesa pubblica. Cosa se ne ricava? Che il governo di Berlino ha creduto nella scienza mentre il governo di Roma ha fatto cassa sulla scienza.
Figura 3 Gli stanziamenti pubblici in rapporto percentuale alla spesa pubblica totale per R&S in alcuni Paesi dell'OCSE dal 2000 al 2015. Fonte: EUROSTAT, Research and Development database. Nota: il primo anno disponibile per l'Italia è il 2005. Dato 2015 non disponibile per Francia, Regno Unito, Giappone e Stati Uniti. Dal report Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia
Penalizzata è stata l’università. Ma anche e forse soprattutto gli Enti pubblici di ricerca (EPR). Quelli vigilati dal MIUR hanno visto diminuire i fondi del governo da 1.857,42 a 1482,54 milioni di euro tra il 2002 e il 2015: una perdita secca del 20%. L’Agenzia Spaziale Italiana (ASI) è passata da 752 a 498 milioni; il Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) da 682 a 533 milioni; l’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (INFN) da 338 a 250 milioni. Un taglio fortissimo, che non ha impedito loro di riuscire a recuperare fondi alternativi e di non perdere, semmai guadagnare, in qualità dei risultati scientifici raggiunti.
Una buona notizia è che sono aumentati gli investimenti privati, come mostrato in Figura 4. Va detto, però, che la base di partenza era molto bassa e che il sistema produttivo italiano segue, tutto sommato, un modello di sviluppo con ben poca ricerca. In altri termini, la specializzazione produttiva del nostro paese resta nel campo delle basse e medie tecnologie.
Figura 4 La spesa per R&S per settore istituzionale in rapporto percentuale al PIL in Italia dal 2000 al 2015. Fonte: elaborazione CNR-IRCRES su dati ISTAT, Ricerca e Sviluppo in Italia, anni vari, Tavola 1-2. Dal report Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia
La ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico sono una macchina complessa. Le sue parti sono fortemente interconnesse. Ma il motore, si sa, è la ricerca di base o curiosity driven. Ebbene, la Figura 5 mostra che il motore italiano è in moto. Non è fermo. Gli investimenti in ricerca di base sono passati da meno dello 0,30 a quasi lo 0,35% del PIL tra il 2005 e il 2015, con un passo simile a quello della Francia, degli Stati Uniti e anche della Spagna. Ma se la velocità è la stessa, questo significa che non siamo ancora in fase di recupero del gap pregresso. Il nostro aereo con i suoi ottimi piloti mantiene il passo in questo settore strategico della ricerca, ma resta in coda.
Figura 5 La spesa per ricerca di base in rapporto percentuale al PIL in alcuni Paesi dell'OCSE dal 2000 al 2015. Fonte: Fonte: OECD, Main Science and Technology Indicators database da OECD.Stat. Nota: i dati per l'Italia sono disponibili dal 2005; per il Regno Unito il primo dato disponibile è il 2007; per la Germania i dati non sono disponibile. Per Francia, Italia e Regno Unito non sono ancora disponibili i dati per il 2015. Dal report Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia
L’analisi geografica della distribuzione delle risorse pone qualche ulteriore problema, tuttavia. Nell’intero Mezzogiorno (Isole comprese) gli investimenti in R&S risultano appena il 17% della spesa nazionale complessiva. È un dato preoccupante per tre motivi. Intanto perché gli investimenti procapite nel Sud risultano decisamente inferiori a quelli nel Centro e nel Nord.
Il secondo motivo è che la forbice invece di restringersi tende ad aumentare. Come scrivono gli autori del rapporto:
«Imprese e Università sono i settori che caratterizzano la R&S nel Nord, mentre nel Sud e nelle Isole si distinguono i settori delle università e delle istituzioni pubbliche non accademiche. Questo significa anche che la contrazione dell’investimento pubblico in R&S colpisce maggiormente quest’area geografica che ha pochi spazi di recupero legati all’investimento privato… La diminuzione del finanziamento pubblico per R&S, dunque, ha un effetto particolarmente deprimente sui territori nazionali più svantaggiati sul piano economico».
In altri termini il Sud ha pagato più del Centro e del Nord i tagli alla spesa pubblica in R&S.
Il terzo e il più importante motivo, forse, è che il Sud ha sprecato una delle poche occasioni che aveva per resistere alla crisi e sperimentare altre strade di sviluppo economico, fondate su un bene – la conoscenza – che in linea teorica potrebbe essere quasi gratuito. L’effetto è evidente: in questi anni il Mezzogiorno ha visto emigrare all’incirca un milione di giovani, di cui 250.000 laureati. Non solo non ha aumentato, ma ha perduto il più prezioso dei capitali: il capitale umano.